31 dicembre 2009

Rheingau Rauenthaler Baiken Riesling Spätlese 1990 Langwerth von Simmern

Angelo Peretti
Il vino dell'anno. Quanti ne stanno scrivendo in questi giorni del loro vino o delle loro bottiglie dell'anno. Ognuno fa la sua lista, e mi sovviene Umberto Eco, che della teoria delle liste ha fatto un libro di cui si fa gran discorrere (ma quanti l'avranno davvero letto?).
Ora, mi dico, volete che non mi ci metta anch'io a scrivere del mio vino dell'anno? Soprattutto adesso che il vino più memorabile del 2009 l'ho appena stappato: una mezzina, dimenticata in cantina, di un Riesling Spätlese tedesco del 1990. Dal Rheingau.
Be', un equilibrio del genere fra amabilità, freschezza e mineralità non ricordavo d'averlo trovato da un bel po', ormai. La vena citrina ti fa salivare e compensa la dolcezza. La tipicissima nota d'idrocarburi rende complesso l'assaggio. Un gioiello.
Al naso, ti si presentano intrigantissime memorie di spezie dolci e di vaniglia, e di candito e di panettone, direi perfino. E vi resta sotteso, appunto, il sentore che direi di gasolio, di kerosene, che è caratteristico del vitigno e dell'area, e che magari non tutti apprezzano, cercando semplicità laddove invece è la complessità a farsi straordinaria.
In bocca è acidula la vena di cedro, di pompelmo, ed è vino che ha di già quasi una ventina d'anni, non dimentichiamolo. E poi la morbidezza degli zuccheri, che trovano compensazione perfetta in quelle presenze citrine. E ancora la liquirizia, intensa e perfettamente integrata. E una lunghezza, una persustenza di tutto rispetto.
Un vino da bere a piccoli sorsi, coccolandosi in una fredda giornata decembrina. E un sorso tira l'altro. E il vino si colloca nel cuore e nella mente, magicamente. E ne cerchi il ricordo, a distanza di tempo. Ma me ne resta solo una foto - quella che pubblico - ripresa col telefonino. Sbiadita, come a volte sbiadiscono, appunto, i ricordi.
Ecco: se ci penso, quest'è il mio vino dell'anno.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

30 dicembre 2009

Elogio del vinino: sul web arrivano le recensioni

Angelo Peretti
Ancora citazioni per il vinino sul web. E cominciano ad arrivare anche le recensioni di bottiglie che rientrano a tutti gli effetti nella tipologia. Ne sono (portate pazienza per la nota autocelebrativa) molto contento.
Parla dei vinino Andrea Petrini sul blog Percorsi di vino in un post titolato "Dalla Calabria al Piemonte, un viaggio alla ricerca del buon vino quotidiano". Dice: "Quando sei considerato esperto di vini tutti si aspettano a Natale che tiri fuori bottiglie strabilianti, costosissime, tali da confermare la tua fama da enosborone e da sciupa soldi. Lo ammetto, l’ho fatto gli anni scorsi ma, quest’anno, le cose sono cambiate. Il motivo? Ho ritrovato dopo tanto tempo gli appunti che presi allo scorso Squisito 2009 e mi sono tornate in mente le parole di Luciano Mallozzi, docente AIS di Roma (che ora possiamo vedere anche alla Prova del Cuoco), che in una intervista diceva di essere 'stufo' di bere sempre e solo grandissimi vini. Non si possono sempre stappare bottiglie di grande Solaia, Sassicaia, non possiamo ogni volta cucinare il capriolo perché abbiamo nel bicchiere un Barolo d’annata. Non si può bere sempre al massimo. Queste la parole che mi riecheggiano la vigilia di Natale, ogni tanto bisogna riscoprire anche il vino quotidiano, il vino franco, sincero, quello del focolare familiare e per alcuni il vinino". I suoi "vinini" consigliati? Il Cirò Rosso Classico Superiore 'A Vita di Vigna de Franco e lo Scaparon Bel Beive di Casa Scaparon (una Barbera piemontese).
Altra citazione sull'Enofaber's Blog in un post dedicato al Colli Orientali del Friuli Schioppettino 2007 di Dorigo. Dice: "Per mia fortuna, una persona che frequenta abitualmente il Friuli, la scorsa estate mi ha portato una bottiglia di questo Schioppettino 2007 di Dorigo ed è stato uno dei vini che ho bevuto durante il pranzo di Natale. Sicuramente è uno di quei vini che si potrebbe definire vinino: il termine non per è nulla dispregiativo, anzi; la valenza principale che si vuole sottolineare utilizzando questo 'neologismo', coniato da A. Peretti sul suo Internet Gourmet, è quella della piacevolezza e della convivialità, come Jacopo Cossater esemplifica in questo splendido post su Enoiche Illusioni. Infatti questo vino rientra in questa sfera di piacevolezza e apparente semplicità: utilizzo il termine apparenza perché ritengo che questo vino possieda una complessità (soprattutto olfattiva) non indifferente, rendendo l’assaggio molto interessante. Vino da bersi abbastanza giovane, almeno questa è l’idea che mi sono fatto durante l’assaggio". E dopo le note di degustazione conclude dicendo: "Insomma, un gran bel vinino…"

3 gennaio: Champagne alla Taverna Kus di San Zeno di Montagna

Domenica 3 gennaio 2010, alle ore 12.30, alla Taverna Kus di San Zeno di Montagna (Verona) InternetGourmet e Slow Food del Garda Veronese organizzano una degustazione di Champagne.
Posti disponibili: 10.
Quota di partecipazione (pranzo incluso): 70 euro (65 euro soci Slow Food).
Prenotazioni ai numeri 338 4818580 - 045 7285667.

Breganze Marzemino Terrazze 2007 Tenuta Bastia Saccardo

Mauro Pasquali
Se è vero che la patria riconosciuta del Marzemino (nella sua versione ottenuta dall'uva marzemina gentile) è la Vallagarina e il suo capoluogo Rovereto, altrettanto vero è che sulle colline attorno a Breganze, l'uva marzemina si coltiva da secoli e da sempre si produce anche qui il Marzemino, anche se ormai sempre meno produttori l’hanno a listino. Ed è un peccato, ché, al pari di quanto accade nel vicino Trentino, anche sulle colline di Breganze, si ottiene un Marzemino di tutto rispetto.
Se da Breganze, ci si sposta poco più a sud, dove la pianura è caratterizzata dall'inizio della zona delle risorgive, troviamo un'unica altura che interrompe il piatto paesaggio e, su quest'unico colle, è appollaiata la Tenuta Bastia, la più piccola azienda della doc Breganze. Qui, dal 1971, Mario Saccardo produce i suoi vini, poche bottiglie ogni anno, e poche etichette, fra cui spicca questo Terrazze, marzemina in purezza.
Alla vista mi conquista con il suo bel colore rosso rubino, quasi impenetrabile. Al naso mi avvolge con un bel frutto croccante, di frutta fresca e piccoli frutti rossi. In bocca entra deciso, pieno e con una bella sapidità. Alla fine chiude con una buona lunghezza finale e un bel retrogusto di piccoli frutti rossi.
Un faccino e quasi due :-)

29 dicembre 2009

Bordeaux, la finezza delle vecchie annate

Angelo Peretti
Come d’abitudine, a cavallo fra Natale e Capodanno, mi son cimentato in una degustazione (a tavola) di vecchie bottiglie di Bordeaux. Ormai è qualche anno che il rito si ripete. Stavolta, n’ho stappato una piccola miscellanea presa di cantina. Un’escursione fra diverse appellation e annate. La più vecchia un 1959, la più giovane un 1988. E t’accorgi - o almeno quest’è la mia impressione, confermata però più volte - di come con lo scorrere degli anni sia andato cambiando lo stile, passando dalla ricerca della beva e della finezza e della freschezza all’accentuazione della concentrazione, strizzando magari l’occhiolino al mercato americano.
M’è capitato spesso di dire che amo i Bordeaux pre-parkeriani, quelli che ancora non erano costruiti per i bevitori a stell’e strisce. E una specie di linea di demarcazione in genere mi pare la si possa tracciare fra l’85 e l’89. Ma forse mi sbaglio, ché non sono questo grand’esperto di rossi bordolesi.
In ogni caso, ogni volta rinnovo lo stupore per come Bordeaux sappia (abbia saputo) darci dei rossi che valicano i decenni con nonchalance, mantenendo freschezza e bevibilità succosa anche dopo trenta, quaranta, cinquant’anni. Talché un vino di venti-venticinque anni ti vien da dire che è troppo giovane. E domando: ma dove altro al mondo si può dir lo stesso?
Oppure, anche da noi c’è qualche rosso che supera le decadi, ma è appena un’eccezione, un voce che parla nel deserto. Dalle vigne e dagli château bordolesi ce n’arrivano decine e decine di vini del genere. E non occorre per forza andare a cercare le case famose, le etichette del mito, quelle che ti ci vuole un mutuo. Si può bere strabene anche con trenta-quaranta euro. Avendo la pazienza di cercare, di analizzare, di comparare. E parlo di bottiglie che han già la loro bell’età, mica di annate recenti.
Giusto a mo’ di diario, ecco qui sotto qualche annotazione delle bottiglie stappate stavolta. In ordine di apparizione, dalla più datata alla più giovinetta, se così si può dire.
Haut-Médoc 1959 Château Le Bourdieu
N’ho già potute stappare tre bottiglie di questo vino, e tutt’e tre le volte lo stupore è stato il medesimo, verificandone l’integrità e la freschezza. E ha cinquant’anni. Colore rubino, tannino tuttora ben saldo, freschezza considerevole. Mirtillo. Vene di liquirizia. Beva.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Saint-Émilion 1976 Château Lassegue
Ecco, questi sono i Bordeaux che adoro. Quelli che appena aperti ti sembrano piccolini, e invece poi col tempo ti stupiscono per la finezza e l’eleganza. Da subito, ha tracce vegetali. Poi arriva la fragolina. Di poi la liquirizia. Infine il cioccolato al latte. Il tutto come in un acquerello. Splendido.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Margaux 1978 Château Deyrem-Valentin
Classicamente Margaux con quel suo tannino vellutato. Conserva, dopo trent’anni, una compattezza di tutto rispetto, e ti vien voglia di dire che è ancora giovane da stappare. Memorie terrose intridono il fruttino di bosco. C’è bella freschezza.
Due lieti faccini :-) :-)
Graves 1983 Château Carbonnieux
Per me, un altro classico. Il Carbonnieux rosso (allora era Graves, oggi, se non sbaglio, Pessac Leognan) dell’83 è stato il primo Bordeaux di cui mi sia innamorato, anni fa. E col passare del tempo mantiene le promesse. Ha grandissima freschezza. Dico una bestialità se affermo che si sente l’anima sostanzialmente bianchista - quasi un marchio di fabbrica - di questo château?
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Margaux 1985 Château du Tertre
La potenza. Denso già nel colore, ha frutto compatto e tannino fitto e freschezza invidiabile e vene di terra. Un rosso ancora giovanissimo.
Due lieti faccini :-) :-)
Margaux 1988 Château la Gurgue
Compatto e concentrato, ma non per questo privo di beva. Impressiona per il carattere, la personalità. E il velluto. Sfoggia eleganza considerevole. Ed è molto, molto giovane, e promette una felice evoluzione futura, per chi n’avesse bottiglie in cantina.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Haut-Médoc 1988 Château Lanessan
Eccola qui la linea di demarcazione, il confine. Fra i Bordeaux della classicità e quelli della modernità. Cupo nel colore, fitto nella trama tannica, eppure anche fresco, questo rosso guarda un po’ al passato e un po’ al presente. Alla lunga, dopo ore dalla stappatura, è ancora sorprendentemente nervoso, ed anzi esprime sentori decisamente vegetali che accompagnano il frutto rosso e il cioccolato.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

