19 aprile 2009

Ma il Prosecco in lattina resta in magazzino

Angelo Peretti
Certo, è una testata che fa parecchio gossip, però la notizia ha girato il mondo. Ma, curiosamente, s'è letta poco in Italia. Ebbene, il quotidiano inglese The Sun, con un articolo a firma di Tim Nixon, si occupa del Rich Prosecco. Ricordate? Il Prosecco in lattina pubblicizzato da Paris Hilton, di cui s'è tanto parlato tempo fa anche in Italia.
Il Sun, lo si sa, non è mica un giornale da poco in termini di diffusione: i dati del 2004 le attribuivano qualcosa come 3 milioni e 200 mila copie al giorno, per un totale di 8 milioni e mezzo di lettori. E che c''è dunque di nuovo sul fronte prosecchista in bussolotto da far parlare i tabloid britannici e, di conseguenza, i siti internet inglesi?
C'è che sembrerebbe che - traduco - il "Rich Prosecco - vino frizzante in lattina - non stia conseguendo i risultati attesi dalle previsioni di vendita" e che ci sia parecchio invenduto che "langue nei magazzini in giro per il mondo".
Il Sun dice anche che in azienda si rifiutano di pensare che alla base del problema ci sia la campagna pubblicitaria della Hilton. "Lei è la testimonial perfetta per il nostro prodotto", avrebbero dichiarato nella maison del Rich Prosecco. Del resto, la signora s'era fatta fotografare tutta nuda e pitturata d'oro, per reclamizzare le bolle in lattina. E ci sarebbero varie altre iniziative promozionali in cantiere.
Prendo il tutto con beneficio d'inventario, of course: staremo a vedere.

18 aprile 2009

Quelle "giornate no" di chi fa ristorazione

Angelo Peretti
Quando lavoravo allo sportello di banca, sapevo che c'erano due tipologie di giornate nelle quali occorreva tener alta la guardia. Erano il paio di settimane prima di Natale e i giorni di scarso afflusso di pubblico. Prima di Natale, si sa, crescono le rapine: anche i delinquenti vogliono far festa. E nei dì dalla minore affluenza, il rischio era invece quello di rilassarsi, e dunque di prestar meno attenzione, e dunque d'aver differenze di cassa.
Ecco, temo che la stessa sindrome da relax finisca per colpire molti. E soprattutto l'ho notato nel mondo della ristorazione. Ché se entri in un ristorante che è tutto pieno, sai che magari avrai da attendere un po', ma tutto alla fine filerà (abbastanza) liscio. Se invece varchi la soglia e non c'è quasi nessuno, allora potresti trovarti maluccio: disattenzioni, trascuratezze, piatti riusciti così così e via discorrendo.
M'è capitato poche sere fa. Inizio settimana, quando nei locali gira poca gente, appunto. Ero andato a provare un ristorante di cui mi avevano parlato bene. Il mio era un tavolo da tre. In sala solo un altro cliente. Quattro in tutto, insomma.
Ordiniamo tre primi e tre secondi. E siccome vedo che in lista c'è anche un piatto con la giardiniera di verdure, di cui son ghiotto, chiedo se ne posso avere un po'. Il cameriere mi dice che sì, me la porta volentieri, e mi spiega che la preparano loro, con verdure, come s'usa dire oggi, a chilometro zero (che vengono da poco lontano, insomma) e che adoperano olio extravergine e non aceto. E insomma, mi faccio convinto ch'è una di quelle giardiniere fatte a regola d'arte, e già mi vien l'acquolina.
Invece? Invece la giardiniera al mio tavolo non c'è mai arrivata. Passa il cameriere a sbarazzare e chiede, al solito: "Tutto bene?" Dico che no, tutto bene no, perché la giardiniera non è mai arrivata. Risposta sciocca: "Così le resta la voglia di tornare un'altra volta". Accidenti! Come cavolo si fa a dimenticare un'ordinazione con quattro, diconsi quattro clienti in tutto nella sala?
Vabbé, passi.
Due di noi hanno ordinato il dessert. Ma appena i dolci sono arivati, s'è sparsa in stanza un'insopportabile puzza d'aceto. Ora, ve l'immaginate cos'è mangiare aceto e cioccolato? Uno schifo. Alla cassa spiego che anche questa cosa non era stata gradita, e mi dicono che, insomma, avevano dovuto lavare il lavandino. Ma, dico io, siccome ormai c'eravamo solo noi tre (l'altro se n'era già andato da tempo), possibile non si potesse aspettare ancora qualche minuto a far quell'odore?
Ecco: credo che la questione sia stata proprio che c'era poca gente, e allora è calata la tensione del servizio, e si son fatte due cappellate uno in fila all'altra.
Ma dico anche che la cucina conta si e no un terzo nella qualità d'un ristorante (e lì la cucina era andata sostanzialmente bene), e il meglio è invece tutto nel servizio, nell'accoglienza, nell'ospitalità. Sennò tanto vale.
Ecco: questo manca troppo spesso all'italica ristorazione, ossia sapere che l'accoglienza è il vero valore d'un locale. Sempre e comunque. Che ci sia la sala piena o che sia mezza vuota, che tu ne abbia voglia o no, che in tv diano o no le partite di pallone (e quella sera, ahimè, giocavano, e l'attenzione del commis ne era, temo, attratta). Un erroruccio d'esecuzione d'un piatto può accadere. Ma essere inospitali no. Mai.

