31 maggio 2011

Il significato del luogo

Angelo Peretti
Già due volte, nelle ultime settimane, mi sono soffermato sul concetto del genius loci, mutuato dall'architettura, ma a mio avviso assolutamente calzante anche con l'ambito del vino, contribuendo a dare più completa definizione all'idea francese di terroir ed anzi a tratti superandola. Ne ho parlato in relazione ad un bellissimo librino di Francesco Bevilacqua ed al pensiero di Eugenio Turri.
Torno in argomento perché il volumetto di Bevilacqua mi ha fatto riprendere in mano un sacro testo qual è il "Genius Loci", appunto, di Christian Norberg-Schultz. Un libro di architettura. Strettamente di architettura. Epperò anche una delle opere fondanti per chi voglia avvicinare quell'idea di paesaggio che viene spiegata con la concettualità del genius loci. E dunque assolutamente da leggere, anche se non ci si occupa di architettura.
Mi son trovato a sfogliare nuovamente quel libro, perché l'autore vi esprime una convinzione che è ben sintetizzata da Bevilacqua con queste parole: "Per Norbert-Schultz, il Genius Loci è quel significato profondo del luogo che è iscritto nella sua essenza e che l'architettura deve tendere a realizzare senza stravolgere". Ecco, credo che questo sia esattamente quanto deve fare anche un vigneron, se vuol davvero cercare di realizzare un vino di terroir: scoprire il significato profondo del luogo in cui fa crescere e fruttificare la vigna, perché quel significato è già iscritto nel luogo in cui vive la vigna e vive il vignaiolo, e dunque è quel significato che, senza stravolgerlo, dovrebbe trovare concretizzazione nel vino che viene tratto dalla vigna".
Mi sono appuntato sul desktop parecchi mesi fa un brevissimo, illuminante passaggio del volume di Norbert-Schultz, quello in cui afferma che “luogo” significa qualcosa di più che una localizzazione. Ecco, sono esattamente d'accordo. Purtroppo, chi del vino ha una visione razionalistica - ed è una visione assolutamente maggioritaria nella realtà italiana - tende a confondere il "luogo" con la sua localizzazione fisica. Ma il "luogo" è altro: è umanesimo diffuso, è ambiente, è cultura, è sentimento, è sacralità. Questo vorrei trovare, almeno in parte, dentro al bicchiere che bevo.

30 maggio 2011

Soave Colli Scaligeri Vigne della Brà 2008 Filippi

Mauro Pasquali
Risulta un po’ strano, in una zona dove la monocultura viticola ha occupato tutti gli spazi utili, trovare estesi boschi che lambiscono i vigneti. E, si badi bene, non solo in quelle zone dove piantare vigne risulterebbe arduo o quantomeno antieconomico: anche in zone dove altri viticultori non ci penserebbero due volte a sbancare il terreno per farne nuovi vigneti, la famiglia Filippi continua a voler preservare la biodiversità, salvaguardando il bosco.
La Brà è una zona della doc Soave caratterizzata, quindi, da una forte compenetrazione fra vigneto e bosco, ma anche da un’altitudine che fa del vigneto di Filippi il più alto in assoluto della doc. Tutto questo, unito a una splendida esposizione a sud-ovest, all’età delle vigne (circa sessant’anni), permette di ottenere questo cru, uno dei più interessanti di tutta la doc. La coltivazione, biologica, è a pergola veronese e la particolare composizione del terreno (un misto di argilla, basalto e calcare) permette di ottenere delle uve cariche di mineralità e florealità  al tempo stesso. La garganega riesce a esprimersi al meglio, anche grazie alla lavorazione che evita eccessivi traumi all’uva, sfruttando i dislivelli presenti in cantina per i travasi. Dopo una fermentazione innescata esclusivamente da lieviti autoctoni, il vino matura quasi due anni in acciaio e viene imbottigliato senza filtrazione né chiarificazione.
Un vino di colore giallo paglierino carico, che esprime complessi profumi minerali, quasi di zolfo, con note di fiori bianchi, erbe aromatiche e frutta a polpa bianca. In bocca entra con una grande sapidità e mineralità, si fa notare per la grande struttura e conclude con notevole persistenza.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

29 maggio 2011

Peccati di gola

Ricordò che una volta aveva letto un articolo in cui si sosteneva che i membri della chiesa cattolica erano meno morigerati dei protestanti, perché potevano confessare ogni peccato di gola commesso a tavola ed essere assolti da ogni colpa. Guardando dentro al frigo, trovò ben poco che potesse indurlo in tentazione.
Peter Mayle, "Un'ottima annata", Garzanti 2005

28 maggio 2011

Sangiovesé

Angelo Peretti
Accidenti, 'sti francesi hanno il vizio di mettere sempre l'accento in fondo. Per esempio, la signora moglie presidenziale Carla diventa Carlà, e cose del genere. Vuoi vedere dunque che adesso arriva anche il Sangiovesé, con l'accento sulla e finale?
Sissignori, pare che i francesi si stiano buttando a pesce sul vitigno tosco. Lo leggo sulla versione on line del mensile britannico Decanter. Dice che il sangiovese è stato piantato in maniera sostanziosa nella regione dell'Herault, nel sud della Francia: i Vivai Cooperativi Rauscedo ne hanno venduto all'incirca 170 mila barbatelle a cinque produttori della zona (sono i Domaine de Gournier, des Peyrats, de la Bousquette, Clos des Roques e de St. Laurent). Quelli messi giù in Francia sono cloni delle varietà del sangiovese toscano, del brunello, del romagnolo, del prugnolo e del morellino.
Ecco qua: ancora quattro-cinque anni e i francesi si metteranno a imbottigliare il Sangiovesé.

27 maggio 2011

Ventottomila ceppi per ettaro: non è che stiamo esagerando?

Angelo Peretti
Leggo sulla Revue du Vin de France che il celebre vigneron alsaziano Jean-Michel Deiss, profeta della biodinamica, s'appresta a piantare una vigna ad ultra-densità: ventottomila ceppi per ettaro. Pensare che da quelle parti la media è di cinquemila piante per ogni ettaro di vigneto. "Voglio vedere come si comporta la pianta in una situazione di concorrenza assoluta", dice il vignaiolo, "avido d'esperienze", alla Revue. Curiosi tutti di vedere come va. Ma per ora mi viene solo una domanda: non è che stiamo esagerando? La risposta è: lo scopriremo solo vivendo (citazione battistiana). O meglio, lo scopriremo bevendo, fra qualche annetto.

