28 febbraio 2011

I due volti dell’alcol e una scomoda intrusa...

Vincenzo Zappalà
Ho a lungo combattuto contro una certa ipocrisia dilagante che accetta supinamente la campagna proibizionistica che si sta abbattendo contro l’alcol e in particolar modo contro il vino. Ho addirittura contattato uno dei massimi fisiologi polmonari del mondo (Mike Hlastala dell’Università di Seattle) per avere conferme scientifiche inoppugnabili della fallacità degli strumenti utilizzati per il controllo della guida in stato di ebbrezza sulle strade. Tuttavia, la scienza oggi non paga e si preferisce ricondurre il tutto a falsi moralismi e a percentuali arbitrarie. Da solo non ho potuto andare oltre, anche se vi erano tutte le prove per costruire e inviare una denuncia alla Magistratura. L’opinione pubblica, stimolata dai “media”, preferisce chiudere un occhio (spesso tutti e due) sulle responsabilità ben maggiori che hanno la velocità, la droga, la stanchezza, gli psicofarmaci, la frustrazione, ecc.
È comunque ora di dire basta a questa Crociata che vede nell’alcol, e in particolare nel vino, il colpevole indiscusso di qualsiasi tragedia avvenga lungo le strade della Penisola. Le tragedie hanno solo due responsabili: o l’alcol (perseguibile) oppure i fenomeni naturali come la nebbia, il vento, il ghiaccio, la pioggia, la neve, sempre e comunque assassini, ma non perseguibili. Tutto il resto non conta.
Ho quindi pensato di scrivere questo libro: "I due volti dell’alcol e una scomoda intrusa…"
Esso vuole fare chiarezza (e sembra che ce ne sia veramente bisogno) sul significato di alcol e sulla sua doppia faccia: quella allegra, distensiva, emozionante del nettare di Bacco e quella maligna, idiota e becera che domina migliaia di intrugli preparati solo e soltanto per aiutare a mandar giù le nefande droghe sintetiche che comandano lo “sballo” da discoteca. Percentuali completamente ingannevoli e manovre attentamente costruite a tavolino vogliono fare di tutte le erbe un fascio, trascurando totalmente le cause maggiori delle tragedie. Il mondo del vino è il più debole e il più colpito. E pensare che esso rappresenta una delle maggiori ricchezze economiche e culturali d’Italia.
Il libro è parlato in prima persona dagli attori principali coinvolti in quest’assalto mediatico: il lievito che dà origine alla fermentazione alcolica, il rum, la coca, il papavero, l’etilometro, le droghe sintetiche, ecc. Essi spiegano ciò che hanno fatto e ciò che fanno; poi lasciano il lettore a riflettere attraverso racconti ironici, sarcastici, commoventi, dolci, duri, accusatori. Alla fine, tornano per fare il punto e per partecipare a una tavola rotonda con l’autore. Senza pietismi, ipocrisie, luoghi comuni, prediche, cercano di dare consigli e di fare alzare le palpebre, troppo spesso chiuse, dei lettori.
Sono stato spesso duro e non ho cercato di nascondermi dietro frasi fatte o luoghi comuni. Mi prendo, quindi, tutta la responsabilità delle accuse e delle asserzioni che ho scagliato sia attraverso dati scientifici sia attraverso l’ironia e il sarcasmo.
È comunque indubbio che tutto il libro sia permeato dalla presenza di un’entità immateriale, ma antica e invincibile: lo spirito del vino, quello vero, quello che può aprire gli animi e aiutare l’essere umano a raggiungere la partecipazione e la comprensione che ancora cerca inutilmente in questo misero granello di sabbia, immerso in un Universo forse troppo vasto per lui.
Anche se sono ormai deluso e pessimista, speriamo che il mio umile contributo possa servire a qualcuno o a qualcosa e che magari smuova qualche scimmietta che non vede, non sente e non parla.
Vincenzo Zappalà
Professore ordinario di Astrofisica,
grande appassionato ed amico del “vero” vino e dei suoi artefici.
Il libro sarà presentato sia a Sorgentedelvino Live (Agazzano, 6 marzo 2011), a Terre di Toscana (Lido di Camaiore, 13-14 marzo 2011) e a Vinitaly (10 aprile 2011).
Vendita internet (pagamento alla consegna) su www.arduinosacco.it.

27 febbraio 2011

Altro che degustazioni! Il vino deve ritornare in tavola

Angelo Peretti
Questione interessante quella che ha posto un paio di giorni fa Fabio Pracchia su Slow Wine, il sito enoico di Slow Food. Dice: "Sovente il mondo del vino è oggetto d'interesse dei media, ma è difficile che i temi che circolano nell'universo settoriale della critica enologica italiana facciano breccia nella quotidianità di chi il vino lo vive sporadicamente". E aggiunge: "A volte trovo frustrante che con l'enorme potenza della comunicazione contemporanea non si riesca a incuriosire la massa delle persone verso un universo così profondo e affascinante come quello della viticoltura". E poi: "Ancora vediamo persone che vagano come anime perse davanti uno scaffale di un supermercato, magari perché hanno paura di entrare in un'enoteca". E infine: "L'augurio è quello di riuscire a rompere le barriere tra chi parla di vino e chi lo intende comprare in modo diffondere la viticoltura di qualità nel modo più ampio possibile. Altrimenti qualcuno dovrà riportarci nell'universo comune".
Vero, verissimo. Sottoscrivo. Ma dove sta la causa?
Ora, la causa credo sia difficile individuarla, e forse sono dieci, cento concause. Ma di responsabilità ce n'è dovunque. Anche dentro Slow Food, perché no?
Cerco di spiegarmi, riprendendo quello che ho già scritto ieri su quest'InternetGourmet: abbiamo sradicato il modello culturale alimentare italiano, e ne paghiamo le conseguenze. Abbiamo assassinato quella cultura che vedeva il vino come alimento che sta in tavola con altri alimenti. Facendolo diventare, quand'è andata bene, status symbol, cosa d'élite. E quand'è andata male, un tabù, con lo spettro della patente a punti e della malattie cardiovascolari e di chi più ne ha più ne metta, purché non si faccia più un pasto accompagnato dal bicchiere di vino.
Invece il vino dovrebbe nascare per stare in tavola, insieme al cibo, al mangiare. Per la convivialità. Morta questa, è morto il vino.
Ne sono arciconvinto: c'è un'unica maniera per riavvicinare la gente al vino, ed è quella di riportare il vino alla sua destinazione naturale. E l'unica vera maniera di giudicare un vino è quella di capire quale piacevolezza sappia esprimere "insieme" al cibo.
Da anni ormai organizzo periodicamente delle degustazioni con piccoli gruppi. Le "mie" degustazioni. Ebbene: mai manca il cibo insieme al vino. Dico, cibo cucinato, mica il grissino. Si beve e si mangia. E sai come cambiano le opinioni provando il vino da solo e con la tavola? Oh, se cambiano! Oh, se saltano fuori gli altarini enologici, i doping, i lifting. Altroché.
Ecco, anche Slow Food ha delle responsabilità, in questo strisciante fenomeno dell'allontanamento del vino dalla sua collocazione ideale. Per esempio, e l'ho già contestato in un mio precedente intervento su InternetGourmet, avendo realizzato una guida vinicola che non ha avuto fino in fondo il coraggio di rompere il trito e ritrito ed assurdo concetto del "grande vino" che è di serie A rispetto al "vino quotidiano" che finisce per essere la squadretta provinciale. Già, Slow Wine ha dei meriti, senza dubbio, come l'aver voluto almeno provare ad andar di là del panorama dei soliti noti, ma a mio avviso ha una colpa: quella d'aver disegnato varie categoria di vini, suddividendo le bottiglie preferite fra i "vini Slow" (ed è scelta, lo confermo, che mi convince quella d'indicare bottiglie vicine alla "filosofia" del movimento), i "vini quotidiani" e i "grandi vini". E la distinzione fra vini "quotidiani" e vini "grandi" mi pare - mi ripeto - una contraddizione. Soprattutto perché sottintende che se ci sono vini "grandi" gli altri son per forza "piccoli". Ed è una distinzione che la gente comune non capisce, e non capendola se n'intimorisce, e finisce col pensare che il vino sia cosa da sapientoni.
E invece no. Invece personalmente ne ho le palle piene (si può dire? ormai l'ho detto) dei vini "da 100 centesimi", dei vini "da degustazione". Quelli che ti fanno venire il mal di testa per capirli e poi in tavola non ce li metteresti mai. Voglio il vino che stia col cibo. Il vino "deve" stare col cibo. E quello che ci sta meglio non è né grande, né piccolo: è semplicemente "vino".