16 aprile 2009

Croissant Panificio Contolini

Angelo Peretti
In realtà, era da prima di Pasqua che volevo scrivere del panificio Contolini di Calmasino (la fotina ne ritrae un angolo: il panificio è praticamente di fronte, a poche centinaia di metri da Villa Belvedere, sede del Gruppo Italiano Vini, potenza dell'italico mondo enoico), frazione collinare di Bardolino, riva d'oriente del lago di Garda.
Pensavo di consigliare d'andare a comprare la loro colomba pasquale. Ma poi mi son detto: "Ecché, se ci va troppa gente rischio di restar senza io!" Dunque ha prevalso l'egoismo. Ed ho atteso.
Assicuro che la colomba dei Contolini è strepitosa. Di cosa deve sapere una colomba di Pasqua? Di farina, lievito madre, uova, burro, mandorle, uvetta, glassa. Ecco: la colomba dei Contolini sa, all'ennesima potenza, di farina, lievito madre eccetera eccetera. Peccato che ne fanno una quindicina di pezzi al giorno, mica di più.
Ora, se volete andarci, dai Contolini, non pensiate di trovare chissà quale boutique gastronomica. Si tratta d'un mini (ma proprio mini) market di paese. E dentro, sugli scaffali, ci son prodotti dell'industria agroalimentare. La roba davvero buona è quella fatta nel forno, nel retrobottega. E dunque, la colomba a Pasqua, e i croissant tutti i giorni.
Croissant per gente che se n'intende e ha stomaco buono. Mica quelle robette riscaldate nel microonde nei bar di città. Nossignori. Qui è un concentrato d'uova (bio) e di burro (caspita se ce n'è!) e di farina eppoi anche di confettura. Roba che con una ci mangeresti in due. Roba seria, tosta assai. Grandiose aperture di mattina. Peccato solo che per trovarli, 'sti croissant, occorra passare per forza (prestino: piccola produzione, vanno a ruba) da Calmasino.
In ogni caso: evviva i panettieri artigianali!

15 aprile 2009

Graves 1981 Chateau de Fieuzal

Angelo Peretti
Ecco, sono vini come questo che mi regalano gran soddisfazione epperò nel tempo stesso anche mi fanno incavolare. Mica per la bottiglia in sé, che ho trovato proprio buona buona, e avercene ancora dell'altre in cantina... Nossignori: m'incavolo perché a un certo punto nella vecchi'Europa s'è rinunciato a far vini così per inseguire le mode americane, e dunque ecco che tutti si son messi a concentrare, e a tirar fuori muscoli e tannini. E dunque per bere cose di questo stile "classico" bisogna andare a cercare bottiglie di Bordeaux che siano almeno di prima dell'86-'89. Ed è mica facile davvero.
Che ci ha di tanto raro, oggidì, questo Graves dell'81? Che è un Bordeaux di quelli d'una volta. Che giocavano tutto sul frutto e sulla freschezza. Mica sulla ciccia, proprio no. Pensate: 12 gradi d'alcol. Appena, verrebbe da dire.
Dunque eccoci a ventott'anni di distanza che il vino, appena gli togli il tappo, e aspetti giusto quel paio di minuti che i profumi s'aggiustino dopo tanta clausura forzata, eccoci dicevo a beccarci 'sto fruttino di sottobosco intrigante e nervoso e appena appena qualche vena terziaria di pellame e quel po' di pepe che intriga.
E in bocca è freschezza strepitosa, che se qualcuno ti dicesse che è vino quasi trentenne lo prenderesti per un contaballe. E invece è proprio un '81, e ci resti allibito, tant'è invitante l'immediatezza.
Vino che bevi e ribevi con soddisfazione, senz'essere un fuoriclasse da voltar via la testa. Del resto, l'81 fu annata buona, ma mica di quelle memorabili. Alla faccia...
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

10 aprile 2009

Vivere senza vino per morire sani?