28 dicembre 2009

Soave in Stelvin: scrive Andrea Pieropan

Angelo Peretti
Qualche giorno fa, ho scritto della scelta di Nino Pieropan e della sua famiglia di imbottigliare con la capsula vite - lo Stelvin - il proprio Soave base destinato all'estero. Una scelta difficile, dato che ha imposto, alla luce dell'assurdità della legge italiana, d'abbandonare la doc del Soave Classico per passare a quella del Soave tout-court: secondo il bizantinismo legislativo italico, il termine Classico può associarsi infatti solo al tappo raso, ed è pazzesco che ci sia ancora una norma del genere, che nacque in un'epoca ormai remota, quando c'era bisogno di tutelare il vino di qualità verso i bottiglioni da quattro soldi in tappo a vite.
Ritengo la scelta dei Pieropan importante. E mi sono rammaricato non sia stata sufficientemente comunicata in Italia: poteva essere un validissimo, fondamementale esempio per chi - produttori, ristoratori, enotecari, consumatori - ancora tentenna davanti a una capsula a vite. Che invece, almeno sui bianchi, mi si è sempre dimostrata ottimale.
In ogni caso, è importante che i Pieropan - che son leader bianchisti riconosciuti - la scelta l'abbiano fatta. E spero che altri, nel Soave, nel Veronese, in Italia, li seguano.
Dopo il post, è nato un qualche dibattito sulla questione. Ed ora mi ha scritto Andrea Pieropan, figlio di Nino, spiegando ulteriormente la scelta e le azioni conseguenti. Un bell'intervento, che credo aiuti nel dibattito. Lo riporto qui di seguito, con la sua autorizzazione.
"Gentile signor Angelo Peretti
Sono Andrea Pieropan e inanzitutto volevo ringraziarla per aver sollevato la questione su un problema reale e dibattuto.
Devo comunque dirle che Pieropan usa lo Stelvin anche per il mercato Italiano, ma solo per il formato da 375ml. Come ha detto il nostro Importatore londinese David Gleave, per noi Pieropan è stata una scelta ardua e coraggiosa (ad oggi nessun produttore di Soave l'aveva fatta) e abbiamo impiegato tutte le nostre energie per applicarla e decisamente meno per comunicarla.
La scelta è stata difficile perchè Pieropan ha tutti i vigneti in zona Classica quindi è stata dura accettare di dover chiamare un vino in maniera diversa da come nasce.
Ad ogni modo dopo una anno siamo molto contenti perché questa scelta ci permette di mantenere maggiore freschezza e di poter usare meno solforosa quindi di commercializzare un prodotto più sano e puro.
Da subito è stato forte anche il messaggio in Italia perchè basti pensare che ad oggi il 375 ml è chiuso a Stelvin e solo a Stelvin, ovunque nel mondo, compresa l'Italia. Pertanto se un consumatore italiano volesse un Soave exclassico in formato 375ml pùo averlo solo chiuso a Stelvin, oppure scegliere un vino di un altro produttore. La scelta di iniziare da questo formato è stata puramente tecnica in quanto il vino rischia una maturazione più precoce, lo Stelvin preserva il vino dell'ossigeno migliorando la tenuta nel tempo.
Come ha detto quel lettore anonimo "c'è molta carne e poco fumo", ma il processo in Italia sarà più lento; dovrà essere il ristoratore/enotecario a convincersi della qualità, magari bevendo una Soave da 375ml in una calda sera d'estate..."

Cari sindaci, non è vero che bere è reato, accidenti!

Angelo Peretti
Leggo che sono iniziati i lavori per il concorso enologico della Selezione del Sindaco, indetto dall'associazione delle Città del Vino. Ora, prego i vertici associativi di spiegare ai loro sindaci soci che non è una bella cosa che all'ingresso di un paese vinicolo ci sia un display luminoso che dice: "Guidare dopo aver bevuto è reato".
Non è vero, perché semmai è reato guidare dopo aver bevuto alcolici in misura tale da avere il proprio tasso alcolemico al di sopra delle soglie di legge.
Non è vero, perché bere, al di fuori del caso di cui sopra, non è reato: vorrete mica vi arrestino per aver tracannato una mezza minerale, vero?
E comunque far terrorismo non serve a un bel niente, soprattutto se una comunità vive della produzione di vino. Semmai, educhiamo, che è un'altra cosa.

26 dicembre 2009

Bele Casel e la ricerca dell'equilibrio nel Prosecco di Asolo

Angelo Peretti
Premetto che non conosco di persona Luca Ferraro, né sono ancora stato da lui, nella sua aziend'agricola, la Bele Casel, a vocazione prosecchista (e merlottista) nella Gioiosa Marca Trevigiana, o meglio, nell'angolo magari un po' meno ilare sotto il profilo del business enoico, ché Conegliano e Valdobbiadene spopolano, mentre qui siamo nella zona, pur bellissima, dell'Asolano, che fatica un po' a sfondare. E magari soffre anche di qualche complesso d'inferiorità rispetto ai cugini più voluminosi e più marketing oriented. Ma di questo magari riparlo dopo.
Dicevo, non ho mai incontrato Ferraro, ma è un po' come lo conoscessi, vista la sua onnipresenza sul web. Se si vuole un esempio di produttori brillantemente attivo su internet, be', l'esempio è lui, col suo sito, il suo blog, la pagina su Facebook, Vinix, Twitter, Myspace, l'account su Skype. Insomma: vivace, l'uomo. Ed è in rete - come si suol dire - che ci siamo trovati, ed è lì che m'ha proposto di tastare i suoi vini. Qualcheduno l'ho in effetti volentieri tastato, e più sotto ne parlo.
Per intanto, eccomi al primo tema, quello del complesso dei prosecchisti del Montello e dei Colli Asolani. Sul suo blog, Luca s'è posto una domanda: "Perché i giornalisti si dimenticano della docg Asolo?", che fa un po' il paio con un mio pezzo recente, che titolavo: "Perché i giornalisti non scrivono di Moscato?"
Riporto integralmente il suo post: "Con questo mio scritto non voglio fare della polemica, voglio esprimere solo il mio rammarico nell’aver letto per l’ennesima volta un articolo dedicato alle bollicine italiane dove si menziona, per quanto riguarda il Prosecco, unicamente la zona di Conegliano e Valdobbiadene, tralasciando un 'piccolo' particolare, che tanto piccolo non è visto che è parte della storia del Prosecco, la zona del Montello e dei Colli Asolani. Dal momento che non lo fa nessuno lo ricordo io, ci siamo anche noi produttori del Prosecco docg Asolo superiore, ultima delle 3 zone storiche del Prosecco che nulla ha da invidiare ai cugini più famosi. Mi rendo conto di combattere contro i mulini a vento ma mi piacerebbe per il futuro avere informazioni complete e non rodermi per omissioni giornalistiche".
Oh, no, Luca, non mettertici anche tu. Piove? Governo Ladro. Non parlano di te? Omissione giornalista.
Vorrei solo ricordare che la comunicazione è bidirezionale, e dunque se un territorio non parla di se stesso, difficile che ne parlino gli altri. Temo mi tocchi ripetere quel che ho detto dei moscatisti astigiani: prima devono dimostrare di crederci loro. Prima dovete dimostrare di crederci voi, e farlo sapere, senza timore reverenziale, senza sudditanze psicologiche, ed anche senza eventuali omissioni più o meno opportunistiche di chi non vuole destar la potenziale ira del vicino di casa più muscoloso. Se Asolo non parla, non si può pretendere che si parli di Asolo. Salvo casi fortuiti. O fortunati.
Detto questo, il produttore in questione dimostra di crederci, al Prosecco d'Asolo, facendosi ben vivo, appunto, attraverso i social network e il web. Ecco, magari qui qualcosina si potrebbe correggere: per esempio, è meglio lasciarlo semmai dire ad altri che i vini sono "eccelsi", come leggo sul sito aziendale. Però ammetto che i vini targati Bele Casel di personalità n'abbiano parecchia. E ne son lieto.
In particolare, me ne son piaciuti due, dei vini, e ne scrivo qualche appunto qui sotto.
Intanto dico: "Avanti, Luca", ché la strada mi par quella giusta, nel far vino e nel comunicarlo.
Prosecco Montello e Colli Asolani Extra Dry Bele Casel
Sissignori, io credo che il metodo Charmat dia il meglio di sé quando c'è morbidezza. Di solito, non amo i vini che tendono all'amabilità. Ma per una bolla nata in autoclave la cerco, invece. E qui lo zucchero (16 grammi litro, leggo) aiuta a far venir fuori una florealità davvero accattivante e un frutto croccante (la pera, la mela) e succoso. Si bene volentieri, ed ha buon equilibrio.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Prosecco Montello e Colli Asolani Dry Millesimato 2008 Bele Casel
Che polpa che ha questo millesimo. Ha sostanza, ha struttura, e con quella materia e quella nervosissima freschezza che si ritrova quasi non t'accorgi degli zuccheri residui, che pure sono altini: 23 grammi litro, vedo on line, e non è certo poco. Il che dimostra - e in fondo mi trovo a ripetere quel che ho appena detto sopra - che qui si cerca davvero l'equilibrio.
Due lieti faccini :-) :-)