26 febbraio 2011

L'assassinio del vino e della sua cultura

Angelo Peretti
La notizia è uscita sui giornali pochi giorni fa, ed è di quelle da meditare, per chi ha passione per il vino, ed anche, e soprattutto, per chi nel settore ci lavora. Però, se non sbaglio - sbaglio? - nel multiforme mondo dei blog enoici italiani non se n'è parlato, o quasi. Ordunque, il tema è questo: il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, ha trasmesso ai presidenti di Camera e Senato una relazione sugli interventi realizzati da ministero e Regioni in attuazione della legge quadro 125/2001 in "materia di alcol e problemi alcolcorrelati". Cosa ci sarebbe di tanto clamoroso in questa relazione? Ci sarebbe che la cultura italica del vino ne esce con le ossa rotte.
Sul sito del ministero c'è un comunicato che dice, come incipit: "I dati sui consumi alcolici e i modelli di consumo confermano il progressivo allontanamento del nostro Paese dal tradizionale modello di consumo mediterraneo". E già detta così la cosa è di quelle pesanti, visto che il vino è - era? - parte integrante del "modello di consumo" di casa nostra. Ma se si scende nel dettaglio, la faccenda è davvero seria. Perché è antitetico al modello alimentare nostrano - ma per motivi diversi - sia l'atteggiamento dei giovani che quello degli adulti. I giovani bevono sempre più alcol, ma mica perché si versano un bicchier di vino a tavola: no, cercano lo sballo con altri liquidi alcolici. E fra gli adulti cresce invece considerevolmente il numero degli astemi.
Prima cito due passaggi di approfondimento, e poi dico la mia.
Primo, sul sito del ministero si legge così: "È cresciuta nell’ultimo decennio la quota di coloro che consumano bevande alcoliche al di fuori dei pasti, con un incremento particolarmente significativo tra le donne. Il binge drinking, modalità di bere di origine nordeuropea che implica il consumo di numerose unità alcoliche in un breve arco di tempo, ha riguardato nel 2009 il 12,4% degli uomini e il 3,1% delle donne ed è ormai abitudine stabilmente diffusa, soprattutto nella popolazione maschile di 18-24 anni (21,6,1%) e di 25-44 anni (17,4%). Pratica il binge drinking anche una buona percentuale di donne fra i 18 e i 24 anni (7,9%) e fra le giovanissime di 11-15 anni esso appare più diffuso che fra i coetanei maschi".
Secondo, e stavolta prendo quanto ha scritto La Repubblica a proposito del documento ministeriale: "Nell'indagine è riportato un dato contraddittorio rispetto agli allarmi del ministero e riguarda il basso consumo pro-capite di alcol (8,02 litri contro l'11,6 della media Ue) e il fatto che l'Italia risulta essere, assieme al Portogallo, il Paese con il maggior numero di astemi totali: il 39% dei cittadini, secondo un'indagine europea condotta nel 2009, non consuma bevande alcoliche. Record singolare per un Paese che condivide con la Francia il primato mondiale per la produzione di vino e in cui 8,5 milioni di persone presentano 'almeno un comportamento a rischio' rispetto al consumo dell'alcol".
Ora, un commento, senza peli sulla lingua questo è il risultato della campagna di demonizzazione del vino attuate in questi anni in Italia. Complimenti!
Sì, non ho dubbi: a questo ha portato l'aver sistematicamente attaccato e vilipeso e violentato la cultura italiana del vino che accompagna il cibo. A tavola.
Le fasce giovanili sono state deviate verso lo ballo, come fuga da un atteggiamento alimentare dipinto come retrogrado, passatista. La popolazione adulta e responsabile è terrorizzata dall'incubo della patente a punti e dall'aggressione salutistico-mediatica, e non beve più neppure ai pasti.
Le colpe? Di tanti. Anche dentro al mondo del vino, sissignori. A partire da chi - produzione e critica - ha spinto violentemente verso un modello incentrato sullo status symbol, e dunque sul vino costoso, elitario, concentrato, e alla fin fine massificato. Un vino che con la tavola non ha niente a che fare. Anche questo ha contribuito al successo - successo? - di chi voleva fortemente il distacco dal modello alimentare delle nostre terre. Favorendo magari certi interessi forti: sbaglio a pensare che ci stanno guadagnando l'industria del superalcolico, del cibo usa e getta, della farmaceutica?
Sì, complimenti. Eccolo qui a cosa siamo arrivati: all'uccisione di una cutura millenaria. Per sostituirla con la non cultura degli ismi: consumismo, salutismo, edonismo, proibizionismo. Avanti così, nell'illusione di andar meglio. Illusi.

25 febbraio 2011

Olio extravergine di oliva Casaliva 2010 Monteacuto

Angelo Peretti
Quando penso a un contadino d'oggi, dalle mie parti - e intendo sul mio lago di Garda - penso all'Antonio Leali, da Monteacuto, frazioncina di quattro case nel comune di Puegnano, sulla costa bresciana (opposta alla mia, veronese) del "benacense laco", come scrivevano una volta. L'Antonio è un omone grande e grosso che ha due mani così, che quando ti stringe la tua, di mano, temi che te la frantumi, ed è uomo che ha passione per la sua terra, per le vigne e per gli ulivi.
Adesso mi pare che abbia finalmente fatto la cantina nuova, o che la stia costruendo (è un po' che non passo a trovarlo), ma fino a poco fa il vino lo faceva - e forse ancora seguita a farlo lì - in una cantinetta ricavata nel garage sotto casa, stipata di vasche che non ho mai capito come facesse a passarci in mezzo, a mo' di contorsionista.
Fa del buon rosso, di potenza, che imbottiglia col marchio Monteacuto, e con lo stesso brand fa anche un Chiaretto che è spesso tra i migliori della zona e dell'olio che ha sempre della personalità.
Quest'anno m'è piaciuto il suo monocultivar di casaliva, la varietà classica del Garda.
Vestito d'una delicata livrea verde brillante, l'olio dell'Antonio porge all'olfatto un piacevole quadro vegetale, impostato su memorie di oliva fresca, di erba di prato e di essenze officinali, pur su toni lievissimi. Al palato la freschezza vegetale si conferma, come pure trova riscontro la leggerezza d'assieme. La conduzione, essenzialmente dolce, com'è tradizione, poggia su un lievissimo substrato amaro. Sottiilissima la stimolazione piccante, sui toni del pepe.
Un olio delicato, in linea con un'annata difficile, ma che qui è stata comunque ben gestita.
Due lieti faccini :-) :-)

24 febbraio 2011

Valpolicella Superiore La Bandina 2001 Tenuta Sant’Antonio

Mario Plazio
Da tempo si dibatte su come è o dovrebbe essere il Valpolicella. Un vino che a seconda del momento storico ha cambiato pelle per assecondare le richieste del mercato o le tendenze più in auge. Io ho la mia idea e me la tengo. Vedo il Valpolicella come un vino flessibile, bevibile e godibile (pensiamo ad un buon Beaujolais). Sarebbe a mio avviso un perfetto complemento per la cucina di osteria (o di casa), quella fondata sui piatti di pasta e carne che difficilmente accompagni, giusto per restare in tema, con un Amarone.
La Bandina in questo senso si avvicina pericolosamente a quest’ultimo. È un vino muscolare, concentrato e denso. Va anche detto che, a differenza di etichette simili nel profilo, esibisce un modernismo non fine a sé stesso. Sa restare elegante e fresco, anche se ha una dinamica più sviluppata in ampiezza che in lunghezza.
Un Valpolicella quindi potente e di carattere, che riesce anche ad essere territoriale ed estremamente giovane a quasi dieci anni dalla vendemmia.
Due faccini :-) :-)

23 febbraio 2011

Cotto DiVino


Enrico Lucarini
“Affinità elettive” per dirla alla Goethe, che della Sicilia ne descrisse le meraviglie. E meraviglia è quella che provai qualche giorno fa in Trinacria, quando al dessert mi fu suggerito di assaggiare arance fresche e vino cotto. Dall’espressione che accompagnò il mio annuire l’oste capì a volo che la mia era una scelta basata più sulla fiducia che sulla consapevolezza. Accennò un sorriso, e garbatamente spiegò che era tradizione far bollire i mosti fin a concentrarli a men d’un terzo, e quindi speziarli.
Il primo assaggio partì timido e un po’ prevenuto, ché temo le speziature troppo spesso invadenti e maldosate. Beh, con sommo piacere mi ritrovai invece ad assaporare un piatto di incredibile equilibrio, arance e vino si sposavano senza che mai l’una prevalesse sull’altro… un piatto di notevole freschezza, frutto fresco e frutto concentrato.
E, sarà un’eresia, trovai affinità al gusto fra il vin cotto e l’amato aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio. Affinità elettive, nella terra di cui tempo fa quel visitatore saggio scrisse: “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn, Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn…”

22 febbraio 2011

Siano benedetti i ristoratori ignoranti che si vergognano d'avere i vini in tappo a vite

Angelo Peretti
Marlborough Sauvignon Blanc 2005 Cloudy Bay: per chi ama i bianchi di carattere e d'eleganza, questo qui è un gioiello. Amo il Sauvignon Blanc neozelandese di Cloudy Bay, e quest'annata, il 2005 (occhio, il 2005 del mondo alla rovescia, sei mesi di differenza nella vendemmia rispetto a noi), è, per me, strepitosa, ché sa offrirti, insieme, la salvia, l'ortica, il prato estivo, i fiori bianchi, la frutta a polpa bianca, la pesca nettarina croccante, il ribes bianco, e una freschezza avvicente, che ti fa salivare a lungo, e una compattezza d'assieme che ti lascia a bocc'aperta e una lunghezza di quelle che appagano. In tappo a vite - in Stelvin - sta varcando gli anni con nonchalance, mantenendo la giovinezza intatta. Splendido.
Devo il piacere d'averne potute bere tre bottiglie, e di tenerne altre tre in cantina, al pregiudizio d'un ristoratore. La vicenda la devo proprio raccontare.
Dunque, mi portano per una cena di lavoro in un ristorante di cui prima non avevo mai avuta contezza. Prima mi fanno visitare la cantina del locale, vetusta, bella, piena di buoni vini: l'invidio, un posto così, per tener le bottiglie. Vedo su una scansia una cassa intiera del Sauvignon di Cloudy Bay, ed ho dunque già in mente cosa ordinare al tavolo.
Mi siedo, prendo la carta dei vini, la scorro per trovare il "mio" amatissimo Sauvignon Blanc della terra dei kiwi (quelle specie di uccelli preistorici, mica i frutti) e per verificare di che annata è, e m'avvedo che invece non c'è. Appena arriva il padrone di casa gli dico che avevo adocchiato la scatola in cantina e che però in lista non trovo il Cloudy Bay, e lui con aria avvilita mi dice che anche lui amava quel vino e che lo prendeva spesso e se lo beveva anche volentieri, ma adesso "sa - mi dice - gli hanno messo il tappo a vite, a un vino così buono", e insomma gliel'hanno appioppato da qualche anno e non s'è mai perdonato l'incauto acquisto e si vergogna a metterlo in lista.
Mangio la foglia e m'adeguo. Esclamo anch'io: "Oh, che peccato! Ma non avevano altro da fare che rovinare un vino così?" Poi, mentendo spudoratamente, spiego ai miei commensali che, insomma, quello era davvero un grande bianco, ma adesso, col tappo a vite... E insomma, per dimostrare ai miei compagni di tavola che cosa abbiano mai combinato questi neozelandesi ignoranti che osano abbandonare il sughero per lo Stelvin, domando al ristoratore se gli fa lo stesso di metterne comunque in ghiaccio una bottiglia, così, giusto per studio.
Di lì a poco la bottiglia arriva: è il 2005, annata fantastica. La apro, provo il vino e devo metterci tanta teatralità per impostare la faccia schifata, ché invece il bianco è spettacolare. Ma oramai ho deciso di giocarmela tutta, ed ho pronto il mio piano. Andato il ristoratore, mi godo la boccia e così fanno gli altri che cenano con me, e alla fine ribadisco al patron che, insomma, era davvero meglio prima col sughero, e che vorrei dar testimonianza del disastro anche ad altri miei amici, e insomma domando se mi vende anche le altre cinque bottiglie, ché me le porterei via. Mi fa un buon prezzo, e l'affare è fatto. Godo, ma non posso mostrarlo, al momento.
Spero mi capitino ancora occasioni del genere: siano benedetti i ristoratori ignoranti.