Angelo Peretti
Et voilà! Adesso si scopre che il vino è perfino cancerogeno. Lancio Ansa, notizia che arriva da Parigi.
"Il vino contiene alcol, ed è quindi cancerogeno. È la tesi del presidente dell'Istituto francese del cancro (INCa), Dominique Maraninchi. 'Fin dal primo bicchiere di vino - afferma - aumenta il rischio di tumore per il consumatore'."
Il neoproibizionismo avanza: se vi piace il vino siete out, sappiatelo, e rischiate perfino di morire di cancro.
A sentire 'sti dottoroni, al mondo ormai non c'è rimasto nulla che non sia cancerogeno. Dovremo davvero abituarci a vivere da malati per morire da sani?
Macché: tanto, morire si deve, e allora...

9 aprile 2009

Oh, quel Barbaresco del '64...

Angelo Peretti
Quasi quasi ieri, preso dal raccontare lo show di Angelo Gaja al Vinitaly, andava a finire che mi dimenticavo dei vini. Già, ché i presenti - sala gremita, e i più paganti, per beneficenza - erano lì anche per tastare dei vini, mica solo per festeggiare il secolo e mezzo di vita della cantina. E quando ti portano nel bicchiere sei vini d'annate storiche di casa Gaja, be', è mica roba da tutti i giorni.
Eccoli qui sotto.
Dicevo che poi mica li ho lasciati dentro al bicchiere: me li son bevuti. Tutti tranne uno, comunque fatto benissimo, ma non in sintonia col mio bere, e qui sotto di capirà perché.
Per ciascuno, prime righe coi commenti di monsieur Gaja, ultime righe con le mie impressioni.
Gaia&Rey 1994
Chardonnay piantato in Langa, dalla fine degli anni Settanta. Vigne da bianco in terra dove si diceva che il vino è solo rosso. “L’idea era di fare un bianco capace di essere longevo perché viviamo in una zona che fa vini longevi”.
Longevo lo è, certamente. Sorprende la freschezza. E il bell’equilibrio fra liquirizia e frutto. Impressionano polpa e persistenza. Gran bianco, l’ammetto, anche se resto bevitore ABC: anything but Chardonnay (qualunque cosa purché non sia Chardonnay).
Darmagi 1997
La storia è nota: in dialetto langarolo darmagi vuol dire “che sciocchezza!” Esclamazione che la leggenda attribuisce al padre di Angelo Gaja quando questi gli disse che voleva piantare cabernet sauvignon dove c’era sempre stato nebbiolo.
Al naso, subito, il peperone verde, anche un po’ grigliato. E sotto il frutto. Poi esce la vena di terra. In bocca una gran tensione tannica. E frutto rosso maturo maturo, eppure anche succoso. Stoffa. Lunghezza. Grand’equilibrio tra frutto e tannino.
Conteisa 1996
Nebbiolo barolista da La Morra. Prima annata il ’96: l’anno precedente, quello dell’acquisto c’era stata grandine. “La grandine lì c’è spesso: è una lezione che ci fa capire che siamo artigiani. Ma i grandi terroir sanno sempre recuperare la qualità”.
Che volete che vi dica: sarà anche un nebbiolo modernista, ma m’è piaciuto, eccome! Affascinante e complesso al naso, fruttatissimo e interminabile al palato. Frutta rossa e liquirizia e viola appassita e caffè in polvere. Bel tannino. Potenza e beva assieme.
Sperss 1989
Nebbiolo barolista da Serralunga. Acquisto nell’88. L’89 fu dunque la seconda annata. “Se il Conteisa sembra ricordare il nebbiolo della zona di Barbaresco, più floreale e sottile, lo Sperss riflette esattamente Barolo: tannino, tabacco, tartufo”.
La conferma è già all’olfatto: ritroso da subito, poi s’apre sulle note terziarie, ed è proprio tabacco e tartufo e poi terra e fiore appassito. In bocca è compatto ed elegante. Aristocratico. Infinitamente lungo. Il bicchiere vuoto è liquirizia assoluta.
Sorì San Lorenzo 1988
Un mito italiano. “È il primo single vineyard che abbiamo prodotto, ma è anche quello che invecchia di più. Il vigneto lo ha comprato mio padre dal Capitolo di Alba, dalla Chiesa. Lì c’è una vena di sabbia: è l’unica zona dove ci sia sabbia a Barbaresco”.
Più che giovane, è proprio giovanissimo. Mi verrebbe da dire perfino troppo giovinetto, ancora. E dunque s’apre con lentezza quasi esasperante all’olfatto, ma l’attendere trova ricompensa. In bocca ha gran frutto, dolce e maturo. E fiori, anche, tanti.
Barbaresco 1964
Chi altri in Italia sarebbe capace di servire un ’64 a un paio di centinaia di persone? “È uno dei vini di mio padre, è un vino di Giovanni Gaja. Il 1964, il 1990 e il 2004 sono state le uniche tre annate in Piemonte che ho visto capaci di combinare qualità e quantità”.
Posso dirlo: un’emozione. Mica solo per l’età, ché di rossi vecchiotti per fortuna ne bevo abbastanza. No, questa è stata emozione pura perché ho trovato un incredibile mix di frutti maturi e d’altri fruttini perfino asprigni. E poi rabarbaro, china, pellame.