26 maggio 2011

Una verticale del Cabernet Due Santi del Vigneto Due Santi

Mario Plazio
Tra i numerosi tagli bordolesi veneti, il Cabernet Due Santi prodotto a Bassano dai cugini Adriano e Stefano Zonta si è saputo imporre nel corso degli anni come un vino di grande personalità e dalla crescente eleganza.  Questo è il resoconto di una verticale di alcune annate di questo rosso composto classicamente da un assemblaggio di cabernet sauvignon, merlot e cabernet franc.
2006. Colore non troppo intenso. Naso che sente ancora un legno di buona finezza, poi spezie, erbe, carne e fiori. Bocca ancora in corso di assestamento, alcolica, ma tenuta da una solida materia e dall’acidità. Finale segnato dai tannini, che risultano molto maturi e presenti. Coi minuti il quadro si fa più elegante, escono la liquirizia e ancora le erbe. Da attendere. 89/100
2005. Più intenso cromaticamente. È in una fase complicata, di chiusura. Con pazienza restituisce frutti rossi, agrumi e una nota terrosa. Al palato è contemporaneamente più elegante e sferico del 2006. I tannini hanno una dinamica diversa: entrano in azione velocemente. Il finale è segnato dal rovere per la nota lattica, mentre l’inizio del palato sembra peccare di un pizzico di diluizione. Anche questo ha bisogno di ritrovarsi in bottiglia. 86/100
2004. Limpido e giovanile nei riflessi. Sembra più compiuto, è senz’altro uno dei più fini. Aromi di more, erbe, grafite, coi minuti accentua il carattere balsamico. Compatto e diretto ha un bel ritmo. Agrumato e complesso, non insiste sulla concentrazione ma sulla continuità delle sensazioni. Forse il più bordolese della serie, e penso sia un bel complimento. 92/100
2003. Più cupo ed intenso, vive già di note terziarie, che virano sul cuoio e la gomma. E poi liquirizia, composta di frutta, tabacco. Potente ed alcolico, rivela anche note verdoline, per una probabile insufficiente maturazione polifenolica. Ne risulta una minore complessità e un vino più prevedibile, con una certa sensazione di amaro nel finale. D’altra parte l’annata sappiamo come è andata. 84/100
2002. Colore rubino, bel naso che denuncia una certa evoluzione. Molto aperto, odora di confettura di lampone. È’ pronto, godibile, forse un pelino semplice, ma giustamente si affida alla facilità di beva senza cercare troppo la concentrazione che evidentemente non era nelle corde di quella vendemmia. Da bere.
84/100
2000. Colore denso e ancora giovanile. Naso macerato, vinoso, la complessità comincia a mostrare i propri segni. Ad esempio con le note ferrose, saline (capperi), accanto al cuoio e alle spezie. Il tutto senza nessuna forzatura. La potenza si rivela al palato, dove forse prevalgono i muscoli sulla eleganza. I tannini sono maturi, mentre il finale ricorda la liquirizia, le olive e l’infuso d’erbe. 89/100
1999. Colore non troppo cupo con note di evoluzione. È tra i più evoluti ed intriganti. Piacciono gli aromi di terra bagnata, roccia, tabacco fresco, acqua di mandorle. È meno loquace al palato rispetto al 2000, risultando per questo più sottile ed elegante, con una maggiore persistenza. 90/100
Nel complesso un vino dalle grosse potenzialità che comincia a prendere una dimensione interessante grazie all’invecchiamento del vigneto e all’esperienza dei due vignaioli. Come i buoni bordolesi, va atteso, anche a lungo perché possa rivelare tutte le sfumature di cui è capace. Forse una piccola riflessione potrebbe essere fatta sull’apporto del legno, che nei primi anni di vita del vino tende talvolta a debordare.

25 maggio 2011

Atopia

Angelo Peretti
Atopia è un termine difficile e davvero poco usato. Significa "assenza di luogo", che può doler dire in qualche modo spaesamento. Ecco: l'atopia è la condizione dell'uomo d'oggi nelle nostre città-contenitore, nei nostri territori brutalmente violati. Temo sia anche la condizione di molti vini d'oggi nei vigneti omologati della viticoltura internazionalizzata. E così i vini diventano per la gran parte uguali e muti e privi di personalità, di anima.
Il termine atopia lo usava Eugenio Turri, geografo delle mie parti, di Cavaion Veronese. Scomparso da qualche tempo. Maestro dello studio del paesaggio e della sua lettura antropologica.
Turri viene ampiamente citato da Francesco Bevilacqua nel libretto, di cui ho scritto ieri l'altro, sul tema del Genius Loci. La questione mi intriga, e chi mi segue da tempo credo lo possa sapere. Credo che un approfondimento sul concetto, appunto, di Genius Loci, di spirito dei luoghi, di identità del paesaggio, possa essere una delle chiavi di volta per poter tornare verso vini che esprimano una personalità capace di andare oltre le mode e i meri dettami della tecnologia di vigna e di cantina. Superando, in qualche modo, il concetto francese di terroir, o forse, meglio, implementandolo.
Riprendo qui di seguito una mezza paginetta del libro sul Genius Loci nella quale si fa riferimento, appunto, alla lezione di Turri. "L'antico paesaggio mostrava i segni dell'uomo come timidi mutamenti dell'ambiente naturale, come metodiche di strenuo adattamento alle condizioni ambientali (testualmente Turri: 'Il segno umano aveva qualcosa di trepido, di sperduto e commovente nel suo aderire ai dettami naturali'), mentre il paesaggio dell'era postindustriale mostra il risultato della sopraffazione perpetuata ai danni della natura dalla tecnologia sempre più invadente e penetrante, sempre più capace di mutare i connotati del territorio, le sue caratteristiche, le sue vocazioni. Così l'uomo, conclude Turri, si direbbe incamminato verso l'atopia, verso un mondo senza luoghi, senza legami topografici. Quando Turri parla di atopia, ossia di assenza di luoghi nel senso antropologico-geografico, vengono in mente altri fenomeni contigui". Vengono in mente, aggiungo io, tanti vigneti contemporanei, disegnati con metodica industriale, mettendo mano a sbancamenti spaventosi, rimodellando suoli, modificando colline, spianando rilievi, allineando declivi. Come si può parlare di terroir per i vini che vengono da simili vigne?
Lo spirito del luogo viene ferito, ucciso. E finirà per gridare vendetta. Il vino sarà spaesato, senza luogo, e l'uomo pure. Siamo nell'età dell'atopia, anche nel vino, e in molti casi è veramente arduo pensare si possa invertire il cammino.

24 maggio 2011

Liberalizzazione dei vigneti: c'è chi canta fuori dal coro

Angelo Peretti
Non c'è che dire: è proprio una voce "contro" quella di Gianpaolo Paglia, vigneron maremmano col suo Poggio Argentiera. Mentre tutti, ma proprio tutti, sembrano gridare al "dagli all'untore" contro l'Ocm vino che vorrebbe liberalizzare l'impianto di vigneti in Europa, lui imperterrito dice che la libertà d'impresa è un sacrosanto diritto, e uno sulla sua terra può piantarci quello che vuole, anche perché le misure per bloccare la proliferazione di vigneti le doc ce le hanno già, se vogliono. Dov'è che lo dice? Sul blog aziendale, ché lui oltre che vignaiolo è anche blogger, appunto.
Ora, sia chiaro, non voglio certo passare per quello che fa la crociata pro-deregulation, ci mancherebbe. Ma ho già scritto che sulla questione ho dei dubbi grandi come una casa. E adesso dico che in ogni caso non mi ci vedo a sostenere la posizione del catastrofismo, quella che dice che la liberalizzazione dei vigneti significherebbe piantar vigne dappertutto, e che con questo scomparirebbero i piccoli vigneron in favore del vino dell'omologazione industriale. Non lo vedo perché non è successo neppure laddove si poteva e dove si è piantato a mani basse - vedi Australia - si sta facendo marcia indietro. Ma, ripeto, son solo dubbi.
Gianpaolo Paglia la posizione, invece, l'ha presa netta, ed è curioso che sia un piccolo vignaiolo molto attento ai temi del terroir a cantare fuori dal coro. Dice: "È comprensibile che non faccia piacere a nessuno immaginare migliaia di viticoltori in crisi per la sovraproduzione (tanto meno a me, che appartengo alla categoria). Ma perché nessuno prova ad avanzare l’idea che il viticoltore non è più stupido (o più intelligente) di un qualsiasi altro agricoltore, o più in generale, di qualsiasi altro imprenditore? Perché mai dovrebbero esserci migliaia di persone pronte a piantare dei vigneti, con un impegno economico peraltro molto rilevante, in una situazione economica incerta e con prospettive di mercato difficili? Qualcuno si è mai chiesto perché non ci siano migliaia di olivicoltori, o peschicoltori, o produttori di cipolle, o di cappelli, o di fermagli per i capelli, che indiscriminatamente si gettano a valanga a produrre beni per i quali il mercato è già saturo, sapendo di rischiare il tracollo finanziario? E perché non si mette un limite al numero di fabbriche per saponette che si possono stabilire in Italia o in Europa, oppure al numero di ettari di zucchine che è possibile coltivare?"
Dubbi che si aggiungono ai dubbi.