21 febbraio 2011

Soave Classico 2009 Prà

Mario Plazio
Impeccabile come sempre il Soave “base” di Graziano Prà. Oltre alle perfette note stilistiche che gli riconosciamo, questo 2009 unisce una notevole polpa ad una raffinata precisione nel definire l’annata e il territorio.
È un vero peccato aprire troppo presto questa bottiglia. Sicuramente nella maggior parte dei casi andrà bevuta prima che possa rivelare il potenziale di cui è dotata.
Agrumi, fieno tagliato, minerale e mandorla ne compongono l’aspetto olfattivo. Bilanciata ed appagante la beva.
Se ne avete qualche bottiglia mettetela da parte. Se ne trovate in giro prendetele e nascondetele per qualche anno. Non ve ne pentirete.
Due faccini :-) :-)

20 febbraio 2011

Renski Rizling Cerovec 2009 Vino Kupljen

Angelo Peretti
Intanto, ha il tappo a vite, e già la cosa mi piace, ma giudicare un bianco per il tappo, lo ammetto, è proprio da fessacchiotti, e questa figura non ci tengo a farla. Il fatto è, però, che questo Riesling renano fatto in Slovenia è proprio un buon bianco, di quelli che bevi volentieri come aperitivo, oppure con del pesce o dei crostacei.
Fruttatissimo (pesca bianca, pompelmo, ribes), freschissimo e quasi salato, scattante, a tratti perfino floreale. Certo, ha qualche po' di residuo zuccherino, ma quella sua dolcezza è bene integrata col frutto succoso e con l'acidità nervosa.
Ne bevi un sorso e ti vien voglia di finire il bicchiere e subito di versartene un altro, e scusate se è poco.
Per chi è in cerca di un Riesling che un po' ricordi la Germania senza però diventarne fotocopia.
Due lieti faccini :-) :-)

19 febbraio 2011

In (piccolissima) lode del Serprino

Angelo Peretti
Avanti, signori: alzi la mano chi ha mai bevuto un Serprino. Urca, com'è che vedo così poche mani alzate? Oh, già, me li sento: "Ser che?". Serprino, accidenti! Ché se lo sa il professor Borin che non conoscete il Serprino, son cavoli amari.
Ora, per chi non se n'intendesse così profondamente delle auctoctonie (esiste il termine autoctonie?) vitivinicole italiche, è bene sapere che il Serprino è un vino bianco (frizzante) che fanno, in pochi pochi pochi, sui Colli Euganei, provincia di Padova, suolo vulcanico, con l'uva serprina. E il professor Borin, al secolo Gianni, enologo in Monticelli di Monselice, dice che la serprina è l'uva "progenitrice del prosecco", affermazione che, stando all'attendibilità della fonte, tendo a ritenere, appunto, attendibile, e che però andrebbe quanto meno aggiornata ora che, essendo diventato il termine Prosecco indicatore non più d'un vino varietale, bensì d'un vino che ha come riferimento il nome geografico del paesello friulano omonimo, l'uva del prosecco è stata ridenominata glera (e francamente mi pare un po' un guazzabuglio, e mi piace usare 'sto vocabolo - guazzabuglio - così poco alla moda: in genere, oggi, si dice, al suo posto, "casino").
Ora, sui Colli Euganei c'è una doc - una delle duecento e passa d'Italia - che porta il nome, appunto, di Colli Euganei. E siccome in Italia siamo bravi a far tutto tranne che a rispettare il dogma "una denominazione, un vino", anche la doc dei Colli Euganei ha varie sottodenominazioni, Una di queste è il Colli Euganei Serprino, e mi pare che a questo punto il quadro comincia a farsi meno nebuloso.
Qui giova (giova?) autocitarmi, e dunque, da un libro-manuale che ho scritto qualche tempo fa per la Giunti, dico così: "Il Colli Euganei Serprino è la coniugazione padovana del Prosecco. L’inserimento di questa tipologia nella doc euganea, più che una valenza economica, ha avuto un significato culturale, valorizzando un vitigno storico, coltivato per tradizione nella zona. Il Serprino viene ottenuto dalla vinificazione dell’uva di prosecco, che nell’area euganea è conosciuta storicamente proprio con questo strano nome: serprina. Dall’uva serprina si ricava un mosto relativamente zuccherino, da cui si ottiene il vino base, che viene poi fatto rifermentare in autoclave (le bottiglie di Serprino “tranquillo” sono pochissime) per trarne un bianco frizzante, mediamente alcolico, gradevolissimo. Appena lo versate, noterete una briosa spuma bianca. Il colore è paglierino, con eleganti riflessi verdolini. Il profumo è fruttato, il sapore fresco d’acidità ed equilibrato. Naso e bocca sono spesso solleticati da una lieve nota di mandorla verde".
Bene: adesso penso ne sappiate un pochetto di più sulla serprina e sul Serprino. E tutta 'sta storia per dire che ho bevuto - tracannata sarebbe più corretto - con scanzonato piacere (e con testa che alla fine girava un po') una bottiglia - annata 2009 - del Colli Euganei Serprino (frizzante) di casa Borin, e ci ho trovato una mela golden croccante e piacevole, e una freschezza acidula che stava a meraviglia per l'aperitivo e poi per la pasta, e una morbidezza per nulla ruffiana, e una bolla poco accennata (una schiuma) che vien da usare il termine francese petillant, che ti dà gioia. Mica bianco da degustazione, nossignori. Bianco da bere senza farsi tante remore, e senza pensieri. Vino da divertircisi e basta. Bianco da "ombra", come definiscono in certe parti del Veneto il bicchiere che accompagna il disimpegnatissimo conversare nei bar. Vino plebeo, vino da pane e mortadella. Viva la plebe. E la mortadella. E la semplicità.

18 febbraio 2011

Magari un che di formaggio

Angelo Peretti
Mi capita talvolta che mi si chieda di scrivere la prefazione d'un libro, d'un volume, e sono contento d'accettare, perché sono quei testi dove puoi metterci quel che vuoi, e quindi esprimerti con libertà, ché tanto sai benissimo che, alla fine, ben pochi li leggeranno: molti, tanti, le saltano a pie' pari le prefazioni. Fatica sprecata scriverle, allora, le prefazioni? Macché, un piacere. Ed un piacere è stato scriverla per una raccolta di ricetta curata da Paola Calciolari, produttrice di splendide mostarde e confetture nel Mantovano. Solo che il libro non parla, appunto, di mostarde e confetture, ma di formaggio, di Grana Padano: è questo il soggetto delle ricette. Me lo son letto in bozza, ancora senza titolo, e poi mi sono lasciato andare nella scrittura. Ed ho poi visto che il titolo del volume, uscita da Corraini, è stato preso pari pari proprio dalla mia prefazione: "Magari un che di formaggio". Vedi che servono, allora, le prefazioni?
Ne riporto, qui di seguito, la parte iniziale della mia prefazione, e il resto, se v'interessa, vi invito a leggerlo sul libro.
Ha evocato terre lontane, jungle, mari, corsari, avventurieri. Senza muoversi di casa. Era convinto, Emilio Salgari, che “scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”. Almeno così leggo in un aforisma che gli è attributo, stampato su un segnalibro giallo: non ho resistito, vedendolo in un libreria romana, alla tentazione d’acquistarlo. Incoscientemente, poco m’interessa verificarne la fonte e l’attribuzione. Ci riconosco, se non l’autore, almeno il suo pensiero. O meglio, in quel pensiero mi riconosco. Tanto mi basta.
Ai giorni nostri, cucinare è così. S’è avverato il sogno di generazioni di cuochi e massaie: avere a portata di mano qualunque ingrediente, sempre. Se voglio sperimentare gusti, sapori, afrori nuovi, non ho d’affrontare lunghi itinerari o eccessivi esborsi. Non c’è bisogno della seccatura del bagaglio per viaggiare in cerca del gusto, o almeno del suo succedaneo. Basta varcare la soglia d’un supermercato. Tutt’al più, d’una botteguccia etnica.
Di fatto, è disponibile a molti quant’era privilegio di pochi. A Mantova è mitizzata la figura di Bartolomeo Stefani, cuoco bolognese - così s’autodefiniva - insediatosi alla guida delle dispense dei Gonzaga. Nel 1662 diede alle stampe un libro destinato a cambiare le sorti della gastronomia italiana: "L'arte di ben cucinare" (il titolo in verità è ben più lungo, ma solitamente così lo si sintetizza). In certi "avvertimenti alli signori lettori", osservò che qualcuno avrebbe forse avuto di che stupirsi che nelle ricette consigliasse, ad esempio, asparagi e piselli in gennaio e febbraio, "che à prima vista paiono contro stagione". Ma "chi hà valorosi destrieri, e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose". Se proprio la bottega non è a un tiro di schioppo, oggi son sufficienti i pochi cavalli fiscali d’una utilitaria per recarsi al primo centro commerciale.
È maturata una sorta di democrazia alimentare, almeno per quei popoli per i quali alimentarsi non rappresenta un problema o una chimera addirittura. Ma c’è un rischio, in questo, ed è l’estraneazione. Il perdere le radici, la storia, l’appartenenza. Il mondo sarà anche diventato il villaggio globale di Marshall McLuhan, ma della familiarità delle mura di casa c’è ancora necessità. Nel mondo globalizzato finisci per trovarti solo, anonimo.
Serve almeno un collante. Intendo che puoi mettere assieme gli ingredienti più inconsueti, più bizzarri, ma se l’esperienza non è occasionale, alla fine ti ci devi in qualche modo riconoscere in quel che hai nel piatto. Per esempio con un ingrediente. Magari un che di formaggio, se vieni da terre che abbiano storia casearia. Ecco, il formaggio è un collante culturale. Riesce a riportare - almeno per un attimo - il globale nell’alveo del locale. Rinnova e ravviva l’appartenenza, prima ancora che il gusto.