Amarone Classico della Valpolicella da Agricoltura Biologica 2004 Cantina di Negrar

Angelo Peretti
Ohibò, non ne avevo neppure sentito parlare. E invece me lo sono trovato sul tavolo d'un ristorante, il nuovo Amarone bio della Cantina sociale di Negrar. Annata 2004. Buono.
Fatta la premessa, cerco di aprirne i contenuti.
Primo: la comunicazione. Se n'è uscito sul mercato in sordina, 'sto nuovo rosso amaronista da agricoltura biologica del colosso cooperativo negrarese. Mi domando perché invece non l'abbiano promosso in grande spolvero: è una novità d'un certo rilievo, mi pare, che in Valpolicella anche una mega realtà consortile come questa si metta a far vini da uve prodotte coi metodi bio. Vero che sul sito internet c'è, in home page, un bottone che rimanda alla scheda del vino, ma se uno cerca invece nel link dei prodotti neppure lo trova.
Secondo. La scelta bio. Leggo on line che i soci della Cantina ad esser certificati secondo il sistema di produzione biologico sono attualmente tre "ed impegnano una superficie di quasi 7 ettari".
Ora, terzo, il vino. Ed è stata una sorpresa. Un Amarone bevibile, che sta in tavola, col cibo, e non nei calicioni delle degustazioni. Insisto: mi pare più bottiglia da cibo, che non da concorso.
Colore scuretto, ma pur sempre nell'area del rubino, ancorché denso, e non del nero, come invece mostrano da tempo altri rossi valpolicellesi.
Naso delicatamente sui toni del frutto rosso appassito, classicamente amaronista, e della spezia fine.
Bocca fresca, fruttata, direi piuttosto succosa, col tannino che non invade e non aggredisce. Quindici gradi di alcol, ma ben integrati, tant'è che v'è buona snellezza. Magari, ecco, c'è un che di dolcezza, ma neanche troppo spinta, se penso a quanti esempi vadano invece verso una versione reciotata dell'Amarone.
Ripeto: una positiva sorpresa, per me che non conoscevo questo nuovo prodotto della Cantina di Negrar.
Un'obiezione me la si consenta: ma perché tutti quei fregi in oro sull'etichetta? Non era meglio maggior coerenza espositiva con l'opzione bio anche nella scelta della carta e degl'inchiostri?
Due lieti faccini :-) :-)

25 dicembre 2009

Natale #5

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo e dimenticata.

Natale
Giuseppe Ungaretti

24 dicembre 2009

Rassegnamoci: di Champagne bisogna scrivere solo in inglese

Angelo Peretti
Una circolare che Hervé Lalau, segretario generale della Fijev, la federazione internazionale dei giornalisti del vino, segnala un'imbarazzante e per certi versi anche irritante "anomalia" francese. O meglio, champagnista. Questa (cito, testuali, le parole): "Come ogni anno, la casa Champagne Louis Roederer ha consegnato i suoi International Wine Writers' Awards. E come ogni anno, i giornalisti e gli autori premiati sono anglofoni. Come ogni anno, gli articoli o i libri che possono essere presi in considerazione devono essere in lingua inglese. Come ogni anno, i giurati che selezionano i vincitori sono anglofoni".
Insomma, occorre capire l'antifona: o scrivi in inglese per delle testate in inglese, oppure quelli della Roederer non ti filano neppure di striscio. Prendo atto.
Oddìo, devo dire che mica solo la maison champagnista tiene un atteggiamento del genere: è una moda che trova qualche condivisione per esempio anche in qualche angolo di Toscana cintato da mura antiche. Epperò per uno come me che di Champagne ne beve parecchio e ne scrive anche un bel po' (per quel che conta, gli ho dedicato anche un rubrica su questo mio InternetGourmet), la consuetudine segnalata da Lalau non è che sia così tanto piacevole, e non già perché il sottoscritto ambisca al premio roedereriano, irraggiungibile.
"La Fijev - continua Hervé - si stupisce nuovamente che questo premio, malgrado sia consegnato da una casa francese, scarti così ogni candidato non anglofono, pur proclamandosi internazionale". Già, mi stupisco anch'io: e dire che l'Italia è uno dei migliori destinatari delle bolle franciose, ché ne tracanniamo parecchie. Vuoi vedere che ci tocca dare ragione al ministro Zaia e metterci a fare gli autarchici in fatto di bollicine?

Natale #4

"La mattina del Santo Natale - scrive un altro - mia madre mi ha fatto trovare l’acqua calda per lavarmi tutto".
La giornata di festa non gli ha portato nient’altro di così bello. Dopo che si è lavato e asciugato e vestito, è uscito con suo padre "per fare la spesa". Poi ha mangiato il riso col brodo e il cappone.
"E così ho passato il Santo Natale".

Natale a Regalpetra
Leonardo Sciascia

23 dicembre 2009

Elogio del vinino: Terence Hughes ne parla su Muddy Boots

Angelo Peretti
Terence "Strappo" Hughes è un wine writer newyorkese che conosce piuttosto bene il vino italiano, tant'è che ne fa anche importazione e distribuzione.
Ha un suo wine magazine, Mondosapore, e un blog, Muddy Boots.
Ed è un fan del vinino. Al punto che ne ha parlato proprio su Muddy Boots, gli "Stivaloni infangati", ché il fango sulle scarpe è appannaggio di chi, come diceva Gino Veronelli, cammina le vigne.
Il post s'intitola "In praise of vinino", in lode del vinino. E diffonde presso i lettori a stell'e strisce (ma ho visto che l'ha ripreso perfino un produttore francese) il "verbo", appunto, del "mio" vinino. Il che mi commuove.
Ho provato a tradurre il testo di Terry. Chi non si fida della traduzione (e fa bene...) può sempre leggersi l'originale in inglese.
Ecco qui sotto le (più o meno) sue parole italianizzate.
Qualche mese fa Angelo Peretti, un wine writer della zona di Verona, ha scritto un post nel quale ha lodato le virtù dei "vinini" - piccoli vini - collocandoli in opposizione ai vini grossi, stragonfiati (vinoni) fatti per conquistare consensi della critica e alti punteggi nelle degustazioni.
Per quel che concerne i vinini, Peretti dice chiaramente che non sono vini insignificanti. Quel che vogliono è essere facili da bere, piacevoli da assaggiare, giocosi da dividere con gli amici. Vini del genere sono la "strumentazione" che lubrifica la chiacchiera disimpegnata e i legami sociali; non sono l'argomento principe di conservazione e certamente neppure l'oggetto di prolisse analisi e argomentazioni.
Nel suo un po' pomposo "Elogio del Vinino, o Manifesto per la Piacevolezza dei Vini da Bere", Peretti elenca un chiaro set di contrapposizioni:
- vini facili da bere (più leggeri, meno alcolici, bilanciati) contro i mostri-legnosi super-acolici concentrati in maniera colossale
- vini da da bere contro vini da assaggiare
- vini da condividere e godere con gli amici contro quelli da analizzare criticamente
- vini fatti secondo il gusto personale del singolo produttore (quello legato al proprio territorio e alle sue tradizioni) contro quelli fatti secondo l'idea internazionale di cosa sia un buon vino
- vini che sono quel che sono - nervosi, perfino imperfetti - contro quelli fatti secondo una precisa formula, mirando alla perfezione tecnica
Be', avete capito. Si tratta di un'elegante presentazione dell'attuale disaffezione con l'odierna cultura del vino e la sua ossessione del "più" e del "meglio" così come li hanno definiti una schiera di degustatori le cui degustazioni si stanno facendo esangui.
Quel che mi piace dell'approccio di Angelo è che non predica un qualche ideale di vino "naturale" o biodinamico, che mi desta qualche sospetto perché sta diventando una specie di ortodossia non meno rigida e concettualmente sbagliata della mania "internazionale", in opposizione alla quale è fiorita. Peraltro, questo implica credere il produttore sulla parola, il che, francamente, non è mai la cosa migliore da fare. (Scusate, ragazzi, lo so. Anche voi dovete vivere).
Niente di tutto questo per Angelo. Lui centra l'argomentazione sull'esperienza del piacere (l'edonismo!) nel contesto della convivialità. Questo ha profonde risonanze nella nostra cultura - i simposi dell'antica Atene, l'utilizzo rituale del vino nel Cristianesimo e nella religione ebraica, i canti bacchici e goliardici degli studenti medievali, gli Sherry parties delle nostre bisnonne, i pranzi della domenica in Italia, in Francia, in Spagne, ecc. ecc.
Va bene, ce n'è abbastanza.
Cosa ci beviamo con i nostri "amici" stasera?
Quali sono i vostri suggerimenti per dei deliziosi, bevibilissimi vini?
Questo per me funziona: Sannio Piedirosso Mustilli.

Natale #3

Ci scommetto che nevica,
tra due giorni è Natale,
ci scommetto dal freddo che fa.