23 maggio 2011

Genius Loci

Angelo Peretti
Questo è un librino che tutti coloro che fanno vino - e se nessuno se ne ha a male, anche quelli che ne scrivono e ne bevono, ma soprattutto, insisto, quelli che lo fanno - dovrebbero leggere. La cosa buffa è che non parla di vino. Nemmeno ne accenna. Parla di paesaggio. Dell'essenza stessa del concetto di paesaggio. S'intitola Genius Loci ed è stato scritto da Francesco Bevilacqua. Lo pubblica Rubettino.
Genius Loci è una locuzione usata dagli architetti e dai paesaggisti, mica dai vignaioli. Perché sino ad oggi sono stati, appunto, solo gli architetti a occuparsene. Ma credo sarebbe interessante trasferirla al mondo del vino, come evoluzione del concetto francese di terroir.
Quella del terroir - ne ho già scritto più volte, ché è tema a me caro - è un'idea che fonde in un unicum inscindibile elementi naturalistici, come la terra, la vigna, il clima, con aspetti antropologici, come la storia e il sentire di una comunità, oppure lo stesso orgoglio del produttore, il suo sentimento. Il concetto di Genius Loci va più in là. Originariamente, stava a identificare la divinità dei luoghi, le ninfe che abitavano i luoghi d'acque. Era un'idea sacra dei luoghi, e come tale investiva ogni aspetto del rapporto fra l'uomo e la terra. Oggi siamo nell'epoca della desacralizzazione, e da qui nasce l'aggressione al territorio, la violenza dei luoghi. Che si trasfonde, dico io, anche ai vini, che dai luoghi, ineluttabilmente, provengono: vini che troppo spesso non hanno più anima, ed è ovvio che sia così, se non c'è rispetto dell'anima stessa dei luoghi.
Attenzione: non parlo di sacralità in senso strettamente religioso. Anche se è oggettivamente arduo attribuire una visione laica ad un concetto che nasce nell'ambito del sacro. Ma, come dice Bevilacqua, il dare un significato laico all'idea di Genius Loci "non implica negare nel contempo l'idea della sacralità dei luoghi, posto che il contrario di laicità non è sacralità ma confessionalità".
Ma dove sta il legame, l'interconnessione fra il Genius Loci e il vino? Sta nel significato più profondo del concetto di paesaggio. Scrive Bevilacqua: "Abbiamo già visto come il concetto di paesaggio - che qui useremo come sinonimo di luogo - non può avere un mero significato spaziale. Un paesaggio, un luogo, sono il coacervo di più elementi materiali ed immateriali: uno spazio fisico e geografico omogeneo (una valle, una montagna, un monumento o un insieme di monumenti di roccia, una cascata, un bosco, una spiaggia, una scogliera, un borgo, ecc); il suo contenuto ecologico (piante, animali, ecc); l'addensarsi in esso di una storia di natura e cultura scandita da segni impressi nei secoli dai fenomeni naturali e dagli eventi umani; un immaginario collettivo che di quel luogo si è prodotto; infine la percezione sensoriale dell'osservatore che in quello specifico momento lo guarda, lo visita, lo attraversa". Ecco, credo che se questa sia una descrizione perfetta non solo del paesaggio, ma anche di quello che i francesi chiamano terroir, ed anzi, lo supera, proponendo l'applicazione del sacrale concetto del Genius Loci. Ed è quanto vorrei trovare nel mio bicchiere quando stappo una bottiglia che sia figlia di un luogo e di chi è parte del luogo. Vorrei trovarci dentro la sacralità del luogo e della gente di quel luogo. Perché la vigna è un segno impresso in un paesaggio. E il vino ne dovrebbe essere sintesi sensoriale, attraverso la quale chi ne beve ha percezione dell'anima del luogo - naturale ed umano - che quel vino ha generato.

22 maggio 2011

Candid’o

Enrico Lucarini
E ingenuo come li Candido di Voltaire mi son sentito quando ho assaggiato questa canditura, che era la prima volta che tastavo un tal prodotto e che mai pensavo potesse esistere. E nemmen mi sfiorava l’idea che una ricotta candita potesse esser tanto gradevole. Che di questo si tratta. Deliziosa. Sembra una caramella mou, ma è molto meno appiccicosa, meno stucchevole e più bilanciata grazie anche a una certa acidità, la vaniglia poi ne completa la complessità del gusto donandole persistenza ed equilibrio. Una coagulazione delle sierocaseine, bacche di vaniglia, sciroppo e tempo (tanto, ne vanno almeno quindici giorni) per costruire un piccolo capolavoro. Io lo trovo perfetto per la transizione, quel momento cruciale e delicato del pranzo in cui i palati affaticati abbandonano i formaggi per passare ai dolci...
‘o.

21 maggio 2011

Colli Berici Merlot Campo del Lago 1997 Villa Dal Ferro Lazzarini

Mario Plazio
Forse questo vino a qualcuno dirà poco, ma si tratta di una etichetta storica per il vicentino e per il Veneto.  Il Campo del Lago è uno dei pochissimi rossi che vanta una lunga tradizione, e godeva già di grande reputazione quando la stragrande maggioranza dei vignaioli odierni ancora portava i pantaloni corti e forse non pensava nemmeno di produrre vino.
Questo ’97 è estremamente intrigante, a metà tra il frutto giovanile e l’età della saggezza. Dei bordolesi possiede quell’aplomb che solo a loro appartiene, la classe di chi si può permettere di non fare niente per emergere, che non ha bisogno di farsi notare. Gli aromi vanno dal tartufo al caffè, al cacao, fino ad arrivare al cuoio e all’iris. La finezza setosa che pervade il palato se ne frega di tutti i merlot toni fruttosi e morbidoni. È un vino che si beve, lungo, sapido, composto, senza alcuna esagerazione. E poi anche minerale (catrame) e impalpabile nei tannini.
Dopo un giorno è ancora migliore, profuma di confettura di fragole, di ferro e spezie. Direi che mi ricorda un bel Saint Emilion, di quelli di una volta, fatti senza i concentratori e senza i consigli di Parker.
Purtroppo non so che fine abbia fatto questa cantina, che mi pare abbia conosciuto qualche passaggio a vuoto negli ultimi anni. Naturalmente sono pronto a smentire, anzi spero proprio di farlo.

20 maggio 2011

Scaraffare lo Champagne?