17 febbraio 2011

Margaux Premier Grand Cru Classé 1993 Château Margaux

Mario Plazio
Avevo avuto modo di bere recentemente una bottiglia di Margaux ’93 che mi aveva lasciato perplesso. Intendiamoci, non era un vino cattivo. Mi pareva però spento, erbaceo e prematuramente invecchiato, senza però lo charme dei vecchi Bordeaux.
Quale migliore occasione della cena di capodanno per verificare lo stato di salute della (unica) bottiglia custodita nella mia cantina? Vi chiederete (miei 2 o 3 lettori) come l'ho trovata. Ebbene, confesso che il risultato è stato ben superiore alle mie attese. Anzi il vino era ancora estremamente giovane, quasi vinoso. In pratica ho commesso un infanticidio.
Al naso frutta scura, ferro e mineralità. Al palato ancora segni di legno e un tannino ben presente, ma non immaturo. Alla faccia della cattiva annata. E che acidità, freschissimo, elegante, anche se non possiede la profondità dei millesimi più celebrati.
E soprattutto che beva, come scorre con piacere.
Vuoi vedere che ancora una volta le annate più sfigate sono quelle che più si fanno amare?
Una domanda finale: ma come era stata tenuta quella bottiglia bevuta 3 mesi fa?
Tre faccini :-) :-) :-)

16 febbraio 2011

Olio extravergine di oliva 2010 Giovanni Poli

Angelo Peretti
Se non siete mai stati dalle parti del laghetto di Santa Massenza, fateci un pensierino, quando siete in Trentino e magari avete in mente di stare un po' a Riva del Garda e dintorni, sul ben più ampio, mediterraneo Benaco: è a un tiro di schioppo.
Dirò che quello di Santa Massenza (è nella foto) è un laghetto piccino picciò vicino a un paesino piccino picciò, che farà si e no centocinquanta abitanti e aggiungerò che c'è una centrale idroelettrica (l'hanno costruita dopo la guerra) e intorno ci sono le vigne di nosiola per farci il Vino Santo, delizioso, e le grappe poi dalle vinacce, e ci sono anche gli olivi per farci olio. Sissignori, olio extravergine d'oliva, il più a nord d'Italia presumo, e ne son quasi certo.
C'è anche, a Santa Massenza - sulla via per Vezzano, capoluogo del comune -, la distilleria di Giovanni Poli, dove si fa grappa e vino e olio, e sono tutt'e tre ottime ragioni per farci una salto, a casa Poli.
Ora, sono qui a parlare dell'olio. Olio trentino di latitudine alta, appunto.
Il colore è tenute. Un pastello. Giallo leggero che sfuma nel verdino. E la delicatezza è poi quella che si ritrova nell'olio. Ché al naso c'è leggerezza nel fruttato d'oliva e di mandorla. Eppoi la levità d’assieme prosegue anche al palato, dove peraltro la pasta trova perfettissimo sostegno in una piacevolissima, ben modulata e persistente, ancorché tenue, piccantezza, che offre slancio ad una pacata presenza erbacea, prima del finale modulato sul tono della nocciola fresca.
Per chi ama gli extravergini dall'anima soft.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

15 febbraio 2011

Alsace Auxerrois "K" 2002 André Kientzler

Mario Plazio
Un vitigno piuttosto sconosciuto - l’auxerrois - nell’interpretazione di uno dei più grandi produttori di Riesling in Alsazia.
Questo "K" proviene da un vigneto all’interno di un grand cru, ma non lo può rivendicare. È oggi all’apice della sua fase evolutiva. Molto originali i sentori all’olfatto, su tutto liquirizia, anice, terra, cannella, mela cotogna e frutta sciroppata.
È piacevolissimo da bere, anche in virtù di una ruffiana vena di dolce che arrotonda tutti gli spigoli e lo avvicina ad una vendemmia tardiva. Dopo qualche tempo si sentono anche la lavanda, l’affumicato ed anche un po’ di botrite.
Peccato manchi un pizzico di freschezza nel finale.
Due faccini :-) :-)

14 febbraio 2011

Per chi sogna di comprare un vigneto in Francia

Angelo Peretti
Ricevo periodicamente L'Echo du Moulin, la newsletter (cartacea) della maison Cattier, produttrice di Champagne. Ebbene, sul numero invernale c'è, in quarta pagina, un articolino che voglio riportare qui di seguito, traducendolo. S'intitola "Fate il vostro prezzo" e dice così.
"Avete sempre sognato di avere un vigneto in Francia e di farci il vostro nettare? Per lo stesso prezzo, ossia una media di 900 mila euro, potete comprare o un ettaro nello Champagne, oppure circa 70 ettari nella Languedoc-Roussillon. In media, un ettaro di vigna nello Champagne equivale a 8 volte il prezzo di un ettaro di un'altra denominazione d'origine francese. Il prezzo più alto registrato nello Champagne in una recente transazione è stato di 1 milione e 350 mila euro ad ettaro. In confronto, dovreste pagare una media di 87 mila euro in Borgogna e 64 mila nella regione di Bordeaux. Dunque, ancora interessati a comprare?"
Accidenti, bella domanda. Però, a far quattro conti, la tentazione viene. Quella di comprare qualche ettaro di vigna nella bellissima e calda e mediterranea ed a tratti selvaggia Languedoc-Roussillon: a 12-13 mila euro ad ettaro se può fa', o no? Dai che si va a fare vini rossi nel sud della Francia.

13 febbraio 2011

Primitivo di Gioia del Colle Polvanera 16 2006 Cantine Polvanera

Mauro Pasquali
Il Primitivo per anni è stato usato come “vino da taglio” per irrobustire nel colore e nella gradazione alcuni poveri vini del nord, relegandolo a prodotto di “serie B” buono, tutt’al più, per un consumo locale. Poi sono arrivati i californiani, con il loro zinfandel che ha conosciuto grande fortuna e che, dopo anni, si è scoperto non essere altri che il nostro primitivo. Oggi sono due le zone pugliesi più famose per la produzione di Primitivo: Manduria e Gioia del Colle. I vini di quest’ultima area sono caratterizzati da una maggiore finezza ed eleganza rispetto a quelli prodotti a Manduria: l’altitudine e, quindi, le escursioni termiche contribuiscono ad arricchire aromaticamente questi vini e a renderli meno aggressivi.
Difficile, di primo acchito, capire che questo Polvanera 16 è un Primitivo. Tra l’altro il nome deriva dalla rispettabile gradazione alcolica che lo contraddistingue: un vino che ben s’accompagna ad arrosti e cacciagione.
Al naso ti colpisce con un’esplosione di profumi di frutta sotto spirito, confettura di piccoli frutti neri e note di grafite. In bocca entra dolce e ti avvolge morbido e caldo con eleganza. Il finale è lunghissimo, quasi interminabile.
Un Primitivo davvero sui generis, diverso da quelli cui siamo abituati.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

12 febbraio 2011

Anteprima Amarone: e se invece...

Angelo Peretti
Quale sia la mia opinione circa la formula dell'anteprima veronese dell'Amarone l'ho detto, per il terzo anno di fila, su quest'InternetGourmet, e chi proprio non volesse scorrere le pagine per cercare il post qui sotto, può sempre cliccare qui.
Detto questo, mi pongo (e pongo ad altri, se qualcuno vorrà rispondere) una domanda. Questa: ma l'anteprima di un'unica annata dell'Amarone è davvero la soluzione più utile? oppure c'è una soluzione più utile di questa?
Quando dico utile, intendo: utile alla stampa di settore per farsi un'idea, utile ai buyer e agli operatori per prendere decisioni d'acquisto, utile ai consumatori finali per imparare meglio cosa sia l'Amarone e decidere di berlo, ed utile anche ai produttori per fare vetrina.
Nel primo caso, quello della stampa specializzata, direi di sì, può essere molto utile, ovviamente a condizione che si effettuino gli aggiustamenti (e non sono cosa da poco) che ho suggerito qualche giorno fa, ripeto, per il terzo anno di fila. Aggiungo una condizione: che si tratti di stampa effettivamente specializzata, e dunque avvezza anche agli assaggi critici da vasca, en primeur, che è pratica non del tutto scontata (e del resto non richiesta da molte testate anche di settore).
Nel secondo caso, per buyer e operatori, direi proprio di no, che non è utile, perché per i vini italiani non c'è l'abitudine, e neppure la necessità, di fare acquisti en primeur, ed essendo la più parte dei vini presentati in degustazione all'anteprima dell'Amarone non ancora, appunto, pronti da bere e in molti casi nemmeno pronti da mettere in commercio, be', ai buyer e agli operatori serve poco assaggiarli.
Anche nel terzo caso, ossia per quel che riguarda i consumatori, ho pure la sensazione che non sia del tutto utile (al di là del dato, diciamo così, mediatico: la gratificazione di partecipare ad un evento nel nome dell'Amarone), e le motivazioni sono quelle appena dette: serve a poco assaggiare vini che non sono in commercio o che comunque non sono ancora pronti da bere.
Nel quarto caso ho dei dubbi, nel senso che l'anteprima può essere un'ottima vetrina, soprattutto per i nuovi arrivati e i più piccoli, ma l'investimento, alle luce delle obiezioni di cui sopra, può non valere del tutto la spesa. In ogni caso, più sì che no, comunque.
E allora?
E allora un'ipotesi, e anche qui aspetto che mi si dia un'eventuale opinione (anche non per forza replicando quest'articolo qui su InternetGourmet), potrebbe essere quella di rivedere completamente la formula e presentare non già i vini di un'unica annata (nell'ultimo caso era il 2007), bensì quelli che vanno in commercio nell'anno di riferimento, e dunque se la formula fosse stata questa ci sarebbe stato chi in questo 2011 avrebbe presentato il 2007, chi il 2006, chi il 2005 e chi addirittura un'annata precedente. E in questo caso magari calerebbe l'utilità per la critica più specializzata (che è interessata ad assaggiare anche le prove da vasca), ma potrebbe salire l'interesse della stampa più generalista, dei buyer, degli operatori, dei consumatori e, dunque, dei produttori.
Ma forse mi sbaglio. Anzi, probabilmente mi sbaglio.