Natale
Francesco De Gregori

22 dicembre 2009

Panini e maglioni

Angelo Peretti
Grande! Che dire dell'amministratore delegato delle Ferrovie, Mauro Moretti, se non che è un grande?
I treni non vanno e rischiate di passare ore ed ore in stazioni ghiacciate e dentro a vagoni trasformati in freezer? "Portatevi panini e maglioni", suggerisce.
Credo che tutti dovremmo prendere il buon esempio, in quest'Italia dove le attese e le code sono all'ordine del giorno.
Vi mettete in autostrada? Portatevi panini e maglioni: mica pretenderete che, come accade sulle autostrade francesi, vi avvisino se ci sono problemi.
Pensate di spostarvi in aereo? Portatevi panini e maglioni: mica vorrete che vi avvertano se spostano il vostro volo.
Avete da pagare una bolletta alle poste? Portatevi panini e maglioni: mica penserete che ci sia personale sufficiente allo sportello.
Volete versare le tasse in banca? Portatevi panini e maglioni: mica chiederete che, con tutta l'automazione che c'è in giro, mettano un cassiere in più.
Andate a visitare una mostra? Portatevi panini e maglioni: mica domanderete di non fare file allucinanti per prendere il biglietto.
Alla fin fine, in questa maniera, in quest'Italia dei cento, dei mille campanili, avrete occasioni di assaggiare le migliori specialità nazionali in fatto di salumi & formaggi, dentro al vostro panino.
Un consiglio gastronomico che neppure il Carlin Petrini, leader dello Slow Food, ci avrebbe mai pensato.
Ma, chiedo a Moretti, l'ha mai provato a mangiare, lui, uno dei panini che vendono nelle stazioni ferroviarie italiane?
Ah, una cosa in più, ha detto Moretti: oltre che panini e maglioni, ha invitato a portarsi anche l'acqua. Giusto, giustissimo, coi prezzi da rapina che ti fanno pagare sui treni e nelle stazioni per una bottiglietta di minerale.
Facciamo così: all'ad delle Ferrovie, il panino, l'acqua e perfino il maglione glieli porti io, ma in cambio lui ci fa funzionare la sua azienda e chiede scusa ai viaggiatori che pagano sempre di più per un biglietto che non ha più alcun rapporto col disservizio elargito.
Ma, capisco, forse è chiedere troppo: sarebbe come pretendere di vivere in un paese normale. Un paese dove chi ha grande responsabilità e fallisce nella sua missione lascia il posto ad altri.

Elogio del vinino: ma quanto se ne parla!

Angelo Peretti
Questo è interessante, almeno per me: del mio Elogio del vinino si seguita ancora a parlare on line. Bene: mi sa che mi toccherà passare dalle enunciazioni ai fatti, e lanciare prima o poi una sorta di Vinino fun club (fun con la u, perché il vinino è, appunto, divertente), con tanto di occasione di confronto e di assaggio. Vedremo: ci sto pensando.
A scriverne sul suo blog Enoiche Illusioni è ora Jacopo Cossater.
Dice (e mi fa arrossire) che "la definizione dei vinini è una delle cose più interessanti nate in rete in questo 2009 che ci stiamo lasciando alle spalle": troppa grazia.
Aggiunge: "Il vinino, per chiarire, è quello 'che si beve', che non ha niente a che vedere con quelle bottiglie grosse e muscolose che magari sono subito ammalianti, da degustare, ma che ad un bicchiere difficilmente ne segue un altro. Sono vini facili ma allo stesso tempo intriganti, vini da tutti i giorni, economici e belli. Un mondo da scoprire, e rilanciare con forza". E concordo.
Riporta poi il testo dell'Elogio. E chiude chiedendosi: "Non è bellissimo?"
Torna a parlar di vinino anche Davide Cocco su iCru, recensendo la Barbera del Monferrato a marchio La Badia. Scrive: "Guardo la bella etichetta della Barbera La Badia e penso che ho appena bevuto un ottimo vinino. Nella versione più nobile del termine, quella redatta da Angelo Peretti, che ha dato nuova dignità a questa tipologia di vino. Un vino da compagnia, da tavola, da lunghi pranzi e chiacchiere della domenica". Ringrazio della citazione.
A questo punto, sì, qualcosa mi toccherà inventare. Di concreto.
A proposito, intanto ricordatevi magari di giocarci un po' sopra votando il vinino come la parola dell'anno nel mondo della gastronomia: il sondaggio l'ha lanciato un blog di cucina, e la pagina del voto si raggiunge cliccando qui.

Natale #2

And, so this is Christmas
and what have we done
another year over
a new one just begun
and, so happy Christmas
we hope we have fun
the near and the dear one
the old and the young.

Happy Christmas (War is Over)
John Lennon

21 dicembre 2009

Pieropan rinuncia al Classico per imbottigliare il Soave a vite, ma purtroppo solo per l'estero

Angelo Peretti
Sì, lo so che chi mi legge abitualmente qui su InternetGourmet conosce la mia passione per la capsula a vite, lo screwcap, lo Stelvin, che non mi piace chiamar tappo. Ma figuratevi se mi perdo quest'occasione per riparlarne. E l'occasione è il numero di dicembre di Wine Spectator, quello della top 100, dei cento vini dell'anno, classica discussa e magari anche discutibile, ma indubbiamente referenziale, se la rivista americana ha tutti 'sti lettori che continuano a comprarla.
Ebbene, nel suo editoriale sull'uscita decembrina di WS, Matt Kramer scrive un pezzo che s'intitola: "My Wines of the Year", i miei vini dell'anno. E siccome Kramer è uno che non si può chiamar convenzionale, ecco che indica non già dei vinoni irraggiungibili (e imbevibili, ma quest'è osservazione mia), bensì delle bottiglie dalla buona beva e dal prezzo all'insegna dell'umanità. Questi, in ordine di apparizione: Serge Batard Hélo Le Rouge 2008, Pieropan Soave 2008, Bruna Grimaldo Barbera d'Alba Scassa 2008, Saucelito Canyon Vineyard Zinfandel 2007.
Ordunque, due italici, un francese e un californiano, a costi accessibilissimi tutt'e quattro.
Solo che mi pareva che qualcosa non andasse: ma come, Soave e non Soave Classico per il 2008 di Pieropan? Strano, ché Kramer è sempre così puntigliosamente corretto.
Allora leggo, e capisco: si dice nel pezzo che Pieropan per il suo 2008 ha scelto per la prima volta la chiusura con lo screwcap, con la capsula a vite, e questo spiega perché la designazione è Soave invece che il più prestigioso Soave Classico come accadeva nelle annate precedenti. Aggiunge infatti bene Kramer che le regole italiane proibiscono le chiusure diverse rispetto al tappo raso per il Soave Classico, ma che - "benvenuta la flessibilità italiana", e quest'è inciso suo - la legge consente anche una chiusura "non-cork" per quello che vien detto "soltanto" Soave.
Che questa sia un'anomalia legislativa tutta italiana, è vero: chi in etichetta scrive Classico (mica solo per il Soave: vale anche per tutti gli altri Classici, come il Valpolicella o il Bardolino) non può utilizzare altro che il tappo raso, ed è assolutamente e completamente assurdo. Ma che i Pieropan avessero cominciato a imbottigliare con lo screwcap, rinunciando al Classico, mi è giunta come notizia tutta nuova. E sì che son veronese e che m'occupo di vino, e che a Soave ci sono spesso e che considero Nino Pieropan un autentico genio bianchista (il Calvarino per me è un mito, sta nella leggenda) e che i suoi vini li bevo spesso e molto, molto volentieri. Ma il suo Soave base l'ho sempre trovato indicato come Classico anche quest'anno, santo cielo! E come tale lo presenta tuttora anche il sito internet dell'azienda.
E allora?
E allora navigando in rete, ecco che ho trovato un comunicato di Liberty Wines, il referenziatissimo e potentissimo importatore londinese di Pieropan. Titolo: "Pieropan turns the screw on Soave", che è una sorta di gioco di parole, che volendo, si può tradurre sia come "Pieropan gira la vite sul Soave", ma anche "Pieropan si converte alla vite sul Soave". Avvisa che l'azienda soavese ha deciso d'imbottigliare il suo 2008 con lo Stelvin e che dunque il vino, sinora denominato Soave Classico, non avrà più la dicitura, appunto, di Classico. Il testo prosegue raccontando che "sebbene sia stato un sostenitore dello Stelvin sin dal giorno in cui ha assaggiato il Mount Horrocks Riesling nel 2001, a Nino Pieropan era precluso dalla legge italiana d'imbottigliare il suo Soave Classico con lo screwcap ed era riluttante d'abbandonare la denominazione del Classico, perché la sua azienda era stata la prima a imbottigliare un vino chiamato Soave nei primi anni Trenta". Il comunicato prosegue informandoci che "tuttavia, Nino ha continuato a sperimentare lo screwcap e, assieme ai figli Andrea e Dario, ha deciso che adesso per la famiglia Pieropan è il momento di declassare la denominazione in modo da poter passare allo Stelvin con la vendemmia 2008". S'attribuisce ad Andrea la frase seguente: "Il Regno Unito, gli Stati Uniti e l'Australia riceveranno tutta l'assegnazione del 2008 chiusa con lo screwcap".
Bene, dico io, che, appunto, sono un fan dello Stelvin. Male, dico io, constatando che la cosa evidentemente vale solo per il mercato estero, e addirittura in Italia non mi risulta se ne sia fatta parola: è un'occasione perduta, a mio avviso, per fare cultura in patria. Insomma: si fa ma non si dice, si passa allo Stelvin ma solo per il mercato estero di lingua inglese. S'imbottiglia come Soave Classico per l'Italia e come Soave per i foresteri. Peccato: col marchio Pieropan in etichetta, personalmente preferirei di gran lunga svitare un Soave che stappare un Soave Classico. Perché a me, italiano, dev'essere precluso?
Capisco che vender vino in capsula a vite in Italia è impresa titanica, visti gli sciocchi pregiudizi correnti, ma se le grandi firme non danno il buon esempio, quando lo capiranno mai i nostri ristoratori ed enotecari e bevitori?

Natale #1

Poi auguravo:
- Buon Natale - e sparivo.
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.

Sogno di Natale
Luigi Pirandello

20 dicembre 2009

Vinino è la parola dell'anno? Votatela on line!