Angelo Peretti
Della serie: non si finisce mai di imparare. Sinceramente, di scaraffare uno Champagne non ci ho mai pensato. Ma ora leggo che in certi casi è meglio farlo. Lo dice, sulla Revue du Vin de France, un produttore, Pascal Agrapart. Un récoltant manipulant e anche un vigneron indépendant: insomma, uno che il vino se lo fa con le proprie uve. Tra le sue etichette c'è un grand cru di Avize, un extra brut (4-5 grammi-litro di zuccheri) da solo chardonnay tratto da vigne d'oltre mezzo secolo d'età. Millesimato, esce a cinque anni dalla vendemmia, dopo lunga sosta sui lieviti. La base viene vinificata e affinata in barrique. Ebbene, per questo Champagne, monsieur Agrapart dice alla Revue che è consigliato scaraffarlo una mezz'ora prima di servirlo. Perché in questa maniera riesce meglio ad aprirsi e a proporre tutte le sue sensazioni. Parimenti, suggerisce di berlo attorno ai dieci gradi di temperatura, mica ghiacciato, perché altrimenti il freddo impedirebbe ai suoi aromi di esprimersi.
Ecco, di mettere uno Champagne nella caraffa (intendo il decanter, e credo sia meglio quello con cui Agrapart si vede in foto sulla Revue: pancia stretta e collo lungo), non ci avevo mai pensato.
Non ho ancora avuto occasione di bere il millesimato di Agrapart: spero di poter presto colmare la lacuna. In linea generale, e dunque, senza espresso riferimento al vino in questione, devo dire che non sono un grande estimatore delle bolle nelle quali si avverta il passaggio nel legno, epperò mai avevo pensato ci fosse una maniera diversa che versarle direttamente nel bicchiere: ci proverò, a scaraffarle, e già m'immagino che mi si apriranno nuovi orizzonti.
Già, non si finisce mai di imparare. E bene fa la Revue a pubblicare la sua rubrica sui "consigli dei vigneron": sono loro, i produttori, che vengono invitati a spiegare come servire e bere i vini che escono di cantina.

19 maggio 2011

Beviamoci il vino dell'antimateria

Angelo Peretti
A un certo punto mi capitava regolarmente d'andare in crisi. Mi riferisco a quando collaboravo con una guida vinicola - una delle maggiori, la maggiore. Arrivava talvolta il momento in cui mi trovavo - come dire - emarginato all'interno del panel degli assaggiatori. Dal punto di vista strettamente numerico, dovrei dire minoritario, ma il termine corretto è emarginato, e questo senza che gli altri componenti del gruppo d'assaggio avesse alcun intendo discriminatorio nei miei confronti, ed anzi vi era - e a distanza di anni ancora vi è - stima e simpatia reciproca.
A cos'era dunque dovuta la mia marginalità? Era dovuta alla materia. Ecco, questo, materia, è il termine che più mi mette in difficoltà quando si parla di vino.
Accadeva cioè che s'arrivasse, a un certo punto delle lunghe giornate d'assaggi, al momento d'affrontare certi vini dal frutto densissimo e dal tannino graffiante che copriva il frutto e a tratti col rovere in rilievo, pure coprente, e con l'alcol che affaticava il palato già provato dalla tannicità. Vini di buona mano enologica, certo, ma che mai e poi mai mi sarei sognato di stappare in tavola la sera, a cena. E dunque finivo per assegnar loro un punteggio intorno ai 75 centesimi, mentre dagli altri del gruppo arrivavano gli 88 o i 90 e passa. Quando spiegavo che per me più di 75 non valevano, perché, appunto, insopportabili a tavola, mi si obiettava: "Ma c'è materia". Intendendo con questo che vi erano polpa, concentrazione, muscolarità.
Ecco, se questo è il vino della materia, io ero e sono per il vino dell'antimateria. E non voglio certamente dire che vagheggio vinelli scipiti dalla sostanza d'un ectoplasma. Nossignori. Cerco equilibrio, finezza. E beva. Anche un vino polputo puà sfoggiare equilibrio straordinario, perché no? Ma dev'esserci, appunto, finezza, ché altrimenti è solo palestra.
Di fronte alla matericità fine a se stessa, mi tengo la mia antimateria, e me la bevo.

18 maggio 2011

Gambellara Classico La Guarda 2009 Casa Cecchin

Mauro Pasquali
Oddio, adesso chissà cosa dirà l’ingegner Renato, Cecchin per chi non conosce di Durello e Monti Lessini. Già, perché l’ingegner Renato è giustamente famoso per essere stato il pioniere della rinascita (o nascita?) del Durello: quando nessuno credeva in quello splendido vitigno, lui, caparbiamente, lo difese e lo promosse. Oggi i risultati gli danno ampiamente ragione.
Non di Durello, tuttavia, voglio parlare oggi e, proprio per questo mi aspetto da lui una tirata d’orecchi. Oggi l’argomento è il Gambellara, vino spesso bistrattato e posto in secondo piano rispetto al più famoso ed ingombrante vicino: il Soave. Un Gambellara particolare, prodotto da Casa Cecchin e in cui (seconda tirata d’orecchi) lo zampino è più della figlia Roberta che del padre Renato. Un Gambellara che nasce nella zona di Agugliana, frazione di Montebello Vicentino e non lontano da quell’antico vulcano, il Calvarina, che tanto ha segnato con i suoi basalti il territorio circostante e ha permesso di ottenere dei vini carichi di mineralità e sapidità che quasi non t’aspetti in un territorio del nord. Agugliana è una frazione che gode di un microclima straordinario: grazie alla sua altitudine riesce ad emergere quasi sempre dalle nebbie invernali, evitando pericolosi ristagni di umidità; è magnificamente esposta sia al vento che al sole e questo permette una ottimale maturazione delle uve: la garganega, in questo caso, riesce ad esprimere il meglio di sé, come in questo Gambellara Classico La Guarda 2009.
L’uva è raccolta tardivamente e, dopo la pigiatura, il mosto rimane sulle proprie bucce alcune ore. Matura solo in acciaio, a contatto per alcuni mesi con le fecce nobili ed esce, dopo un periodo di affinamento in bottiglia, generalmente un anno dopo la vendemmia.
La raccolta tardiva è evidenziata da un bel colore giallo paglierino intenso, con sfumature dorate. Al naso la mineralità ben si amalgama con netti profumi di frutta gialla. Emerge gradualmente una bella vena balsamica.
La bocca evidenzia una grande struttura, dove la mineralità a poco a poco volge verso note di mandorla che lasciano un piacevole retrogusto amarognolo accompagnato da una grande persistenza.
Due beati faccini :-) :-)

17 maggio 2011

The Cave Singers - Welcome Joy

Angelo Peretti
Opperbacco se mi piacciono i Cave Singers. Pressoché sconosciuti in Italia al grande pubblico, hanno infilato tre album uno più bello dell'altro. Welcome Joy è il secondo, magari un po' meno rustico del primo, ma mica poi così tanto. Bisogna ascoltarlo, sissignori.
Neo folk, country rivisto e corretto, indie con un pizzico di blues. Da Seattle. Chitarra, percussioni, voci roche, rugginose, da boscaioli in visita ai parenti di città, ritmi che vanno dall'ossessivo all'intimistico, dall'ipnotico al crepuscolare. Musica affilata, diretta. Tradizione che guarda al futuro, il domani che ha radici nel passato.
Oh, sì, mi piacciono i Cave Singers. Come mi piace qualche vecchio Barolo dritto dritto e senza fronzoli, come qualche Madiran coi suoi begli anni sulle spalle e magari perfino (horribile auditu!) un pelo di brett che esalta un fruttino acidulo.
The Cave Singers - Welcome Joy - 2009