11 febbraio 2011

Colli Orientali del Friuli Refosco 1993 Le Due Terre

Massimo Zanichelli
Prima dell’affermazione del Sacrissassi Rosso, un Refosco “istintuale” affinato ancora in botte grande che rafforza i convincimenti di gagliardia e longevità intorno a questo ostico, difficile, fascinoso vitigno friulano, qui interpretato da par suo da Flavio Basilicata.
Acidità e tannino ne garantiscono la tenuta nel tempo, conferendogli contemporaneamente contrasto e sapore.
Ancora nervoso e pungente a distanza di tempo, ma con un bonus di verve sapida capace di fare la differenza.
Due faccini pieni :-) :-)

Mai visto prima: un blog del vino che fa pubblicità sui blog del vino

Angelo Peretti
Ohibò, questa sì che è una novità. Non s'era mai visto prima, credo, un blog che si promuove sui blog e per di più ad opera di un blogger che spende quattrini per non guadagnarne.
L'idea potrà sembrare bizzarra e magari anche azzardata, ma sapendo che il blogger in questione si chiama Franco Ziliani, ci può stare tutto. Gli è che Franco ha da poco aderito, dopo lunga meditazione, a VinoClic, lo stesso network pubblicitario cui aderisce quest'InternetGourmet, e da poco ha anche fondato, accanto all'ormai storico Vino al Vino, un nuovo blog che si chiama Le Mille Bolle Blog dove parla di vini con le bollicine (meglio se metodo classico), e che per lanciare il nuovo blog ha acquistato spazi pubblicitari su altri blog tramite VinoClic (e tra l'altro VinoClic è un'idea d'un altro blogger, ossia Filippo Ronco).
Ora, come sia nata quest'anomala faccenda, lo spiega lo stesso Ziliani su Le Mille Bolle Blog: "Per decisione congiunta mia e di New Target Web, l’agenzia di comunicazione cross-mediale di Bergamo (città dove vivo) con la quale abbiamo pensato di dar vita a questo nuovo blog e che non è solo un partner tecnico, ma l’interlocutore con il quale vengono prese congiuntamente tutte le scelte (restando mia la responsabilità dell’impostazione redazionale), abbiamo preso la determinazione di varare una vera e propria campagna di comunicazione on line per farci conoscere meglio al pubblico dei frequentatori della web wine blogosfera, appassionati di vino attenti anche all’universo delle migliori bollicine. Un’operazione ambiziosa per la quale abbiamo deciso di ricorrere all’esperienza e all’assodata capacità di ottenere buoni risultati di VinoClic, l’articolato network creato da Filippo Ronco, al quale sono associati qualcosa come 71 siti e blog del wine & food italiano".
Insomma, una mattina apro il mio InternetGourmet e ci vedo negli spazi pubblicitari (li carica direttamente VinoClic) la faccia di Ziliani e il banner delle Mille Bolle Blog e mi dico, caspita (in realtà l'esclamazione era un'altra), 'sto Franco ne ha inventata un'altra delle sue.
Mi restava però un dubbio, che non è banale. Vero che le campagne di VinoClic non sono astronomiche in quanto a costi, ma dalle Mille Bolle Blog il Franco non ci guadagna mica niente. E allora i quattrini da dove li ha tirati fuori? Domanda che ho girato direttamente all'interessato, che m'ha risposto, a mo' quasi del tenente Colombo di televisiva memoria (che nel momento dell'intuizione geniale tirava in ballo sempre la moglie, ricordate?): "La domanda che ti poni tu, circa la campagna di advertising, se la pone anche mia moglie, che é molto perplessa sul fatto che io investa tempo e questa volta anche danaro per lanciare un blog che, al momento, non rende una lira."
Siura Ziliani, la capisca, epperò credo che lo sapesse chi ha sposato quando ha detto quel sì e comunque, se la può in minima parte confortare, l'iniziativa di suo marito l'approvo e sottoscrivo. E perfino quest'idea della pubblicità dei blog sui blog mi tenta (ma che Filippo Ronco aspetti a mandarmi una proposta commerciale).

10 febbraio 2011

Kontra: il bianco sloveno di Stojan, contro tutte le regole

Angelo Peretti
Non sono mica sicuro di aver capito proprio bene bene, perché lui, Stojan Ščurek, l'italiano lo parla un po' così e l'inglese anche meno, e il sito aziendale non mi è di grand'aiuto, visto che le schede dei vini sono in sloveno, che non è la lingua più facile da comprendere che ci sia, ammettiamolo, o almeno non lo è per me. Ma insomma dovrebbe suppergiù funzionare così: le uve, metà ribolla gialla e metà chardonnay, vengono - come dire - diraspate a mano, e gli acini vengono messi in botte piccola, e lì si fa la fermentazione, e poi c'è che la macerazione dura un bel po' di mesi, e non si fanno travasi, finché arriva il momento di passare il vino nella bottiglia, in riduzione, senz'ossigeno, e non si aggiunge solforosa. Il vino l'ha chiamato Kontra, perché, m'ha spiegato un po' in italiano e un po' in inglese, e questo l'ho capito - e del resto era facile - è contro le regole della buona pratica enologica. Arcaico. Oppure "naturale", per chi ama questa definizione. Fate voi.
Ora, racconto queste cose perché il Kontra di Stojan Ščurek l'ho tastato di recente durante una serata dalla jamesbondiana titolazione di "dalla Slovenia con Amore" cui m'ha fatto l'onore d'invitarmi Andreja Lajh, scrittrice slovena di cose del vino e del cibo (a proposito, la foto di Stojan è presa dalla sua pagina Facebook: mi dice che l'ha scattata Bruno Gaberšek). E, per carità, di cose amorevoli ce n'erano parecchie in quella serata al Westin Palace di Milano, a cominciare da una serie di piatti coi fiocchi, opera d'una squadra di strepitosi cuochi sloveni. Ma tra le cose che m'hanno impressionato di più c'è stato, appunto, il Kontra. Che è bianco difficile assai, e lo devi prendere con le molle, ché è per certi versi ben refrattario a farsi capire, e s'imbroncia come un monello che fa l'offeso. Epperò poi lascia il segno, e diventa - almeno per me - irresistibile.
Se vi capitasse d'incrociarne una boccia del Kontra, consiglio di farlo decantare qualche po' in una caraffa, cosicché abbia tempo d'aprirsi e pulirsi, ché al naso è riottoso assai, e quando dico riottoso intendo che il frutto fa una certa fatica a farsi strada in mezzo a quegli odori, appunto, di riduzione, e dunque c'è bisogno di dare aria. In bocca, invece, è da subito, immediatamente, fruttatissimo e fresco assai. Frutti gialli, maturi e polposi e succosi, e acidità salina, e tensione da vendere. Vino di personalità notevole. La bottiglia tastata era del 2009. Non ho saputo resistere e ho atteso fine serata per vedere se Stojan n'avanzasse un po', di quel suo Kontra, e siccome n'aveva effettivamente avanzato, l'ho convinto a vendermene una cassa da sei (17 euro a bottiglia).
Detto questo, aggiungo che del 2009 ho anche bevuto, sempre da casa Ščurek, una piacevolissima Ribolla, questa qui fatta secondo convenzione enologica, e l'ho trovata un piacevole bianco da aperitivo o da pesce, scattante e fruttata, e anche questa mi sento di consigliarla (viene sui 7 euro) a chi si trovasse a passare dalle parti di Dobrovo, dove stanno gli Ščurek, Stojan e i suoi cinque figli, tutti maschi, tutti impegnati in cantina.

9 febbraio 2011

Fleurie Domaine de La Madone 2003 Jean-Marc Déspres

Mario Plazio
Un produttore eccellente che possiede alcuni dei migliori vigneti nelle colline più alte del cru Fleurie, uno dei più intriganti assieme al Morgon, al Brouilly e al Moulin à Vent.
Questo 2003 conferma l’ottima reputazione del millesimo 2003 nel Beaujolais, mentre altrove è piuttosto da dimenticare.
Mi sono trovato di fronte ad una bottiglia splendida per la perfetta fusione tra le note territoriali/eleganti, e quelle più tipiche dell’annata, caratterizzata da un frutto maturo.
L’insieme è coerente e sfoggia una beva esemplare.
Ecco, a me piace questa fragranza del frutto, unita ad una complessità mai banale che diventa mineralità e florealità nel corso degli anni. In questi casi non siamo lontani da un grande pinot nero di Borgogna.
Tre faccini :-) :-) :-)