8 aprile 2009

Gaja, il secolo e mezzo e il coup de théâtre

Angelo Peretti
Coup de théâtre. Francese. La versione italiana - colpo di scena - non rende bene. Ché è qualcosa che ha a che fare proprio coll’essere istrione, con quel saperti ipnotizzare che hanno certi prim’attori in teatro, sul palcoscenico.
Ecco, il coup de théâtre è arrivato quand'ormai credevi che la rappresentazione (e che rappresentazione!) fosse bell’e finita, e al mattatore e all’intera compagnia bastasse soltanto presentarsi in passerella a raccogliere l’applauso, scrosciante, dato che lo spettacolo era stato ammirevole.
Invece no, invece ecco l’apoteosi. Angelo Gaja, ché è di lui che sto parlando e dell’epica degustazione che s’è svolta al Vinitaly per dare avvio alle feste dei centocinquant’anni del marchio di famiglia, ha dato il la alla figlia primogenita Gaia. E questa eccola presentare, coll’ausilio delle immagini proiettate ai due lati del palco, tutta una serie d’altre donne del vino. Per dire: da Elisabetta Foradori ad Anna Bologna a Marilisa Allegrini a Francesca Planeta. E poi è toccato a lui, le Roi, e anch’egli a chiedere il battimani per altri uomini del vino italiano: da Giorgio Rivetti a Nicolò Incisa della Rocchetta, da Maurizio Zanella a Romano Dal Forno, a Josko Gravner perfino. Con standing ovation per Domenico Clerico, presente in sala, commosso fino ad aver gli occhi lustri (testimonio: ero a due posti di distanza).
Ora, che dire? Grandissimo, Gaja. Che unisce il bel gesto con la strategia di marketing, l’omaggio ai concorrenti con la più raffinata tecnica di comunicazione. Se cita i grandi, la percezione è che lui è più grande dei grandi, o no? Se esalta gl'italiani del vino, lui s'accredita come capofila dell'italianità enoica.
Ora, si dica quel che si vuole d’Angelo Gaja, ma a Verona, a quest’ultimo Vinitaly, ha dato una gran lezione. Straripante col microfono in mano. E sornione. Con una spalla elegantissima come Jancis Robinson, raffinata wine writer britannica, capace di buttar lì poche domande, ma quelle giuste, che poi lui, il Re, usa a pretesto per parlare e parlare e parlare in un inglese un po’ rigido, ma diretto.
Ah già, dimenticavo: tutto in inglese l’evento. E anche questo è stato show. Così come il (fastidiososissimo) braccialetto stile nursery che t’hanno messo al polso all’ingresso, per bloccare ogni possibile intrusione (i più, in sala, pagavano, e si son raccolti oltre 25mila euro per un ospedale). Così come lui and family (moglie e figli) schierati sull’uscio a dar la mano a ogni entrante e poi rischierati sul palco, uno in fila all’altro, tutti a prender la parola.
Grande show. Ma denso di contenuti, anche.
Ecco qualche Gaja pensiero qui sotto, giusto per assaggiare.
“Siamo artigiani. Essere artigiani significa anche non imbottigliare i vini delle annate non perfette, non crescere di dimensione, non coprire tutte le fasce di prezzo”.
"Sono considerato uno dei responsabili dei prezzi alti del vino italiano, ma quando si è veri artigiani non si può inseguire l'industria”.
“Se il vino è popolare nel gusto, ma perde il suo radicamento con la tradizione, vino e zona saranno perdenti”.
“La perfezione non è da considerare un valore assoluto, perché il vino perfetto molte volte viene fatto in cantina, manipolandolo”.
“Abbiate fiducia nell’Italia. Il grande numero dei produttori oggi presenti in Italia non è un segno di debolezza, ma di forza. Produciamo volumi di vini eccellenti anche nelle cooperative. E c’è un grande numero di artigiani che sono ambasciatori dell’Italia”.
“Occorre definire l’identità: i vini devi assaggiarli e capire che vengono da un posto ben preciso, dal Piemonte, non da qualunque parte del mondo. E devono riflettere l’azienda: devono essere Gaja”.
Opps! I vini.
Già, i vini assaggiati. Pardon, bevuti, ché mica li ho lasciati lì nel bicchiere (non dovevo neppure guidare...). Be', i vini li racconto magari domani.