16 maggio 2011

L'evoluzione del Salco, nel sughero e nella vite

Angelo Peretti
Altri ne hanno già scritto prima di me. Dunque, non è una novità. Ma ho voluto comunque prendermi un po' di tempo, perché l'assaggio comparato dei due rossi gemelli del Salcheto m'ha fatto riflettere. Stesso identico rosso, annata 2005, imbottigliato per metà in sughero e per metà in capsula a vite. Con risultati, almeno al momento, agli antipodi. Ma… non v'è uno dei vini che mi sembri prevalere sull'altro. Per ora. E dunque occorrerebbe riprovare più in là nel tempo. Di certo, ad ora son due vini diversi. Diversissimi.
Ordunque, Michele Manelli del Salcheto m'ha raccontato che han deciso di mettere in vendita una cassetta che contiene una bottiglia di Vino Nobile di Montepulciano Salco Evoluzione 2005 in tappo in sughero e una bottiglia dell'igt Toscana Rosso Salco Evoluzione 2005 in capsula a vite. In realtà, si tratta dell'identico vino. Il doppio nome è legato a problemi di lgislazione. Siccome il Nobile è un docg, è vietato - per ora e chissà per quanto, viste le assurdità delle norme vinicole italiche - confezionarlo sotto vite, e dunque se han voluto usare 'sta nuova chiusura hanno dovuto "declassare" parte del Nobile a igt. Entrambi sono comunque in vetro da quattr'anni, e dunque il test della comparazione è quanto mai interessante, per vedere come lo stesso vino si comporti sotto l'una o l'altra chiusura.
Il Nobile in sughero mi si è presentato con un naso caratterizzato da toni terrosi sopra ai classici sentori varietali del sangiovese. In bocca è evoluto, ancorché fresco. Segnato ancora dalla matrice varietale. E poi ha spezia, erbe officinali. Rabarbaro. Tannino bene integrato.
Il Salco in tappo a vite l'ho trovato molto più giovanile già all'olfatto, decisamente su toni primari, fruttati, senza le tracce evolutive dell'altro. Tannino più verde, anche un po' ruvido. Frutto tondo, molto, e assai più croccante. China. Insomma, agli antipodi rispetto al vino in sughero.
Sin qui l'assaggio. Se però mi si domanda quale dei due abbia preferito, be', vado un po' in crisi. Entrambi, mi verrebbe da dire. Il primo aveva dalla sua, nel bene e nel male, quel suo carattere evoluto, il secondo sfoggiava, ancora in bene e in male, una clamorosa giovinezza. Il primo pronto, l'altro non ancora. Il primo indissolubilmente legato alla tradizione, il secondo ancora difficoltoso da decifrare, ma certamente lontano dall'essere compiutamente definito. Difficile, sì, proprio difficile scegliere quale stappare.
Azzardo: chi cercasse la tradizione, la consuetudine del Nobile, sceglierebbe il sughero, chi volesse l'interpretazione del vitigno, del sangiovese, finirebbe inevitabilmente per prediligere la capsula a vite.
Insomma: sono e sarò per il tappo a vite, questo è noto, ma forse occorrerà meglio riflettere su quale sia il carattere che si vuole che il vino esprima. E sulla base di questo individuare la data migliore d'imbottigliamento. Forse la chiusura a vite vuole vini che abbiano fatto più lungo affinamento rispetto al vino destinato al sughero. Forse. Non so.
Dicevo che altri ne hanno già scritto. Vedo che Kyle Phillips ha assegnato al Nobile 90 centesimi e al Salco in tappo a vite 90-92. Anche lui li ha posti, insomma, grosso modo sullo stesso piano, pur trovandoli molto diversi. E Jacopo Cossater dice ha preferito - ma di poco - il rosso sotto vite per la sua maggiore "reattività".
Comparazione interessante, dunque, molto. Comparazione che fa riflettere.

15 maggio 2011

Frizzante Naturalmente Casa Coste Piane

Mario Plazio
Chi ha detto che il Prosecco è buono solo fresco (inteso imbottigliato da poco tempo)? L’assaggio del prosecco “con i fondi” di Loris Follador, amico vignaiolo e filosofo (spero non si arrabbi per la definizione), conferma che non esistono regole, o almeno che queste sono fatte per essere smentite.
Il Frizzante Naturalmente è un Prosecco rifermentato in bottiglia che ha aperto una strada oggi fin troppo battuta, sappiamo come le mode possano creare mostri, come il sonno della ragione.
Ma com’è il nostro vino dopo una paio d’anni di cantina? Le note evolute sono evidenti, il vino è quasi fragile, delicato. Spicca una bella morbidezza che diventa velluto al palato. Gli aromi sono più decisi, c’è il miele, accanto ai fiori e alla macchia mediterranea, e una mineralità balsamica che sfuma negli idrocarburi. Complesso e salino, è un vino atipico che acquista una nuova dignità nello scorrere del tempo.
Tre faccini :-) :-) :-)

14 maggio 2011

Marlborough Sauvignon Blanc The Brothers 2009 Giesen

Angelo Peretti
Ordunque, dicano quel che vogliono i sostenitori del tappo in sughero ovvero di quello - horribilis! - in materiale plasticoso. Ma il tappo a vite - pardon, la capsula a vite - è un'altra cosa. E non solo perché tien meglio il frutto e la sua integrità, ma anche per il fatto che se la bottiglia non la finisci, la riserri e te la bevi più avanti. Quanto più avanti? Più avanti, basta riavvitare ben bene. Per esempio, di questo Sauvignon Blanc neozelandese della Giesen winery m'era avanzato un mezzo bicchiere un po' abbondante, che però è povera abbondanza, essendo, appunto, solo mezzo bicchiere. Ho riavvitato stretto stretto come da copione ed ho lasciato - dimenticato - la bottiglia sul piano della cucina. Due giorni dopo - quarantott'ore dopo - me ne sono accorto del fondo di bottiglia, riordinando la casa, e ho voluto provare il vino. Perfetto, era perfetto. Merito del vino, certo, ma anche della richiusura con la capsula a vite: quale sughero sarebbe riuscito a fare altrettanto, su un bianco per di più?
Veniamo al vino, adesso. Buono, dicevo, anche due giorni dopo. Tipicamente un Sauvignon Blanc di Marlborough. La selezione si chiama The Brothers, credo in auto-omaggio ai fratelli Giesen, titolari della vigna e della cantina. Annata 2009.
Il naso è quello che t'aspetti da un Sauvigon Blanc di quelle parti: fiori, frutto giallo croccante (direi susina ancora un po' acerba, con l'aggiunta di un che di litchie), fresche e sottilissime note di salvia. In bocca la croccantezza fruttata è avvincente. La freschezza offre tensione e allunga il frutto. La bocca saliva e chiede un altro bicchiere. Bellissimo bianco.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