8 febbraio 2011

L'anima dei luoghi, l'anima del vino

Angelo Peretti
Il libro m'è tornato in mente leggendo un commento di Silvana Biasutti ad un mio scritto che Franco Ziliani ha avuto la compiacenza di pubblicare sul suo Vino al Vino: vi parlavo dei cosiddetti "vini naturali".
Dice Silvana (ed è molto bello quello che dice): "Stamattina mi trovavo seduta quietamente con due ‘giovani’ produttori di Montalcino a parlare dello stesso argomento (territorio, terroir, genius loci), e mi sono sorpresa a dire (voce dal sen, davvero, fuggita) 'ci sono vini con l’anima e altri invece no'. I vini con l’anima ti parlano della terra in cui crescono e della mano dell’uomo che li crea. Dell’uomo, della sua storia e dei suoi pensieri".
Ecco, è allora che m'è tornato in mente il libro. Si chiama "L'anima dei luoghi". Raccoglie un intervento di James Hillmann e un dialogo-intervista di Carlo Truppi con questo filosofo e psicanalista contemporaneo. Stampato da Rizzoli.
Ne scrissi nel 2004, e siccome ritengo che tra i miei lettori d'oggi moltissimi siano differenti da quelli d'allora, e che magari anche quelli d'allora non ricordino un mio articolino di sei anni fa, mi permetto di riproporne, pari pari, le parole.
Il testo, quello di Hillman, non c'entra niente col vino. Anzi. Muove le mosse da temi d'urbanistica, d'architettura. In realtà interpreta il rapporto fra uomini e terre. Illustra in maniera solare il "genius loci", la genialità dei luoghi e degli uomini che con essi sanno dialogare.
Dice Hillmann: "I luoghi hanno ricordi". Ed è una folgorazione. Aggiunge: "Ripensiamo a ciò che la psicologia ci ripete da tanti anni: la memoria è all'interno della testa. Il mondo dei ricordi sarebbe interamente nelle nostre teste. È un'idea incredibilmente strampalata che ci impedisce di accorgerci che la memoria è inscritta nel mondo".
Eccola qui la chiave di volta: le cose ricordano. L'ho sentito dire qualche anno fa a Luigi (Gino) Veronelli: la terra ricorda perfino il sangue di chi ci ha combattuto, e il vino che si ricava da quelle vigne non può che trasmettere, a suo modo, quei ricordi.
Il concetto vero di terroir muove da qui: non è la tecnica a fare il vero vino, ma è la memoria inscritta nelle cose. L'uomo quella memoria la deve ascoltare, leggere, interpretare, trasfondere nel proprio lavoro. Dialogando con la terra, cercandone ispirazione attraverso la fantasia, l'immaginazione, il genio. Scrive ancora il filosofo: "L'intima qualità del luogo è dovuta sia alla percezione del clima e della geografia, sia all'immaginazione: per questo è necessario stare a lungo in un luogo perché l'immaginazione possa rispondere". La tecnologia fine a se stessa potrà dare risultati appunto tecnicamente perfetti, ma muti, senz'anima. Il problema è un altro. È interpretare il territorio. "La questione - scrive Hillman - è cosa vuole il luogo ora. Come lo interpretiamo. Può questa interiorità di un luogo essere la legge del luogo? La rappresentano di più gli abitanti, i daimones, lo spirito del luogo. Può essere il silenzio la legge del luogo, piuttosto che la voce. La voce può essere il silenzio". Quello stesso silenzio che segna le ore del paziente operare del vignaiolo sulla "sua" terra. Per distillarne l'anima in una bottiglia.

7 febbraio 2011

Lo dico per la terza volta: ritengo sia meglio cambiare la maniera di assaggiare l'Amarone in anteprima

Angelo Peretti
Lo so, sono testardo. Incorreggibile. Ma se questo aiutasse a correggere i difettucci altrui, oltre che i miei, la testardaggine avrebbe una ragion d'essere. Dunque, passata anche l'edizione 2011 dell'anteprima dell'Amarone (si tastavano nei giorni scorsi a Verona i vini del 2007, e per quest'InternetGourmet mi sono affidati alle opinioni espresse dall'ottimo Mario Plazio), eccomi a ripetere ancora una volta quel che ho già scritto una prima volta dopo l'anteprima amaronista del 2009 (era di scena in quel caso l'Amarone del 2005) e anche, con un repetita inascoltato, l'anno passato, dopo l'edizione 2010 che metteva in assaggio i vini del 2006. E quel che dicevo e che ho ripetuto e che nuovamente ripeto è: sarebbe meglio cambiare il metodo di degustazione.
Oso dire di più: sarebbe meglio focalizzare l'attenzione sulla degustazione e sui degustatori. E dunque, in primis, evitare di occupare le ore buone per l'assaggio, che sono - come noto - quelle del mattino, con un convegno. Le ore migliori della giornata, quelle mattutine, sarebbe opportuno dedicarle invece all'assaggio, magari aprendo anche presto (le 8.30, perché no?), lasciando poi le parole al pomeriggio, quando anche il più esperto dei degustatori è stanco di mettere alla prova olfatto e gusto e memoria, e dunque si può anche permettere il lusso di rilassarsi ad ascoltare il giudizio consortile sull'andamento dell'annata, mettendolo assai utilmente a confronto con l'opinione che si è fatta personalmente tastando.
Poi, e soprattutto, occorrerebbe dividere l'assaggio su sale separate, una per i vini già in bottiglia e una per quelli ancora in vasca. Tastare Amarone è impegnativo, difficile: alcol, tannini, zuccheri richiedono costante e faticosa concentrazione. Bisogna tararsi e ritararsi continuamente su quello che si ha nel bicchiere. Improponibile complicare ancora di più le cose mettendo insieme vini da bottiglia - che vanno valutati secondo determinati parametri - e vini in vasca - per i quali occorre tener conto di parametri diversi, trattandosi di campioni non ancora pronti per il vetro. Per favorire questo salto concettuale, questo scarto di concentrazione, ritengo sia necessario utilizzare spazi diversi. Assolutamente. Ci dev'essere una separazione spaziale e temporale fra l'assaggio da bottiglia e quello da vasca. Sennò anche il più bravo dei degustatori rischia seriamente d'andare in crisi, e a rimetterci sono il vino e soprattutto il produttore.
Per i vini in bottiglia, ritengo poi assolutamente necessario che si sappia da quanto tempo l'Amarone è stato messo nel vetro. Non è la stessa cosa tastarne uno in bottiglia da un mese e un altro che ci sta da sei: l'evoluzione è diversa, nettamente, e dunque devono cambiare i parametri d'assaggio. Proponevo già due anni fa di indicare chiaramente al degustatore se il vino è già in bottiglia da più di 6 mesi, oppure se lo è da meno di 6 mesi e da più di 3 mesi, oppure ancora se è in vetro da meno di 3 mesi. Si tratta di informazioni essenziali, accidenti. Insisto nel ripetere quel che ho scritto l'anno passato: non è proprio il caso di far assaggiare comparativamente Amaroni così diversi tra di loro in quanto a fase di maturazione.
Tra i campioni "da vasca" proponevo poi - e lo ripropongo - di indicare quelli non ancora nell'assemblaggio definitivo (e dunque non nel taglio finale, quello che andrà in bottiglia, e dunque ancora probabilmente nel legno), e quelli che invece sono già in cuvée (e dunque presumibilmente in acciaio pre-imbottigliamento).
Sono tutte specificazioni essenziali per capire, o per cercare di farlo. Almeno per la critica specializzata.
C'è anche chi, fra i giornalisti e blogger che hanno partecipato all'ultima e alle precedenti edizioni dell'anteprima, ha chiesto di suddividere i vini per area d'origine, per vallata, per comune. Sarebbe certo interessante, ma non lo ritengo essenziale in un'anteprima, e non perché io non creda all'influenza dei luoghi sul vino e non ricerchi anzi le sfumature di questo o quel territorio, ma semplicemente perché penso sia oggettivamente difficile avere a disposisione moltissimi cru di Amarone, derivando molti vini da mix di uve provenienti da aree diverse o da cuvée di lotti di differente origine territoriale (il che non è un male), ma soprattutto perché le differenze di terroir ritengo si possano appieno cogliere soprattutto in vini già adeguatamente affinati, e questo non può essere evidentemente il caso di un assaggio in anteprima.
Ho ripetuto per la terza volta. Pronto a farlo una quarta, l'anno che viene.