Angelo Peretti
La prendo come una simpatica boutade, una giocosa provocazione. Del resto, il mondo del blog è bello anche per questo: perché ci si può esprimere liberamente, e anche prendersi un po' in giro. Ma mi fa un sacco di piacere che ci sia una blogger romano-friulana che s'occupa di cucina che ha lanciato uno scherzoso sondaggio su quale sia la parola dell'anno nel mondo, appunto, della cucina. E che fra le dieci nomination abbia inserito anche il mio vinino, che alla cucina non fa diretto riferimento, essendo invece del panorama enoico.
Il blog va sotto il titolo di Ma che ti sei mangiato...
In un recente post propone, appunto, di votare "la parola del cibo dell'anno".
Scrive: "Se il Corriere.it lancia il sondaggio sulla parola dell’anno, allora per chi ha voglia di divertirsi e si diletta a surfare tra i foodblog, tra le ricette, le fiere, le guide… allora per voi curiosi, qual è la parola dei food online 2009?"
E propone dieci termini:
Birre artigianali
Tasting Panel
Cucina Molecolare
Gourmet
Cavolo
Cacio e pepe
Risotto
Julia Child
Biologico
Vinino.
Accidenti, avete letto? C'è anche il mio vinino.
Di ognuna delle "parole dell'anno" il blog dà anche una definizione. Del vinino scrive: "Un esempio di termine coniato da un blog, nella fattispecie InternetGourmet". Grazie!
E allora, gioco per gioco, invito i fan del vinino a votarla, la parola dell'anno: per andare alla scheda del sondaggio basta cliccare qui.

19 dicembre 2009

Quelli della caratteristica peculiare

Angelo Peretti
La caratteristica peculiare: era un vita che non ne sentivo parlare. M'è ricapitato di recente. A pronunciarla un politico o comunque un pubblico amministratore: non ho capito bene chi fosse.
Parlava del vino della sua terra, e diceva che quel dato vino si deve apprezzare per la "caratteristica peculiare". Esattamente così: la "caratteristica peculiare", senza nessun'altra specificazione.
Ora, di vini ne ho tastati parecchi, e di caratteristiche ne ho trovate tante. Ce n'è qualcuno che ha la caratteristica fruttata, qualcun altro la caratteristica tannica. Certi hanno la caratteristica bevibilità, cert'altri la caratteristica freschezza, perfino la caratteristica dolcezza. Ma qualcuno mi sa spiegare qual è, cos'è la caratteristica peculiare? Dovrò iscrivermi a un corso che me l'insegni.

18 dicembre 2009

Südtirol Brixner Eisacktaler Sylvaner Praepositus 2008 Abbazia di Novacella

Angelo Peretti
Era un po' che non andavo a Novacella, luogo per me dei ricordi. Luogo incantato. Che riesco a farmi piacere anche quando trovo pullman di turisti in gita. Ma che prediligo nei giorni del silenzio. Quando è bello rivistare la chiesa, che riluce anche nelle ore buie con quel suo tripudio di decorazioni che sembrano acquerellate. Quando è magico far visita alla biblioteca, ricca di codici antichi.
Di rito un salto nella stube, a mangiare speck e kaminwurze. E a bere almeno un bicchiere dei grandi vini che fanno nelle cantine pluripremiate dell'Abbazia.
Stavolta mi sono concesso due vini della linea Praepositus, quella di punta: il Kerner e il Sylvaner. E la preferenza è andata al secondo, ché il primo l'ho trovato ancora un po' chiuso, scontrosetto, con un finale sulla vena amarognola. Quanto al Sylvaner, invece, be', questo 2008 è davvero gran bianco.
Offre memorie intense ed eleganti di fiori e di frutta bianca. E la bocca è succosa e insieme polposa: il frutto quasi lo mastichi, senza tuttavia darti mai l'impressione di vino grasso, senza smancerie sdolcinate, ma anzi conservando snellezza straordinaria di beva e freschezza invitante. Ha, insomma, notevole finezza. E persistenza infinita.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

17 dicembre 2009

Vallée d'Aoste Torrette 2008 Didier Gerbelle

Angelo Peretti
Mi si dice che l'azienda agricola di Didier Gerbelle, ad Aymavilles, in Val d'Aosta, sia nata da poco, e che ne sia giovanissimo il titolare: o meglio, così m'ha dichiarato il ristoratore che m'ha proposto una loro bottiglia. Vino ne facevano, in casa, anche prima, ma mica per l'imbottigliamento. La fondazione ufficiale - lo leggo su un sito locale - sarebbe stata però avviata solo nel 2006, e dovrebbe trattarsi di una microazienda, se è vero che l'obiettivo è quello di arrivare alle 15mila bottiglie l'anno prossimo. Dunque, difficile venga distribuita fuori zona.
Detto questo, dico che m'è capitato d'assaggiare il loro Torrette del 2008 di passaggio dalla Vallée. E se è vero che son rose fioriranno, be', mi par di capire che qui ci si prepari proprio alla fioritura d'una nuova bella realtà valdostana.
Il vino aveva colore rubino brillante.
Naso da frutto maturo. Mirtillo, amarena. Leggera vena affumicata. Un che di peperone.
Bocca fresca, fruttata di piccolo frutto, di ciliegia, succosa.
Vino da bere con gusto, anche se quest'estate - quando l'ho bevuto - era ancora decisamente molto giovane.
Due lieti faccini :-) :-)

16 dicembre 2009

Asti docg: la bollicina aromatica in 100 battute

Angelo Peretti
Ho detto di recente della visita a Mango per l’assaggio del Moscato d’Asti dell’annata 2009, in anteprima. Ma s’è potuto tastare anche dell’Asti, dello spumante intendo. E qui di seguito presento le mie impressioni su un quintetto di bollicine astigiane, tra quelle provate.
Il Consorzio dell’Asti sta investendo fior di quattrini sulle riviste di settore per cercare di destagionalizzare il consumo, ma mi par di capire che sia partita dura: è sotto Natale, soprattutto, che si stappa la bolla fatta coll’uva di moscato. E insomma parlarne adesso, tutto sommato, non va male: per chi ama il genere, spero di dare qualche interessante consiglio.
Ecco qui sotto, dunque, le cinque etichette, in cento battute cadauna.
Asti La Selvatica 2009 Caudrina
Un must. Nitide memorie di pesca gialla, mandarino, uva moscato, fiori. Cremosità e tensione.
Tre faccini :-) :-) :-)
Asti Patrizi 2009 Manfredi
Caramello, amaretto, pesca sciroppata. Polposo, denso, cremoso, avvolgente. Gioca sulla potenza.
Due faccini :-) :-)
Asti 2009 Bera
Pera sciroppata, amaretto. Grasso. Prende slancio avvalendosi d’una buona freschezza
Due faccini :-) :-)
Asti 2009 Cà dei Mandorli
Al naso sentori floreali e officinali, quasi in stile sauvignon blanc. Cremoso al palato.
Un faccino :-)
Asti 2009 Terrenostre
Crosta di pane, frutto maturo, pesca soprattutto. La dolcezza è piuttosto evidente.
Un faccino :-)

15 dicembre 2009

Bob Dylan - Christmas in the Heart

Angelo Peretti
Ce l'avete presente quell'abbinamento, che da qualche anno va di moda ma sta conoscendo sempre nuovi proseliti, tra i formaggi stagionati (o erborinati) e le confetture? A me, che amo il formaggio, non va più di tanto, perché il gusto del cacio mi si modifica, anche sensibilmente, con la dolcezza acida d'una confettura, o il piccante d'una mostarda, o la morbidezza zuccherosa d'un miele. Preferisco dunque in genere mangiarmeli così, da soli, i miei formaggi. Ma ammetto che certuni abbiano un carattere così marcato, deciso, quasi urticante talvolta, che il refrigerio d'una marmellata ti vien da cercarlo. Dunque, in quei casi - con un Roquefort, per esempio, o un Cabrales o uno Stilton - l'accostamento ci può anche stare ed esser piacevole, con quella personalità così spiccata del cacio - ruvido, rustico, deciso, maschio - che viene almeno un po' ingentilita. Ed anzi, certe volte ne vien fuori un connubio squisito: formaggio e confettura fondono i loro caratteri per crearne un altro fascinosamente nuovo, né dell'uno, né dell'altro. Comunque, ripeto, è cosa da ammettere, per me e i miei gusti, in piccola misura, ché i rischi son due: da un lato, smarrire il gusto del formaggio, e dall'altro rendere il tutto - il troppo - stucchevole.
Ecco, a questo mi veniva da pensare in chiave enogastronomica ascoltando l'ultimo disco di Bob Dylan. Che se n'è uscito con un album di quelli che non t'aspetti: una raccolta di canzoni di Natale. Christmas in the Heart (Natale nel cuore), s'intitola. Ed è ruvidotto e cartavetrato come tutto l'ultimo Dylan, ma anche, in sovrapposizione, dolcino (dolciastro?) come ha da essere, per convenzione non scritta, un mix di canti natalizi. Insomma: come un Roquefort e una confettura d'albicocche, assieme.
Magari ci si è anche divertito, Dylan, a cantare, in parte dissacrandoli, quei Xmas carols. E più di tutti ha colpito con l'accetta l'Adeste Fideles, cantanto in un latino - come dire - alcolico, storpiato, stropicciato, inzaccherato, prima che il coretto vi posi sopra la sua (amabile?) dolcezza retrò.
Da prendere a piccole dosi. Ma da prendere.
Bob Dylan - Christmas in the Heart - 2009

14 dicembre 2009

Perché i giornalisti non scrivono di Moscato?