13 maggio 2011

A proposito della liberalizzazione degli impianti di nuovi vigneti

Angelo Peretti
Devo dire che sono in difficoltà. Non so come prenderla la questione della liberalizzazione degli impianti di vigneti, che la nuova Organizzazione comune di mercato europea prevede debba - possa - applicarsi dal 2015. Nel senso che se volessi seguire il fiume in piena italo-francese di questi giorni, dovrei, magari opportunisticamente, essere ferocemente contarrio alla deregulation, mettendomi al passo con la politica ministeriale o con colossi associativi come Federdoc o con istituzioni più piccine in termini di rappresentatività come la Fivi, tutti schierati per il "no" alla libertà di impianto. E se concordano in così tanti, ci sarà pure una buona ragione. E dunque non voglio essere io il bastian contrario.
Ma siccome la mia formazione economica è di stampo liberale, be', mi viene il dubbio che così come la si sta mettendo la questione rischi un bel po' di assumere contorni illiberali. Così come ritengo illiberale l'attuale sistema, che ti permette di acquistare i diritti d'impianto da una zona e di trasferirli altrove: solo che nella zona d'origine si tratta spesso di diritti riferiti a vigneti esistenti solo sulla carta, mentre in quella di destinazione il vigneto lo si crea davvero, e dunque di fatto si consente una crescita "reale" degli impianti.
Personalmente credo al mercato e alle sue regole. Che quando vengono forzate o violate, magari nel nome del liberismo selvaggio, ti fanno pagare conti salatissimi, ed è il caso della crisi prima finanziaria e poi economica che ci sta attanagliando da qualche tempo. Ora, però, se si crede al mercato, si deve accettare che i prezzi vengano regolati attraverso l'incrocio di domanda ed offerta, e che quindi l'offerta non possa essere regolata con impedimenti alla produzione, come sarebbe il caso della negazione della libertà di impianto.
A complicarmi le cose, c'è però che credo fermamente anche nel principio di sussidiarietà, che mi porta a vedere con sfavore l'intromissione degli stati nelle questioni economiche. Giacché prima degli stati vengono le aggregazioni economiche e sociali, e prima di loro le cellule ancora più piccine della società, come le imprese o le soggettività sociali (associative) o le istituzioni territoriali, e prima ancora le famiglie. Accetto ed anzi ritengo utile l'intervento centrale dello stato solo nel caso in cui si debba muovere la leva della solidarietà, a fronte della conclamata impossibilità delle soggettività più piccole di far fronte da sole alle loro necessità. Ma prima bisogna dar modo a queste di autodeterminarsi, di autoregolarsi.
Nella questione del no alla liberalizzazione degli impianti dei vigneti ravvedo invece il rischio è che vi possa essere una deriva protezionistica, che stabilizza chi già possiede vigneti in una certa area, impedendo nei fatti nuovi investimenti, magari effettuati da imprenditori di valore. E certo, so che i dubbi che sto sollevando mi scateneranno addosso un sacco di critiche, con l'infamante accusa di essere al soldo dell'industria del vino. Ma le mie non sono soluzioni o certezze: i miei sono dubbi, e mi pare possa essere interessante esporli.
Piuttosto, mi chiedo se non sia meglio che vi sia una liberalizzazione che tenga conto del principio, appunto, di sussidiarietà. E che dunque siano i singoli territori, le singole denominazioni di origine a stabilire se la si debba o meno applicare. In linea generale, varrebbe la deregulation, che potrebbe tuttavia essere mitigata da scelte consortili tali da tener conto della necessità di corretta gestione degli equilibri della filiera. Ma credo questo possa essere scambiato per utopismo, e non voglio certamente essere io quello che sostiene che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Non lo so: mi sento confuso. Intanto, chi volesse approfondire, può leggere, per esempio, cosa dice Franco Ziliani sul sito dell'Associazione italiana sommelier (lui è contrario, tanto per intenderci).

12 maggio 2011

La Garganega sui lieviti – vino frizzante naturale – dell'azienda agricola Menti Giovanni

Mauro Pasquali
E perché, si è domandato Stefano Menti, non cimentarsi con una Garganega “sur lie” o, meglio, “sui lieviti”, come ama chiamarla lui? Tra il dire e il fare c’è di mezzo un anno. Un anno che ha permesso di migliorare e affinare la tecnica, con un bel lavoro di squadra con il padre Giovanni, che firma anche la bottiglia. Non che la versione 2009 non fosse valida, per carità, tant’è che di bottiglie dell’anno passato in cantina non ce n’è traccia, complici, oltre alla qualità del prodotto, un prezzo decisamente interessante e un mercato sicuramente ben disposto verso questa tipologia di vino.
Oggi, all’uscita dell’annata 2010, colgo l’opportunità di assaggiare questa Garganega. Un vino ideale per l’estate, grazie alla bella acidità e freschezza e alla piacevole rifermentazione causata dalla sapiente aggiunta di una piccola dose di mosto di Recioto di Gambellara. Gli zuccheri e i lieviti, presenti naturalmente nel mosto, provocano la rifermentazione in bottiglia. Pétillant direbbero i francesi, frizzante lo chiamiamo noi italiani, ché la pressione in bar in bottiglia non supera i 2,5 e per legge non lo si può definire spumante. Ma tant’è: all’atto di versarlo nel bicchiere ti sorprende per la sua spuma compatta e persistente, per il perlage fine, considerata la tipologia di vino, tanto che potresti scambiarlo tranquillamente per un metodo charmat, non fosse per la naturale torbidità dovuta ai residui di lieviti. Al naso balzano evidenti le note agrumate e i sentori minerali classici della garganega. Una bocca pulita e sapida con una bella lunghezza rendono piacevole la beva di un vino che sarà indubbio compagno di molte serate estive.
Un vino non impegnativo ma, proprio per questo da apprezzare anche da solo, come aperitivo, bella alternativa a più famosi e modaioli vini.
Due beati faccini :-) :-)

11 maggio 2011

I fondi del Borgogna van bevuti!

Avete presente i fondi che si formano nelle bottiglie quando il vino rosso è invecchiato? Be', a chi tocca l'ultimo bicchiere qualche problemuccio glielo danno. C'è chi, per evitare il problema, versa il vino in caraffa facendolo passare dall'imbuto col colino, in modo che i sedimenti si fermino, ma a me 'sta soluzione non piace, perché se il vino è parecchio vecchio la decantazione lo ossida velocemente. Preferisco versare a mano a mano dalla bottiglia, con prudenza, e pazienza se mi perdo l'ultimo sorso.
Quanto sopra va bene sempre, tranne in un caso: i pinot noir della Borgogna. Lì la storia si rovescia, e se si tratta d'un grande rosso borgognone mi offro volontario per avere l'ultimo bicchiere, quello infestato dai fondi.
Sissignori, i fondi dei Borgogna si bevono, e sono buonissimi. Me l'ha insegnato qualche anno fa un ristoratore francese, ho provato e ne ho avuta conferma ed ora ritrovo il concetto sfogliando "Il piacere del vino", un libro di Jens Priewe pubblicato da Bolis Edizioni: se non siete troppo schizzinosi con qualche passaggio non propriamente ben tradotto dal tedesco, vi consiglio la lettura, perché offre intelligenti e talvolta anticonvenzionali letture del fenomeno vino.
Detto questo, cosa scrive Priewe? Scrive così: "Secondo Aubert de Villaine, direttore e comproprietario del Domaine de la Romanée-Conti, il sedimento di un prezioso vecchio vino di Borgogna va bevuto insieme al vino, nonostante l'aspetto poco invitante. Il gusto e la struttura sono diversi da quelli di sedimenti di altri vini. È dolce e composto da piccoli fiocchi che non sono tannini (di cui i Borgogna non sono particolarmente ricchi) ma pigmenti precipitati".
Sissignori, è proprio così: i floculi dei vecchi rossi di Borgogna van bevuti. Quel ristoratore francese che m'ha insegnato 'sta cosa suggeriva di mettere un attimo a testa in giù la bottiglia dei vecchi Borgogna, in modo che i fiocchetti possano diffondersi nel vino. Certo, poi a vederli nel bicchiere non è piacevolissimo, ma è vero che son dolcissimi, e a non berli ci si perderebbe buona parte della bellezza di quel vino. Ahimé, non ho potuto far l'esperienza con un vino del Domaine de la Romanée-Conti, bensì con altri Borgogna. E lo consiglio ai veri Bourgogne-lovers.
Dice Priewe: "Decantare un vino di Borgogna d'annata significa perderne almeno un terzo: un vero peccato per un vino così pregiato". Sottoscrivo.