6 febbraio 2011

Coraggio, produttori: avanti col vino (buono) in bag in box

Angelo Peretti
Davide Paolini, alias Il Gastronauta, mi ha dato ieri la possibilità di dire la mia, in diretta, su Radio 24, in merito a vini "in cartone". Sì, insomma, quelli inscatolati in brik o in bag in box. Gliene sono grato.
Il fatto è questo: personalmente, mi piace ritrovare in un vino una freschezza fruttata. Tutte le soluzioni tecniche che permettano di conservare al meglio questa sensazione sono le benvenute. Per questo da tempo insisto perché si estenda anche in Italia l'uso della capsula a vite, ed è battaglia dura, perché ci sono in giro un sacco di pregiudizi, conditi d'insana ignoranza. Per questo non sono parimenti affatto contrario all'utilizzo del bag in box come contenitore per il vino in quantità che superino il litro, mentre non amo i cartoncini stile succo di frutta, ossia i brik.
Non ho dunque nulla in contrario che i vini giovani e quelli già perfettamente affinati vengano commercializzati in bag in box, anzi. Non l'ho mai scritto sinora, ma lo vado dicendo da tempo, e anche in questo caso so che, per quanto concerne l'Italia, s'alzeranno gli strali di chi non vuole o non sa superare, appunto, il pregiudizio.
Unica differenza: vedo la capsula a vite adattissima alla ristorazione o al wine bar, mentre il bag in box è orientato esclusivamente al consumo domestico.
Vengo più in dettaglio al bag in box.
Che cos'ha di positivo?
Ha, l'ho già detto, la prerogativa di garantire quella che ho definito "freschezza fruttata" delle sensazioni organolettiche. Ma questo è poco. Ha anche che viene confezionato con impianti che richiedono altissima tecnologia, e dunque offre considerevoli garanzie sotto il profilo igienico, che non è cosa da poco, anche per garantire la qualità finale del prodotto. Poi, impedisce l'avanzata dell'ossidazione: chiude bene, tiene il vino integro: che volete di più se il vino non è destinato ad essere stivato per anni et annorum in cantina? Ha poi che se non lo finisci non succede niente: riprendi a spinarlo domani. In più, favorisce la convivialità, e per me questa è una prerogativa essenziale del vino, ma di questo riparlo più sotto. Ancora: la confezione è facilmente separabile e quindi interamente riciclabile, e questo, permettetemelo, è una qualità altrettanto importante, per chi "naturale" lo vuol essere davvero, e non solo nell'enunciazione di principi bio-qualcosa nella produzione di vigna e cantina.
Dicevo della convivialità. Questa qui è la più importante chiave di volta del bag in box là dove ha più successo, ossia nei paesi scandinavi. Là, trovarsi a cena fra amici nel lunghissimo inverno settentrionale è una sorta di rito. Ed altrettanto rituale è andare a trovare gli amici portando un vino in bag in box. Si mette la scatola da due o tre litri in mezzo alla tavola e ciascuno spilla la propria parte, conversando e mangiando. Mi ricorda - non se n'abbiano a male gli esteti della tradizione autoctona - una ritualità a me proibita (sono intolerrante all'aglio) della terra piemontese: la bagna cauda. Perché anche questa prevede che la pignatta con la salsa agliato-acciugosa venga messa in mezzo e ciascuno c'intinge le proprie verdure. E favorisce così, da sempre, la compagnia, la chiacchiera, la condivisione. Come il bag in box in Scandinavia.
Per questo gli scandinavi s'aspettano di trovare nei bag in box non anonimi vinelli da quattro soldi, ma bei vini che esprimano personalità e pulizia e piacevolezza. Una sfida, per i paesi di storica consuetidine enoica. Una sfida però da vincere, badando alla sostanza, che è la qualità del vino, e non alla forma, che è il contenitore del vino.
Chiudo dicendo che il bag in box può essere anche carino. In particolare, lo sono i Bib Art che vengono prodotti da una cantina di qualità della Languedoc francese, Chateau Puech-Haut. Funziona grosso modo così: ogni tanto, Gerard Brun, il titolare, mette a disposizione di un pittore una barique, chiedendogli di decorarla, e poi quell'opera viene riprodotta pari pari su delle simil-barrique metalliche da cinque litri, dentro alle quali si mette la sacca di materiale plasticoso (il bag in box, appunto). Tra l'altro, è anche simpatica la formula proposta ai pittori: il contenitore in cambio del contenuto. Ossia: l'artista si porta a casa il vino - tutto - che c'era dentro la barrique che ha impreziosito con l'arte sua. Eppoi, la collezione delle barrique (originali) dipinte viene esposta in mostre itineranti.
Be', volete che vi dica? A me quelle Bib Art piacciono. Il costo? On line comprate l'ultima edizione intorno ai 30 euro, che magari non è moltissimo, ma non è neppure poco. Alla faccia di chi pensa che nel bag in box ci debba andare il vinello, o qualcosa che comunque finisce con ello.

5 febbraio 2011

Olio extravergine di oliva Cru di San Martino Riva di Anna Peggion 2010 I Due Fratelli Botter

Angelo Peretti
Per chi bazzica gli ambienti della moda, quello di Anna Peggion è un nome noto. Per gli altri dirò che è una delle più celebri talent scout di modelle che abbiamo in Italia. E dico anche che è originaria di Asolo e che vicino alla Rocca ha ristrutturato un cascinale settecentesco e ne ha tirato fuori una dimora di charme e che, come tradizione asolana vuole, nella tenuta ci sono degli olivi. Ovvio che su quegli olivi dovevesse prima o poi metterci su l'occhio Emanuele Botter, che assieme col fratello Ezio gestisce quel luogo del gusto che è il Caffè Centrale nella piazzetta di Asolo (lo si vede nella foto). E il perché ci ha messo su l'occhio è presto detto: perché I Due Fratelli Botter (questo il marchio di fabbrica) hanno cominciato ormai da un po' d'anni a produrre olio, per rilanciare e valorizzare la storia olivicola del luogo, e dei due fratelli, quello che ha la passione oliandola è Emanuele.
La faccenda funziona grosso modo così: Emanuele ha organizzato una specie di "cooperativa" (la metto fra virgolette, perché non mi pare lo sia sotto il profilo burocratico) fra appassionati del paese, e questi si prendono cura dei giardini con olivi della varie ville asolane e poi raccolgono le olive e ne fanno extravergine. Siccome i vari appezzamenti di terra da quelle parti li chiamano "rive", gli oli migliori prodotto con le olive di una singola "riva" vengono imbottigliati ed etichettati come si trattasse di veri e propri cru, come nel vino. Ora, quest'anno I Due Fratelli Botter sono usciti con un nuovo cru, che si chiama, appunto, Cru di San Martino Riva di Anna Peggion, e qui il cerchio si chiude rispetto all'incipit.
Detto questo, penso sia bene aggiungere una spiegazione anche sul perché io parli di quest'olio, e la risposta è semplice: perché è davvero un bell'olio, probabilmente uno dei migliori dell'ultima annata in terra veneta.
Ha un colore gialloverde brillante, chiaro e cristallino. Eppoi profumi intensi di oliva verde, di alloro, di rosmarino, di erbe di prato. E in bocca è ancora la freschissima espressività vegetale a colpire, con immediatezza. L’ingresso, molto bello, è amaro, su toni di cardo e carciofo, per volgere poi gradualmente verso la dolcezza della frutta secca, transitando attraverso una persistente presenza erbacea. La piccantezza vivace ravviva una pasta di impianto leggero, ma elegante. Buono.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

4 febbraio 2011

Amarone 2007: il vero protagonista è stato il clima

Mario Plazio
Consueta kermesse di inizio anno, l’anteprima dell’Amarone permette di cominciare a costruirsi una immagine di quello che sarà l’Amarone prossimo venturo. Le impressioni raccolte tra i corridoi della Fiera di Verona e quelle mie personali parlano di una manifestazione che comincia a mostrare qualche segnale di stanchezza e che avrebbe bisogno di un deciso “lifting”. Non è questa la sede per parlarne, ma l’esigenza di rinnovare la formula mi sembra molto concreta.
Andando subito al profilo del vino targato 2007, risalta subito all’attenzione come il vero protagonista sia stato il clima. La stagione è stata la più precoce degli ultimi settant'anni, grazie ad un aprile caldissimo e ad una estate piuttosto siccitosa. Questo ha favorito (almeno sulla carta) i vigneti di collina, più protetti e meno soggetti alle scottature. L’acidità è stata abbastanza bassa, ma equilibrata. Caldo anche il cruciale momento dell’appassimento, con un ulteriore avanzamento delle date della pigiatura al fine di evitare gradazioni fuori controllo. L’altro elemento che dovrebbe fornire opportuni spunti di riflessioni è venuto dalla relazione del presidente del consorzio Luca Sartori. L’annosa questione è quella del numero di bottiglie prodotte. Tra il 1997 e il 2010 si è passati da 1,5 a circa 13 milioni di unità. Tra il 2009 e il 2010 si è compiuto un balzo con annessa giravolta: da 9 a 13 milioni. Cosa significhi tutto ciò nel contesto economico, o meglio macro-economico, è facilmente intuibile. Inoltre non si potranno non avere negative ripercussioni sull’altro vino del territorio, quel Valpolicella che ne porta il nome, ma che fatica e trovare una precisa identità.
Sarete a questo punto ansiosi di sapere come ho visto l’annata 2007. Lo dico subito. Diversamente da come l’ha vista chi l’ha presentata alla stampa.
Mi è parso (potrei anche dire ci è parso) che il tratto caratterizzante dei vini sia una incompleta maturità polifenolica, con conseguenti e accentuati elementi erbacei o vegetali. Molto spesso i vini hanno mostrato un profilo non completamente armonico, in alcuni casi erano fin troppo evoluti o non abbastanza equilibrati nelle loro componenti. In questo possono ricordare i vini del 2003. Sicuramente una maturazione più lunga e più avanzata nel tempo ci consegnerà dei vini più raffinati e preparati ad affrontare un lungo affinamento. Un certo numero di vini presentava anche un eccesso di rovere, quasi si sia cercato di “ammaestrare” la materia con il ricorso a legni fin troppo aggressivi. Tra le note positive invece, ho riscontrato una minore ricerca della pura potenza, il che ha portato a vini di più facile ed immediata bevibilità e di gradazione più moderata. Una strada sicuramente da seguire. Difficili nel complesso i giudizi, visto che parte dei vini era in bottiglia e parte è stata prelevata dalla botte. Non sappiamo quindi quale sarà il vero volto di questi Amaroni una volta in bottiglia. Proprio per questo non vorrei parlare nel dettaglio dei vini degustati, che credo meritino un giudizio più pacato e su campioni definitivi. L’impressione è quella che nel corso di queste degustazioni i migliori (quelli che lo sono abitualmente) siano sempre piuttosto sottotono, mentre i produttori meno quotati escono con più enfasi (e anche questo dovrebbe far riflettere). Una brevissima segnalazione di alcune etichette che mi sono piaciute, con l’impegno di risentirle in futuro: Tedeschi, Gamba, Tenuta Sant’Antonio, Benedetti Corte Antica, Salvaterra, Valentina Cubi, Speri e Cavalchina.
Attendo inoltre di vedere come sono i vini di quei produttori che non hanno potuto o voluto partecipare all’anteprima. Spero possano farlo nei prossimi anni per consentire a tutti i presenti di crearsi una idea più completa del millesimo.