Angelo Peretti
Ci ho pensato su, prima di scrivere. Perché è noto che non ho la vis polemica d’un Franco Ziliani e neppure la profondità d’analisi sociologica d’un Luciano Pignataro, giusto per dire di due giornalisti & blogger che stimo e che seguo on line. Però alla fine non mi son potuto sottrarre. Perché l’interrogativo è intrigante.
L’interrogativo è questo: “Perché i giornalisti non scrivono del Moscato?”
Non me lo pongo io. Ce l’hanno posto, al drappello di noi giornalisti presenti all’affollatissima e non indimenticabile cena di virtuale apertura dell’Anteprima Moscato 2009, a Mango, il sindaco della cittadina, e poi il presidente del Consorzio di tutela astigiano, e poi un politico credo regionale. Lagnandosi, i tre, che dietro al sistema moscato (uva) ci sta un’intera economia di cinquantadue comuni, e che dunque bisogna sostenerla, quest’economia, scrivendone (bene). E invece i giornalisti, a sentir loro, non scrivono di Moscato (vino). “Perché mai?”, si domandano.
La risposta temo che sia una sola: perché loro non ci credono. Loro gli astigiani, intendo, mica i giornalisti. Al Moscato non ci credono. Semmai credono all’Asti, lo spumante, e forse neanche del tutto a quello.
Inutile dire di crederci a parole, e fare magari convegni e dibattiti. Bisogna crederci coi fatti. Anche coi piccoli fatti. Come una cena.
Bene: a quella cena, al castello di Mango, c’erano, credo, più di centocinquanta persone. Politici, amministratori, produttori, giornalisti e blogger. Di giornalisti ce n’erano, mi pare, almeno una ventina, se non di più. Di Moscato, invece, neanche l’ombra fino alla fine, quando ce n’hanno dato un calicetto che neppure ti ci bagnavi la bocca. Ebbene sì: alla cena di gala della vigilia dell’Anteprima del Moscato ci hanno fatto bere Dolcetto, Barbera, Nebbiolo e Barbaresco. Tutti rossi. Niente Moscato. Relegato al ruolo di complemento di secondo piano, al momento del dessert. Che è forse la collocazione peggiore.
Lo dice uno che il Moscato lo ama anche come aperitivo, e talvolta, d’inverno, se lo porta pure in tavola. Una sera di queste, per esempio, ho messo in tavola pane caldo e quattro formaggi francesi di capra. E ci ho bevuto assieme un Moscato d’Asti, sissignori, ed era una delizia. E spesse volte stappo il Moscato col prosciutto crudo, ed è un’altra meraviglia.
Ecco: è coi fatti che si dimostra di crederci, al Moscato, mica con le parole. Ed a Mango ci hanno dato parole, ma non Moscato. Se noi giornalisti eravamo là, magari non era per fare una gita. Magari era perché ci interessa il Moscato, ne siamo curiosi. E vorremmo bercelo, mica solo assaggiarlo nella degustazione ufficiale, quando sei là che lavori e sputi tutto dopo averlo tastato. Vorremmo bercelo in tavola, simpaticamente, chiacchierando. Se c’interessasse bere Dolcetto, Barbera, Nebbiolo o Barbaresco mica andremmo all’Anteprima Moscato, o no?
Allora che serve domandarsi perché i giornalisti non scrivono di Moscato, quando la risposta è semplicissima? Il territorio non dimostra di crederci, e allora perché ci dovrebbero credere gli altri? Suvvia, moscatisti, abbiate orgoglio maggiore.

13 dicembre 2009

Olio extravergine di oliva 2009 Costadoro

Angelo Peretti
Valentino Lonardi fa vino sulle colline di Bardolino (l'azienda va sotto il nome di Costadoro), e ci fa pure olio, e lo fa buono ogni anno. Una sicurezza. M'è capitato spesso, anzi, di dire che il suo è un extravergine per molti versi esemplare ed esemplificativo delle prerogative olearie della riva veneta del lago di Garda.
Anche con la raccolta del 2009 il suo extravergine non si smentisce.
Al naso le classiche sensazioni di oliva verde, di erbe di prato, di mandorla, di mela croccante: la casaliva, varietà principe della riviera, s'avverte eccome.
Quando passi all'assaggio al palato, t'avvedi c'è come la ricerca d'un equilibrio fra tradizione e modernità, con la prima che quest'anno mi pare prenda un po' di vantaggio. Da una parte, infatti, c'è la classica conduzione dolce, che poggia peraltro su un piacevole fondo mandorlato. E la piccantezza è appena accennata. Ma dall'altra, ecco che torna a presentarsi la personalità vegetale, erbacea, seppir con sostanziale delicatezza, eppure non cedevole. In un piacevole mix.
Il finale è tipicamente improntato sui ricordi di frutta secca, con la nocciola che si fa largo. E la persistenza è apprezzabile.
Due lieti faccini :-) :-)

12 dicembre 2009

Dolcetto d'Alba Brusalino 2008 Cascina Fonda

Angelo Peretti
Con tutta questa mania di farli neri impenetrabili e alcolici e iperconcentrati, in ossequio alle mode d'importazione, avevo un po' perso la speranza di ritrovare un Dolcetto di quelli sbarazzini, che si fanno apprezzare perché stanno sulla tavola, mica perché vanno bene nelle degustazioni.
L'ho ritrovato, invece, un Dolcetto di quelli tutta beva. Il 2008 albese della Cascina Fonda, da Neive.
M'è piaciuto soprattutto per quella sua spiccatissima vena agrumata con cui ti si propone sia al naso che alla bocca: arancia rossa, e un che di pompelmo rosa perfino. E poi il fruttino di bosco, un po' acidulo, come sono i lamponi appena raccolti. Ancora, un po' di marasca. Insieme, un tocco di spezia, giusto per arricchire il tutto.
C'è poi buona freschezza, e un tannino per niente aggressivo.
Un vino che puoi stappare sopra a una marea di piatti della cucina autunnale o invernale. E non dite che è poco.
Due lieti faccini :-) :-)

11 dicembre 2009

Dieci annate d'Amarone per capire la storia del rosso valpolicellese

Angelo Peretti
Villa Rizzardi, a Negrar, in Valpolicella, è un gioiello, soprattutto adesso che è stata interamente ristrutturata. E da vedere assolutamente sono i suoi giardini - i giardini di Pojega - spettacolo della combinazione fra genio architettonico e natura. È proprio a villa Rizzardi che la contessa Maria Cristina e i figli Agostino e Giuseppe hanno allestito nei giorni scorsi una degustazione verticale delle loro bottiglie di Amarone, quelle col marchio Guerrieri Rizzardi. L’Amarone che si trae dal vigneto adiacente al giardino e poi quello della vicina collinetta di Calcarole, uno dei più straordinari crû della terra valpolicellese.
Il vigneto di Pojega è ancora coltivato a pergola doppia: vigne piantate fra il ’76 e l’81 su terre dalla forte presenza d’argilla, sopra la roccia calcarea. Qui è pedecollina. Principalmente ci sono corvina, corvinone e rondinella, oltre a dei rari ceppi di molinara, negrara, croatina, forselina.
Il crû di Calcarole ha suolo bruno rossastro, ricco di calcare attivo. L’esposizione è a sud nella parte alta, ed a sud-ovest sui terrazzamenti. La vigna ne beneficia: rese basse, uve capaci di sviluppare struttura. Allevamento a guyot. C’è soprattutto corvina, e poi barbera, rondinella e corvinone.
In passato, dalle due aree di traeva un solo Amarone. Oggi son due: il Villa Rizzardi dalle uve di Pojea, il Calcarole dall’omonimo colle. Hanno un tratto comune: l’eleganza. Son della tipologia . ahimè, non così frequente – dell’Amarone che, pur col suo alcol, mira a farsi bere più che degustare.
Passato e presente convivono negli archivi di cantina, a Pojega. Gli archivi, intendo, delle bottiglie, ché questa dei Guerrieri Rizzardi è una delle pochissime aziende che siano in grado d’allestire una verticale storica dei loro vini. Evviva.
Bere oggi quei vini consente di rivivere la storia enologica – che è recente, complessivamente – dell’Amarone valpolicellista. Fino al ’96 nelle cantine dei Rizzardi il mosto fermentava direttamente in botte grande, mai rinnovata finché il legno era capace di tenere. Spesso neppure si diraspava. Altro mondo. Poi si è badato maggiormente alla pulizia del frutto, ma fino al 2001 s’è usato in ogni caso solo legno grande. Nelle ultime annate, prima si fa un anno di barrique, per “fissare” il tannino, e poi di passa per due anni alla botte grande. Ne sono usciti e tuttora ne escono – l’ho detto e lo ripeto - vini che non cercano la potenza, bensì l’armonia, ed è gran cosa. Gli stessi colori non spingono sulla tonalità carica in stile filoamericano: la corvina non colora granché, e allora perché esagerare? Ben fatto.
Adesso i vini tastati, con una riga sul vino e una sull’annata, così come risulta dagli archivi di casa, e così com'è stato spiegato da Giuseppe Rizzardi, il facitore attuale dei vini.
Amarone Classico Villa Rizzardi 2007
Gran cura nella selezione delle uve, per via di due grandinate estive. In fruttaio in anticipo.
Da botte. Ovviamente si avverte il legno, ma promette assai bene. Frutto ed eleganza. In divenire.
Tre faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico Calcarole 2004
Clima incostante, con media di piogge superiori agli anni precedenti, soprattutto in agosto.
Non ancora in commercio. Slanciato, elegante. Frutto appassito, terra rossa, fiori secchi. Fresco.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico Villa Rizzardi 2001
Annata climaticamente normale, estate calda. Gran lavoro in vigna per ridurre la produttività.
Potenza alcolica e, insieme, freschezza. Tannino ben saldo. Toni decadenti di frutta macerata.
Due faccini :-) :-)
Amarone Classico Calcarole 1998
Siccità estiva, bell’autunno prolungato che consente di attendere la maturazione ideale delle uve.
Splendido, aristocratico. Old fashioned al naso, elegantemente fruttato e speziato al palato.
Tre faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico 1996
Annata impegnativa, che richiede costante impegno in vigna da pare del coltivatore.
Rugginoso, terroso. A tratti marino, salmastro. Chiusissimo. Potrebbe aprirsi fra un tot d’anni.
Un faccino :-)
Amarone Classico Calcarole 1995
Fin dall’inizio della raccolta, in zona ci si è accorti che si trattava di annata memorabile.
L’Amarone che vorrei. Esile per la tipologia, ha grande beva. Rose, spezie dolci, frutto. Austero.
Tre faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico 1990
Il Consorzio della Valpolicella giudica l’annata da cinque stelle: grande, dunque.
Terra rossa, speziato, frutta sotto spirito, cioccolato al latte, genziana. Nello stile del Porto.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico Calcarole 1988
Altra annata da cinque stelle secondo il Consorzio valpolicellese.
Balsamico, tracce di menta. Caffè, cacao. Polposo e succoso assieme. Caldo di alcol. Buona acidità.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico 1976
Non ci sono dati sull’annata.
Fuori standard: perfino beverino per leggerezza e freschezza. Decadente e slanciato. Altra epoca.
Due faccini e quasi tre :-) :-)