10 maggio 2011

Il vino perfettino non va giù

Angelo Peretti
Vini così mi mettono in crisi. C'è la consapevolezza che hai nel bicchiere un rosso fatto da gente che sa il fatto suo in cantina. Ma a tavola il bicchiere non va giù, non si svuota. Troppo perfetto, il vino, e la morbidezza e la struttura sono soverchianti.
M'è capitato al ristorante, in Piemonte. Il vino più in là nel tempo che c'è in carta è un Barbaresco del 2004, un cru celebrato dalle guide. Ordino senz'indugio: è rosso conosciuto, anche se magari l'annata non è delle più spettacolari. Arriva, lo metto nel bicchiere, e il primo sorso è accattivante, con quel frutto, quella spezia, quella morbidezza. Però, già, quella morbidezza: non trovo il carattere del nebbiolo. Che sia nascosto sotto al legno? Dico: s'aprirà. Invece non s'apre, resta lì, perfettino, appunto, nello stile che ha infatuato quasi tutti dagli anni Novanta, con la vaniglia e il rovere che non vanno via, fastidiosi alla lunga. E con la tavola è ancora peggio: proprio non va, non sta col cibo accidenti, ne è rifiutato. Non riesco a farlo andar giù.
Ora, mi dico: come fai a pensare che un vino del genere non meriti l'attenzione delle guide e i punteggioni nelle competizioni enologiche? Non ho dubbio che nel più classico degli assaggi alla cieca delle commissioni da concorso riceverebbe ampi consensi. Ma in tavola no, non sono stato capace di tenercelo, e dopo un ripetuto e vano tentativo di riportarlo alla bocca, chiedo di nuovo la carta e ordino un plebeo Pelaverga di Verduno, che coi piatti ci va, eccome se ci va.
Ecco, vini così, come questo Barbaresco, mi mettono in crisi: valido probabilmente per l'assaggio, impresentabile col cibo. Per questo amo sempre meno le degustazioni e preferisco stappare la bottiglia in tavola. La prospettiva cambia. Parecchio.

9 maggio 2011

Se la Fivi imbraccia l'arma della concretezza

Angelo Peretti
Ecco, se la Fivi è questa, se imbraccia la concretezza come arma, allora ci siamo. Mi riferisco alla lettera che Matilde Poggi, vicepresidente della Federazione italiana dei vignaioli indipendenti, ha scritto a Giancarlo Gariglio in risposta a un suo intervento sul sito di Slowine.
Giancarlo si chiedeva del perché i vignaioli fossero così lontani dalla politica. Scriveva: "Nessuno osa alzare la manina... Divisi, stremati, alcune volte arroccati in difesa di incomprensibili atteggiamenti snobbistici (il bio l'ho inventato io e gli altri mi copiano per speculare): i vignaioli rischiano l'estinzione dall'agenda politica del paese. Rappresentano una delle voci più importanti del nostro bilancio (agricolo e turistico), ma non sono capaci di far valere i propri diritti. Troppo prime donne per sporcarsi le mani e dare vita a un movimento forte che sappia parlare la stessa lingua a un pubblico più ampio e diverso dai quattro gatti che frequentano tutte le fiere di settore".
La risposta di Matilde è, come dicevo, all'insegna della più assoluta concretezza: niente proclami, ma fatti. Ed elenca le piccole-grandi battaglie della quotidianità vitivinicola che la Fivi sta - finalmente, mi vien da aggiungere - affrontando. "A breve - dice - partirà una lettera indirizzata a tutti gli europarlamentari che si occupano di agricoltura in cui presenteremo le nostre istanze".
Quali istanze?
La prima: "Siamo contrari alla liberalizzazione degli impianti, contestiamo l’indirizzo della commissione europea che ci vuole schiacciare sulle ragioni della grande industria".
La seconda: "Da tempo si parla dell’inserimento degli allergeni in etichetta: abbiamo chiesto che venga effettuato uno studio da cui risulti l’effettiva presenza nel vino di queste sostanze, normalmente utilizzate solo come chiarificanti poi allontanati con il travaso".
La terza: "Abbiamo preso posizione sul dossier etichettatura dei vini riguardo l’indicazione dei fattori nutrizionali in etichetta".
La quarta: "Siamo l’unica associazione agricola europea ad avere preso posizione sul dossier relativo alle emissioni di Co2 dei trattori: si è chiesto alle case produttrici di ridurre le emissioni e loro hanno risposto che questo è possibile solo facendo trattori più grandi. La commissione quindi stava valutando quanto potrebbe costare cambiare i sesti d’impianto…"
La quinta: "Abbiamo presentato un’istanza alle Commissioni Ambiente e Agricoltura affinché non venga inclusa la solforosa nell’elenco di prodotti biocidi che verranno proibiti, impedendo così il suo utilizzo in cantina come sanitizzante per la disinfezione dei fusti".
La sesta: "Sosteniamo il progetto Winenviroment per il recupero delle acque di vinificazione e filtrazione".
La settima: "Stiamo predisponendo un dossier sull’etilometro per verificare la sua attendibilità come strumento di controllo del tasso alcolemico".
Fatti, non proclami. Del resto, i vignaioli, quelli veri, badano al sodo. I politici, quelli in genere hanno in mente ben altre concretezze, che con la quotidianità della gente che lavora hanno poco a che fare.

8 maggio 2011

Alsace Grand Cru Altenberg de Bergbieten Gewürtztraminer Vendanges Tardives 2002 Roland Schmitt

Mario Plazio
Non sono un grande appassionato di gewürtztraminer. È un’uva così marcata e “sfacciata” che spesso dà alla luce vini volgari o nella migliore ipotesi prevedibili. E purtroppo quelli italiani rientrano spesso in questa categoria.
Qualcuno dei miei tre lettori (ammesso che siano così tanti) dirà che sono il solito esterofilo. Ebbene sì: hanno ragione.
Prendiamo ad esempio il vino di Roland Schmitt (in realtà l’azienda che porta il suo nome è retta dalla vedova e dai figli). Si tratta di uno dei grand cru più a nord della Route des Vins in Alsazia, e che produce vini di indiscutibile finezza, che si amplificano nel corso degli anni.
Questa vendemmia tardiva è al limite di una SGN (selezione di acini nobili) e si demarca per un naso elegantissimo, travolgente ma al tempo stesso di una leggerezza inimitabile. Frutto della passione, lavanda, cannella e una nota di botrite ne caratterizzano gli aromi, che confluiscono in una bocca compatta e lunghissima, sottile ed elegante come di rado mi è capitato di trovare. La botrite conferisce sentori di fungo, mentre il finale chiude sulla frutta secca con un sentore amarognolo di grande purezza. Fascinoso.
Tre faccini :-) :-) :-)