3 febbraio 2011

L’ospite e l’invitato: benvenuto a Franco Ziliani e a Vino al Vino

Be' sono contentissimo di dare quest'annuncio: oggi su InternetGourmet parte una nuova rubrica, e l'idea non è mia, ma di quel vero e proprio punto di riferimento del wine blogging nazionale che è Franco Ziliani. La rubrica s'intitola “L’ospite e l’invitato” ed è pensata come una sorta di "patto tra gentiluomini" siglato tra responsabili di siti e di wine blog. La formula Franco l'ha pensata così: ognuno, di volta in volta, invita un ospite a dire la sua, su un tema liberamente scelto, pubblicando il pezzo sul proprio blog, e in cambio l'ospitante viene a sua volta invitato in casa dell’altro. L’ospite e l’invitato appunto. Ognuno rimarrà responsabile di quanto scriverà: l'obiettivo è quello di favorire il dialogo, dando anche modo ai lettori di un blog di diventare lettori dell’altro, se già non lo sono. Il primo invito Franco Ziliani l'ha rivolto a me, e ne sono onorato. Ovviamente è una gioia per me ricambiare ospitando un suo pezzo, anche se credo non saranno molti tra i miei lettori a non conoscere il suo Vino al Vino, che è una straordinaria palestra di dibattito in materia enologica. Dunque, io intervengo su Vino al Vino, e in contemporanea Franco Ziliani interviene qui. E qui da me lui parla del vino dell'Unità d'Italia, mentre su Vino al Vino io scrivo di... be', andatelo a scoprire su Vino al Vino. Grazie, Franco.
Angelo Peretti

Vino dell’Unità d’Italia: cui prodest?
Caro Angelo, lo sai che anche se ho una parte di sangue terrone (per via della nonna materna, nata in provincia di Taranto) e non ho mai avuto simpatie per la Lega sto scoprendo in me un’anima padana, indipendentista e addirittura secessionista? Colpa della retorica dei festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia che ricorrono proprio in questo 2011, degli appelli alla concordia nazionale che a me suonano tanto come degli insopportabili volemmose bbene all’amatriciana dall’accento (insopportabile per me milanese) trasteverino. Ma soprattutto colpa dell’assoluta stupidità di un paio di trovate beceramente presentate come testimonianza di “federalismo enologico”, per l’aver buttato il vino in politica. Mentre - ma vallo a dire a qualche nostro collega che proprio grazie al suo dichiarato schierarsi con questa maggioranza (pur tenendo aperte le porte anche con l’attuale opposizione) ricava guadagni e sinecure varie e lucrosi incarichi… - dovrebbero restare cose separate.
Cosa è successo? Semplicemente che, come ho letto da trionfalistici comunicati stampa, qualche “genietto” si è inventato il “blend per celebrare i 150 anni dell’Unità nazionale” sotto forma di due vini, il “Vino bianco d’Italia” e il “Vino rosso d’Italia”, che verranno lanciati al Vinitaly e saranno le “uniche bottiglie autorizzate a celebrare la storica ricorrenza nazionale dalla Presidenza della Repubblica”. Coinvolti in questa trovata il presidente di VeronaFiere, Ettore Riello, ed il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che al Vinitaly dello scorso anno avevano sancito l’intesa per dar vita alla bottiglia “dell’Unità d’Italia” e braccio operativo Assoenologi, che ha provveduto a selezionare ed assemblare 20 uve, le seguenti: Petit rouge, Barbera, Croatina, Rossese di Dolceacqua, Raboso, Teroldego, Refosco dal peduncolo rosso, Sangiovese, Cesanese di Affile, Sagrantino, Lacrima, Montepulciano, Tintilia, Negroamaro, Aglianico, Aglianico del Vulture, Gaglioppo, Nero d’Avola e Carignano per il rosso. Il bianco sarà invece un mix di Prié blanc, Cortese, Trebbiano di Lugana, Garganega, Weissburgunder, Friulano, Pignoletto, Vernaccia di San Gimignano, Grechetto, Malvasia, Verdicchio, Trebbiano, Falanghina, Fiano, Greco bianco, Grillo e Vermentino. Due vini “enologicamente” e geograficamente corretti - e basterebbe già questo aspetto a rendermeli indigesti - di cui nessuno francamente sentiva il bisogno. Questo anche se ce li hanno presentati come “uniti nella diversità”.
Questo il vino dell’Unità d’Italia diciamo così istituzionale, ma volevi vedere che un’occasione del genere non finisse con lo scatenare la fantasia di chi dell’immaginazione - immaginifica - ha fatto la propria ragion d’essere? E così dall’azione congiunta di una delle più inutili associazioni che si occupa (parola impegnativa) di vino esistenti in Italia, Le Città del Vino, e di un winemaker che deve la propria notorietà ad aver inventato vini denominati La Quadratura del Cerchio o Ateo, ad aver fatto indifferentemente la consulenza per il vino di una pornostar e aver curato la Cuvée speciale per il Papa nel 2000 in occasione del Giubileo. Il tipo in oggetto, la cui biografia, quasi romanzata, potete leggere qui, animatore del “progetto Winecircus, regno dell’azzardo e della sperimentazione come elemento vitale della ricerca, in cui ogni sfida con la vite ed il vino è possibile e vale la pena di essere tentata”, corrisponde al nome di Roberto Cipresso, che gli stessi comunicati stampa velina ci definiscono “winemaker italiano di fama internazionale”. Cosa ha tirato fuori dal cappello del mago la combinata Città del Vino-Cipresso? Il “vino speciale” per i 150 anni dell’Unità d’Italia, nientemeno che “Il Taglio per l’Unità”, un rosso tricolore che racchiude in un’unica bottiglia l’Italia del vino, una selezione dai vitigni autoctoni più rappresentativi del Belpaese. Come si è affrettato a comunicare tutto compito il presidente delle Città del Vino, “la speciale cuvèe sarà realizzata in 150 magnum, tante quanti gli anni della storica ricorrenza, che saranno donate al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano come omaggio negli incontri ufficiali con i grandi della terra”. Come ci ha raccontato ancora Pioli, questo mix di vitigni e territori, “è un vino che esprime il concetto di unità del Paese, intensamente desiderata nel momento in cui fu conseguita nonostante la condizione di frammentazione e la presenza di realtà complesse, differenti, che comunque riuscirono a sentirsi una cosa sola, forse proprio in virtù di quelle differenze. Oggi c’è bisogno di riscoprire quell’entusiasmo, e non esiste altro prodotto che sia il simbolo di tutta l’Italia come il vino”. Quando poi parla Cipresso la retorica, già abbondante, sale al potere: “Se è vero che un vino possa avere in molti casi la dignità di un’espressione artistica in grado di comunicare un messaggio forte, e di sicuro può essere un vero e proprio oggetto culturale, per la storia che rappresenta”, allora “per trasmettere, attraverso il vino, il fascino dell’Italia quale Paese reso straordinario dai processi di contaminazione di tante culture differenti è stato inevitabile per la realizzazione della cuvèe intraprendere la strada della mescolanza di varietà autoctone italiane che, per motivi storico-culturali, ma anche per le proprie caratteristiche organolettiche, e per il loro terroir, risultano le più rappresentative delle singole regioni”. Infine la ciliegina sulla torta, l’originale “etichetta artistica”, affidata ad un artista di Montalcino (località dove, si dice, di miscellanee di vitigni se ne intendono), che rappresenterebbe “la “ricucitura” dei tanti e diversi territori italiani con la loro storia e tradizioni attraverso il vino, l’elemento che unisce tutta l’Italia”. Come non avvertire la nausea, anche di fronte alla scelta fatta con un bilancino molto “guidaiolo” delle aziende e dei vini da inserire in questa “cuvée unitaria”?
Quasi quasi per bilanciare tutta ‘sta retorica, patriottarda, questa enologia furbetta, provo a stapparmi un Vinho Verde, un Verdiso trevisano, una Verdea di San Colombano, inneggiando al secessionismo, alla separazione da questa Italietta così trombona. Anche 150 anni dopo… Tu che ne dici?
Franco Ziliani

2 febbraio 2011

Chianti Rufina 2007 Frascole

Mauro Pasquali
La zona del Rufina non da oggi sta distinguendosi nel mare magnum del Chianti come, probabilmente, la più dinamica e, al tempo stesso, come quella dove la difesa della tipicità e della tradizione è più marcata. La valle del Sieve ed il Mugello tutto non hanno la nomea di altre zone più turistiche della Toscana ma possiedono un patrimonio unico: una biodiversità non intaccata dalla monocultura viticola: i boschi si alternano ai vigneti, l’altitudine aiuta le vigne di sangiovese ad esprimere il meglio e questo Frascole 2007 di sangiovese ne ha tanto, dentro di sé, oltre il 90% con piccoli saldi di canaiolo e colorino, due vitigni che come il sangiovese e al pari di trebbiano toscano e malvasia del Chianti hanno da sempre caratterizzato la viticultura locale.
Alla vista un bel colore rubino con leggeri riflessi aranciati. Al naso le note caratteristiche di lampone e fragola di bosco, poi viola e un accenno di liquirizia. In bocca ti colpisce subito per la sua freschezza, la sua sapidità. Il finale è lungo, lunghissimo e ti lascia la bocca pulita. Asciutta.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

1 febbraio 2011

Confettura di pere e vaniglia Bourbon Le Tamerici

Angelo Peretti
"And the Angels Sing" è un brano famosissimo del repertorio dell'orchesta di Benny Goodman e poi di tanti altri. Ora, si dà il caso che di Angeli me n'intenda, e dunque se dico che stavolta ho sentito davvero gli angeli cantare, come sostiene la canzone, be', penso di sapere quel che dico. Scherzo, ovviamente, ma mi tocca invece sul serio rispolverare un aggettivo desueto come "celestiale" per definire una confettura che m'è capitato di spalmare dal pane la mattina a colazione.
Ora, credo che importi poco se sono stato fuori sudare riprendendo il mio jogging mattutino per cercare di contenere gli effetti degli eccessi enoici e gastronomici, ma gli è che al ritorno non trovavo alcun barattolo della consueta marmellata, e allora, rovistando, ho riscoperto un vasetto, che avevo ricevuto in dono a Natale, della confettura di pere e vaniglia Bourbon che fa la Paola Calciolari alle Tamerici, a Bagnolo San Vito, terra mantovana. E ho scoperto la quadratura del cerchio: è possibile, sì, è davvero possibile spalmare sul pane appena un velo, un velo soltanto di confettura, se questa ha una pienezza di sapori, e un'armonia, un'eleganza, e insomma una bellezza celestiale come questa. Sapori pieni, appaganti, avvolgenti, persistenti, gratificanti, intendo. E te ne basta proprio poca. Oh, sì: la quadratura del cerchio.