10 dicembre 2009

Prosecco di Valdobbiadene Dry Riva Granda Millesimato 2008 Roccat

Angelo Peretti
La lettera allegata al pacco diceva così: "Mi permetto di inviarle una campionatura di Prosecco di nostra produzione. La nostra è una piccola azienda agricola familiare, di sette ettari di vigneto di prosecco. Il processo di pigiatura, vinificazione e spumantizzazione è tutto fatto all'interno dell'azienda". Come sintesi, niente male: poche parole, ma tutto quel che serve. Ottima premessa.
Nella scatola, tre vini, praticamente l'intera gamma produttiva: un Prosecco di Valdobbiadene Brut, il Dry e la rara versione ferma.
Il nome dell'azienda agricola è Roccat, "di Codello Clemente e Manuel", com'è burocraticamente scritto sul depliant, anteponendo il cognome al nome. Da Valdobbiadene.
Be', che dirvi, se non che il Valdobbiene Dry Riva Granda Millesimato 2008 ce lo siamo scolato in due?
Un Prosecco che mi sento di consigliare, sissignori. E nonostante sia dichiarato come dry non è per niente stucchevole, come troppe volte m'è capitato. Lo definirei morbidamente cremoso, invece, e per questo gardevolissimo. Gradevolmente avvolgente, intendo, con quella carbonica così bene integrato nel corpo. E quanto al corpo, appunto, dimostra di avere buona polpa.
Il frutto è mela croccante. Al naso e anche al palato. Lineare. Come una mela che scrocchia sotto i denti, succosa. E ci si aggiunge, sia all'olfatto che in bocca, una bella presenza floreale, elegante, primaverile.
Bevuto volentieri.
Il sito internet aziendale dice che è fatto con uve di prosecco, con aggiunte minime di perera e bianchetta, e questa commistione dell'uva prosecchista per definizione con l'altre locali mi piace.
Dice anche, il web site, che "ideale per il dessert ricercato", e su questo un pochino dissento, perché preferirei vederlo invece - eccome! - con dei gamberi crudi, ché ritengo sarebbe abbinamento ideale, mentre il dessert rischierebbe, temo, di coprirlo con lo zucchero o con l'acidità (se fosse di frutta).
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

9 dicembre 2009

Vignerons, ok: ma in etichetta che ci mettiamo?

Angelo Peretti
Ho riportato anche su questo mio InternetGourmet il testo del Manifesto dei Vignerons d'Europe siglato a Firenze. Dopo due giorni di dibattiti svoltisivi a Montecatini, presenti in un migliaio i vignaioli, arrivati - dicono le cronache - da una ventina di nazioni. Mica male.
Mi fanno piacere, in particolare, due delle affermazioni del testo programmatico. La prima: "Il vignaiolo governa il limite in tutti i suoi impegni ricercando l’ottimo, mai il massimo". La seconda: "Il vignaiolo pratica la trasparenza: dice quello che fa e fa quello che dice".
Ecco, è esattamente questo che, a mio avviso, ci vuole. in primis, la ricerca costante del meglio, eppure mai la spinta a fare sempre di più seguendo l'autogiustificazione del mercato. Oh, sì: capire i propri limiti e cercare ogni giorno di saltar di là dall'asticella, volendo l'ottimo, ma senza accelerazioni innaturali. Adoro il "carpe diem": prenditi la tua giornata e cerca di viverla al meglio, ma col senso del limite.
Poi, la trasparenza. E di questa ci sarebbe grande bisogno nel mondo. Non solo nel mondo del vino. Nel mondo. So che è utopistico arrivarci. Ma se iniziasse il vignaiolo, è già gran cosa.
Ma qui faccio mio le parole che Sergio Miravalle ha scritto su La Stampa, commentando in due righe il Manifesto dei Vignerons: "A questo punto sarebbe interessante che la qualifica di vignaiolo non venisse 'rubata' o camuffata e come consumatori dovremmo avere la possibilità di poterla riconoscere in etichetta".
Sono d'accordissimo. E quando sono in Francia, la risposta la trovo: sulle bottiglie dei vignaioli che aderiscono alla federazione dei vigneron indépendant c'è il marchietto dell'omino con la gerla in spalla che mi dice che quel tal vino è in regola con l'autodisciplina del gruppo. Gruppo grande e potente, una sorta di sindacato trasversale della categoria. Ne compro da anni le bottiglie dei soci: sempre presa gran bella roba.
In Italia è nata da non moltissimo la Fivi, la federazione italiana dei vignaioli indipendenti. Che ha come presidente un grande del vino come Costantino Charrère e vice Peter Dipoli e segretario il mio amico Giancarlo Gariglio. Persone sagge. E all'idea della Fivi ci credo. Ma sulle bottiglie dei soci non c'è ancora nulla che ne identifichi la condivisione d'un programma, d'una idea, d'un ideale, d'un valore accomunante. Ecco: finché le bottiglie dei vignaioli indipendenti italiani non avranno nulla che parli a voce chiara dell'appartenenza ad un progetto, quel progetto difficilmente avrà piedi capaci di camminare.
Ha ragione Miravalle: l'appartenenza ai valori dei vignerons "come consumatori dovremmo avere la possibilità di poterla riconoscere in etichetta". Nel nome della trasparenza. Perché così, come produttori, saremmo anche in grado di valutare la coerenza.

8 dicembre 2009

12 dicembre 2009: a Trento convegno sul "vero vino naturale"

Porthos Edizioni e la Confraternita della vite e del vino di Trento organizzano il 12 dicembre alle ore 9,30 presso la Camera di Commercio di Trento (via Calepina, 13) una tavola rotonda con successivo dibattito pubblico sul tema “Il vero vino naturale”.
Intervengono Enzo Merz, Elisabetta Foradori, Sandro Sangiorgi (direttore di Porthos), Giovanna Morganti, Angiolino Maule, Giusto Giovannetti (biologo e ricercatore, direttore del Centro Colture Sperimentali di Aosta), Maurizio Paolillo (agronomo e consulente scientifico di Porthos), Michele Lorenzetti (biologo e enologo), Maurizio Gily (agronomo, direttore di Millevigne), Giuseppe Malizia (primario del reparto di gastroenterologia).

Il Manifesto di Vignerons d’Europe

Manifesto di Vignerons d’Europe 2009
Il vignaiolo si prende cura in prima persona della vigna, della cantina e della vendita.
Il vino del vignaiolo è vivo, dona piacere, è figlio del suo territorio e del suo pensiero. Espressione autentica di una cultura.
Il vignaiolo considera il consumatore un co-produttore.
Il vignaiolo custodisce e modella il paesaggio nel rispetto della biodiversità e della cultura del proprio territorio, che racconta e arricchisce.
Il vignaiolo come agricoltore si assume la responsabilità di preservare e migliorare la fertilità del suolo e l’equilibrio degli ecosistemi.
Il vignaiolo si impegna a rinunciare all’utilizzo di molecole e organismi artificiali e di sintesi con l’obiettivo di tutelare il vivente.
Il vignaiolo governa il limite in tutti i suoi impegni ricercando l’ottimo, mai il massimo.
Il vignaiolo si assume la responsabilità della propria attività nel rispetto dell’ambiente, della salute del consumatore e dei destini della propria comunità e della terra.
Il vignaiolo si impegna a creare e alimentare relazioni con altri vignaioli, agricoltori, produttori di cibo, cuochi, università e istituti di ricerca, educatori e cittadini nella propria comunità e nel mondo.
Il vignaiolo pratica la trasparenza: dice quello che fa e fa quello che dice.
I Vignerons d’Europe riuniti a Firenze chiedono alle autorità nazionali ed europee di non ostacolare il loro lavoro con regolamenti adatti all’industria ma non alle loro particolarità.

Pillole di Vignerons d'Europe #2

Carlo Petrini, presidente di Slow Food
A Bruxelles comandano le multinazionali. Noi dobbiamo contrapporre questa nostra multinazionale virtuosa di piccoli produttori. I vignerons e i contadini per aver peso nella politica europea devono fare sistema. È necessario che si rapportino con i ristoratori, i vari attori del settore e soprattutto con i consumatori, che io amo chiamare coproduttori, in quanto soggetti informati, attivi e responsabili. Noi oggi qui riuniti ci confrontiamo, scopriamo le diverse culture per creare una rete e superare i limiti del nazionalismo dei vignerons, troppo parcellizzati, forti sul territorio, ma con poca voce in capitolo a livello europeo. Creando questo movimento di piccoli produttori potremo far valere le nostre istanze basate su rispetto di identità, sostenibilità, qualità, tradizione ed economia locale. Questa è la nostra filosofia, una politica slow, ma con piede fermo.

7 dicembre 2009

Pillole di Vignerons d'Europe #1

Xavier de Volontat, presidente della Confédération Européenne des Vignerons independents
Noi vignerons in Europa abbiamo un ruolo sociale ed economico, garantiamo la continuità tra terroir e prodotto, preserviamo paesaggi e cultura, eppure a livello europeo siamo gravemente minacciati. Sotto il nome accattivante di “armonizzazione legislativa” si vorrebbe inglobare il vino nei regolamenti applicati per gli altri prodotti alimentari, senza attenzione per le specificità. Etichettando il vino solo con un marchio e l’indicazione di ingredienti e calorie, si perde la possibilità di valorizzare il produttore come legame forte con il territorio, e questo legame deve essere chiaro. Non si può slegare il vino dal concetto di origine.