3 aprile 2009

Soave Classico Sacripante 2004 Le Battistelle

Mauro Pasquali
Sì, avete letto proprio bene: 2004. E non si tratta di un vino giunto alla fine della sua vita. Tutt'altro!
Al naso esprime ancora in pieno i tipici profumi del Soave classico: fiori bianchi e una nota minerale che viene ripresa in bocca e che dona la giusta struttura ad una freschezza sorprendente a oltre quattro (!) anni dalla vendemmia.
Un prodotto straordinario che racchiude in sé tutte le migliori caratteristiche della zona da cui proviene. Anche quella lunghezza e persistenza che mancava un paio di anni fa, quando era troppo giovane.
Un'ultima nota: il Sacripante 2005 ha fatto da degno accompagnamento ad uno stupendo scorfano di oltre due chili cucinato alla brace. Matrimonio d'amore!
Tre beati faccini:-) :-) :-)

2 aprile 2009

Recioto della Valpolicella L'Eremita 2007 Cà Rugate

Angelo Peretti
Ci sono, nel mondo del vino e degli appassionati di vino, delle cose che proprio non capisco. Una è questa: come sia possibile che il Recioto della Valpolicella sia semisconosciuto. Anzi, quasi del tutto dimenticato, obliato. Mentre imperversa l'Amarone, che è di fatto il suo figlioccio.
Non riesco a comprendere come si faccia a non innamorarsi d'un vino come quest'Eremita. Fatto - dichiara il sito di Cà Rugate - con la corvina, la rondinella e un po' di corvinone. Uve appassite, ovvio.
Ha colore rubino profondo. Intenso e brillante.
Profumi netti e penetranti di piccol frutto ross'e nero. Frutto di bosco, intendo. Fruttino. E un che d'erbe officinali, anche.
E in bocca è sensazione uguale, e di più c'è la confettura, con un che di amarena. E la freschezza che tiene in equilibrio la dolcezza, ch'è ben presente.
E l'alcol non è troppo esposto.
Da bere a sorsi. Fresco. Possibilmente in due. E chi se n'importa, poi, del mondo?
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

1 aprile 2009

Ezzelino Rosso Passito Beato Bartolomeo Breganze

Mauro Pasquali
Il recupero di un vitigno storico e quasi scomparso quale il groppello è stata una scommessa della Cantina Beato Bartolomeo da Breganze che può considerarsi vinta, se i risultati sono quelli di questo vino. Un passito rosso. Un prodotto per pochi (7.000 mezze bottiglie), ma destinato a crescere con la messa a dimora di nuovi vigneti.
Al naso un profumo intrigante e avvolgente di marasche mature, ben armonizzate con una leggera speziatura e sentori erbacei.
In bocca grande calore, con tannini eleganti e una freschezza notevole. Il pepe prende il sopravvento sulle altre spezie e mi dona, con i bei tannini, una bocca bella asciutta e pulita.
Interessante anche il prezzo: 10 euro in cantina.
Alcuni produttori, anche molto famosi, dovrebbero imparare come è possibile fare un ottimo vino facendolo pagare il giusto!
Due beati faccini che potrebbero a breve diventare tre :-) :-)