6 dicembre 2009

Moscato delle mie brame: l'annata 2009 (o delle dolcezze)

Angelo Peretti
Sono stato a fare un full immersion nel Moscato d’Asti. A Mango, all’Enoteca regionale delle Colline del Moscato, dove s’è svolta l’Anteprima della nuova annata, il 2009, con la collaborazione organizzativa di Go Wine. Giusto in tempo per prendere la prima nevicata di stagione. Adoro il Moscato d’Asti, che quand’è buono, e dunque equilibrato più che dolce, bevo volentieri anche come aperitivo, oppure con una fetta di prosciutto crudo. Ma sul Moscato astigiano avrò magari ancora da scrivere.
Ora cerco di dire della degustazione e di quel che forse ho capito dell’annata. E la prima cosa che ho capito è che il caldo s’è fatto sentire anche da quelle parti, tra le vigne dei cinquantadue comuni della docg. E siccome in su con l’alcol non si può andare, ché la tipologia e il disciplinare non lo permettono, e di zuccheri con quel caldo ce n’erano tanti nelle uve, ecco che molti Moscati 2009 sono dolci, decisamente. Magari mi viene il sospetto che, oltre alla stagione, a spingere verso la dolcezza sia pure l’ossequio alla convinzione che la zuccherosità venga premiata dal mercato. Col rischio però di cadere nello stucchevole. Soprattutto in annate bollenti, quando le acidità non sono particolarmente elevate e dunque faticano a compensare gli zuccheri residui.
Vabbé. Diciamo che poi mi son trovato in non poche difficoltà nell’assaggiare, ché quattro ore erano pochine per una novantina di vini, anche se il servizio ai tavoli è stato impeccabile. La difficoltà è data dal fatto che gli zuccheri ti riempiono la bocca, e allora devi cercare di ritararti continuamente. E in più gli imbottigliamenti son recentissimi, e dunque i vini scossi, e spesso altini di solforosa che si deve ancora assorbire. E insomma, il rischio (la certezza) di prendere la cantonata tastando di corsa c’è proprio. Ci sarebbe bisogno di riprovare, di riassaggiare, di scavare. Dunque, le indicazioni che fornisco qui di sotto son da prendere con beneficio d’inventario.
Son però contento d’una cosa: che a prevalere nella mia personale wine list dei Moscati 2009 tastati rigorosamente alla cieca sia stato quello di Brusalino. Avevo dormito nel loro agriturismo, in collina, la sera prima. Gente alla buona, che fa vino con semplicità. Il loro Moscato m’è proprio piaciuto. Nelle mie note di degustazione mi sono scritto: “Lo voglio!”. Stupidamente, non ne ho comprata neppure una bottiglia, ché solo tornato a casa ho abbinato note d’assaggio e lista dei campioni provati (sul pc avevo solo il numero del campione). Mi sa che mi toccherà tornarci. Da turista.
Ora, una ventina di recensioni, in 100 battute al massimo ciascuna.
Moscato d'Asti Brusalino 2009 Brusalino
Leggiadria floreale. Mela croccante, pesca bianca, mandarino. Vince per finezza. Un acquerello.
Tre faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Fratelli Grasso
Pesca e confetto alla mandorla, con persistenza infinita. Uva sultanina nel lunghissimo finale.
Tre faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti Cascina Fiori 2009 Oddero
Fiori, mentuccia, pesca, confetto. Fresco, a tratti astringente. Non cerca polpa ma eleganza.
Tre faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti Riveto 2009 Dante Rivetti
Piacevolmente agrumato. Grasso, polposo, prende slancio con la freschezza ben modulata.
Tre faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti Pian Pezzea 2009 Cascina Valon
Fruttato di pesca e mandarino. Fresco, scattante, ma anche elegante. Dolcezza ben bilanciata.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Moscato d'Asti Lumine 2009 Cà 'd Gal
Delicatamente floreale, morbidamente cremoso. Senza cercare potenza, offre eleganza fruttata.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Paolo Saracco
Difficilissimo coglierne l’eleganza in questa fase della vita. Eppure è lui, inconfondibilmente.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Moscato d'Asti Cascina Carretta 2009 Maria Luigina Negro
Concede con lentezza la salvia e i fiori. Citrino, a tratti salino. Pesca croccante, melone.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Collepeitino
Pesca gialla matura, tracce di salvia. Vuole semplicemente farsi bere, senza pretenziosità.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Bera
Fresca e persistente presenza mediterranea di agrumi. Il finale vira verso la pesca al forno.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti Bricco Sant'Antonio 2009 Cantina sociale di Canelli
Semplice, sbarazzino. Sottili toni floreali e fruttati. Fresco, gradevolmente agrumato.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Marco e Vittorio Adriano
Fruttato, magari con la carbonica un po' in rilievo, ma ha scattante presenza agrumata.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2009 Vigna Rionda Massolino
Fruttato di pesca e agrumi, ha note di torta alla crema. Dolcezza mitigata dalla freschezza.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti Tenuta del Fant 2009 Il Falchetto
Difficile da interpretare. Pesca al forno con l'amaretto. Classicamente dolce e fruttato.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti dei Giari 2009 Cà dei Mandorli
Ha freschezza, direi anche una certa succosità di frutto e un che di tannico nel finale.
Due faccini :-) :-)
Moscato d’Asti Bel Piano 2009 Cascina Fonda
L’ampia dolcezza fruttata è mitigata e regolata dalle fresca vena agrumata di mandarino.
Due faccini :-) :-)
Moscato d'Asti Runcus Aldonis 2009 Gianluigi Gaglione
Freschezza e leggera tannicità sorreggono il frutto polposo, mitigando la notevole dolcezza.
Un faccino :-)
Moscato d'Asti 2009 Tenuta San Marco
Floreale, fruttato di pesca bianca. Semplice e lineare. Spensieratamente beverino.
Un faccino :-)
Moscato d'Asti La Gatta 2009 Terre da Vino
Floreale, soprattutto. Sapidità e lieve astringenza sorreggono un corpo esile. Gradevole.
Un faccino :-)
Moscato d'Asti 2009 Fratelli Rabino
Tanta polpa, ma senza la zuccherosità stucchevole di altri vini dalla medesima pretesa.
Un faccino :-)

5 dicembre 2009

Vin(i) santi in 100 battute

Mauro Pasquali
Parlare di vini dolci, è come ripercorrere la storia dell’enologia. Tutte le fonti storiche, tutti i reperti archeologici conosciuti, tutte le tradizioni ed i testi letterari antichi dicono che i primi vini commercializzati furono quelli “dolci” perché, grazie agli zuccheri naturali ed agli aromi aggiunti, potevano conservarsi meglio ed essere trasportati con le navi dai paesi produttori in tutte la parti del mondo conosciuto.
Fra i vini dolci occupano un posto di prestigio (ancorché a rischio di oblio) i vin(i) santi. Uso volutamente questo modo di scriverli ché voglio accomunare in questa parola sia quelli toscani e di Gambellara (vin santi) che quelli trentini (vini santi).
Molte e diverse le spiegazioni sul significato e l’origine del nome Vin(o) Santo: potrebbe derivare dalla parola greca Xantos (giallo) per il colore del vino; per l’uso liturgico e, quindi, santo, che ne faceva la Chiesa bizantina; per l’epoca della pigiatura durante la Settimana Santa (Vino Santo Trentino); per il significato che la Chiesa d’Oriente dava alla parola “santo” cioè il diverso e quindi prezioso e raro; dal nome dell’isola greca di Santorini, che fu chiamata così dai Veneziani in onore di Santa Irene, dove si produceva un vino dolce denominato vino di Xanto.
Oggi i vin(i) santi sono a rischio: nella nostra epoca “fast” il solo pensare che un vino debba attendere sette, otto, nove e più anni per essere commercializzato appare una eresia (ops! forse, parlando di vin santi non è il caso...). Più facile produrre vini passiti che dopo due, tre anni possono essere immessi in commercio,dimenticando che il vin(o) santo, oltre ad essere un vino straordinario quando fatto bene, è il vino dell'ospitalità, il vino che, a scapito della latitudine cui veniva prodotto, dichiarava quanto l'ospite fosse gradito. Era conservato gelosamente nella credenza, spesso chiuso a chiave, e offerto all'ospite importante, amico o autorità che fosse, centellinando in bicchierini il contenuto di una bottiglia a volte di cristallo, così da mostrare appieno il suo colore: oro ambrato.
Oggi sono rimasti in pochi a fare vin(o) santo. Non fosse per i toscani, che ne producono e vendono quantità importanti, per gli altri si tratta di una nicchia: 250-300 ettolitri in Trentino, meno, molto meno a Gambellara e produzioni marginali nel resto d'Italia.
Veniamo ora alla degustazione: otto vin(i) santi otto. Due trentini, due toscani e quattro di Gambellara. Diverse le sensazioni e difficile la comparazione, soprattutto fra quelli (i trentini) riduttivi e gli altri ossidativi. Un appunto: peccato per l'eccessiva giovinezza di quelli di Gambellara: credere nel proprio vino significa anche osare di più nell'invecchiamento e saper aspettare.
Ecco i vini, descritti in 100 battute al massimo ciascuno.
Vin Santo di Gambellara 2004 Giovanni Menti
Giallo oro non tipico. Naso balsamico e mieloso. In bocca dattero, albicocca e bella vena amarognola.
Un faccino :-)
Vin Santo di Gambellara 2004 Cantina Sociale di Gambellara
Ambrato. Al naso frutta matura, uva passa e miele. In bocca morbidezza con finale di mandorla.
Un faccino :-)
Vino Santo Trentino 1998 F.lli Pisoni
Giallo dorato con naso molto elegante e complesso. Freschezza e pulizia in bocca con bel finale lungo.
Tre faccini :-) :-) :-)
Vino Santo Trentino 1997 Gino Pedrotti
Un fuoriclasse. Bel giallo dorato con grande naso elegante. In bocca grande armonia e pulizia.
Tre faccini :-) :-) :-)
Vin Santo di Gambellara 2004 Lino Sordato
Bel giallo ambrato. Naso di frutta matura e dattero. Corpo pieno e intenso con bel finale amarognolo.
Due faccini e quasi tre :-) :-)
Vin Santo di Gambellara 2001 La Vigna
Bel colore ambrato. Naso dolce di frutta molto matura. Bocca un po' stucchevole e mielosa.
Un faccino :-)
Vin Santo Chianti Classico 2001 Fattoria di Fèlsina
Oro rosso. Pesca matura e frutta tropicale. Grande morbidezza ed eleganza. Molto lungo in bocca.
Tre faccini :-) :-) :-)
Vin Santo Chianti Classico 2000 Castello d'Albola
Ambrato. Uva passa, albicocca, nocciola, fico. Morbido e caldo, non stucchevole. Grande lunghezza.
Due faccini :-) :-)