7 maggio 2011

Antiche Sere - Torino

Angelo Peretti
Come fare un salto indietro nel tempo di quaranta, cinquant'anni almeno. Entri, e trovi una trattoria di quelle d'una volta. Fronzoli zero, ma proprio zero. Bancone del bar. Due salette coi tavolini piccoli e la tovaglia bianca. I tubi dell'acqua che escono dal muro e fan la giravolta sopra alla stufa (la stufa: mica il riscaldamento) e sopra ci sono appesi i mestoli e i paioli in rame strausati.
Torino, quartiere Borgo San Paolo, fuori dal centro, ma mica lontanissimo. Nel menù quattro antipasti, quattro primi, quattro secondi. Scritti a mano, su carta da macelleria.
Magari, a prima vista, ti vien qualche dubbio. Poi arrivano e i piatti e i dubbi svaniscono e benedici la sorte che t'ha fatto arrivare fin lì, prenotando, ché è pieno, e non è mica un caso.
Be', quegli agnolotti al sugo d'arrosto me li sogno ancora. Strepitosi, succulenti, gustosi: ne mangeresti due, tre porzioni. Gli gnocchi fatt'in casa son conditi col Gorgonzola vero, saporito. Il brasato è perfetto, sissignori, perfetto, per sapore e tenerezza, per personalità e delicatezza. I capunèt di carne trita avvolta nella foglia di verza da tenere vivi nella memoria.
La cura dell'ospite è totale. Al tavolino dietro al mio c'era una coppia che cenava. Vicino alla porta che dava sul cortile, e la porta era continuamente aperta da chi andava in bagno (che è nel cortile: una volta era così dappertutto). Appena s'è liberato un altro tavolino, le donne di casa cos'han fatto? Han preso il tavolino libero e l'hanno tolto. Poi han preso il tavolino apparecchiato dei due e l'han portato di peso nel posto che s'era liberato, vicino alla stufa. Così non c'era più il disturbo dell'andirivieni e lo spiffero della porta. Ma dico io, in quant'altri posti la vedreste una scena del genere? Applauso.
Ecco: segnatevelo quest'indirizzo. Una trattoria dove andare. Magari chiudendo col bonèt, classicissimo, e aprendo con quegli antipasti che io, intollerante all'aglio, ho dovuto saltare.
Vini ce n'è, e ovviamente son rossi piemontesi, Barbere in primis.
Antiche Sere - Via Cenischia, 4 - Torino - tel. 011 3854347

6 maggio 2011

Mâcon-Péronne Réserve 2004 Domaine de la Condemine

Angelo Peretti
Sì, lo so, l'ho detto e lo ripeto, sono un bevitore abc: anything but Chardonnay. Insomma: datemi da bere quel che volete, purché non sia Chardonnay. Con le dovute eccezioni. Perché se per caso spersa nella vostra cantina aveste una bottiglia del Mâcon-Péronne Reserve 2004 del Domaine de la Condemine, be', chiamatei, perché sarà pur fatto con sole uve  di chardonnay (borgognone), ma è buono, accidenti se è buono.
Frutto giallo polposo, tondo, croccante, sodo, dolce, maturo. Lo giri e lo rigiri nel palato, e più che berlo quasi lo mastichi, lo rosicchi, ed è un gran frutto, e dopo il primo sorso ti vien voglia di un secondo.
Grande bianco.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

5 maggio 2011

Arrivano i cinesi

Angelo Peretti
Arrivano i cinesi. E il mondo del vino sta facendo i conti con loro. A Bordeaux le quotazioni dei maggiori crû sono esplose con l'annata 2009: i cinesi si sono accaparrati bottiglie su bottiglie, casse su casse, facendo impennare vertiginosamente le quotazioni. Facendole impazzire. Fino a portarle decisamente fuori accessibilità per i tradizionali compratori europei. Adesso leggo sulla Revue du Vin de France che la Cofco, una società attiva nel settore agroalimentare, interamente di proprietà del governo cinese, s'è comprata uno château bordolese nella denominazione di Lalande-de-Pomerol: è Château Viaud. E sarebbe ormai la quarta azienda del territorio di Bordeaux che vede entrare in casa capitale cinese.
C'è anche da dire che ci sono francesi del vino - e che vino! - che investono i Cina. Uno dei più grandi nomi del panorama bordolese, e addirittura il simbolo stesso dello straordinario interesse cinese per il vino francese d'élite, ossia Château Lafite Rothschild, sta facendo investimenti proprio in Cina. Lo leggo sempre sulla Revue, in un altro articolo. Il gruppo si è installato nei pressi di Penglai, nella penisola di Shandong, nella parte orientale della Cina. Ci pianteranno 25 ettari di vigna, per farci vino ed anzi insegnare ai cinesi come si fanno i grandi vini.
Per quel che mi riguarda, di vini cinesi sin qui ne ho bevuto uno solo, e guarda caso veniva proprio da quella penisola di Shandong dove ha investito il gruppo DBR, proprietario di Château Lafite Rothschild. Era lo Shandong Red Noble Dragon 2005 di Changyu Pioneer. L'ho comprato, ovviamente, in Francia. E l'azienda produttrice ha storici e attuali legami col panorama vinicolo transalpino. Com'era? Era un piccolo, eccellente Bordeaux. Avrei veramente fatto fatica a distinguerlo in una degustazione alla cieca di buoni rossi bordolesi basic. Lo riberrei volentieri, e forse in cantina ne ho ancora una bottiglia.
Attenti: la Cina è più vicina di quanto sembri. Anche nel vino.

4 maggio 2011

Verdicchio di Castelli di Jesi classico Il Bacco 2002 Fattoria Coroncino

Mario Plazio
Considero il Verdicchio uno dei più grandi bianchi italiani, e aggiungo che ha ancora dei margini di miglioramento importanti. Tra i produttori un posto del tutto particolare lo occupa la Fattoria Coroncino, emanazione di quell’autentico personaggio che è Lucio Canestrari.
Lucio appartiene alla categoria dei produttori biologici, ma con giudizio. Nel senso che non rivendica alcuna appartenenza, non segue alcuna filosofia o sentiero battuto. Da molti anni non concima e non utilizza fitofarmaci. Il vino viene trattato il meno possibile, in particolare la solforosa è ai minimi livelli per garantire un prodotto digeribile e sano.
Il Bacco è il vino base dell’azienda, un “vino schiavo” nella definizione dell’estroverso Lucio, nel senso che è un grande vino quotidiano che si può anche trasformare in vino delle grandi occasioni o piegarsi ai più diversi abbinamenti.
È interessante verificare l’evoluzione del Bacco nel millesimo 2002, ricordando che non è il prodotto più longevo della cantina.
L’evoluzione è evidente dal colore, di un oro carico ma brillante. Le note mature sono quelle di limone confit, cera d’api, miele di castagno e zolfo (non solforosa). La progressione non è delle migliori, il vino si sviluppa soprattutto nella prima parte, per denunciare qualche carenza nel finale. Probabilmente si tratta di una bottiglia poco fortunata, a momenti c’è un lieve sospetto di tappo in agguato. Complessivamente però va ricordato il prezzo veramente conveniente in cantina e la destinazione del vino, per cui tutto sommato non ci possiamo lamentare di una bottiglia che a otto anni di vita non è spenta e riesce a fornire ancora una buona gradevolezza.
Un faccino e mezzo :-)

3 maggio 2011

Il formaggio è sexy

Angelo Peretti
Sempre pensato io che il formaggio è sexy. Lo si assapora coi cinque sensi, tutti quanti messi in gioco, come nell'amore. Ne scrissi qualche anno fa: "L’amore, il formaggio: questione di coinvolgimento totale" era il titolo del pezzo. Chi volesse andare a rileggerselo può cliccare qui.
Solo che noi i nostri formaggi, in Italia, non sappiamo renderli quel tanto glamourous e impertinenti che servirebbe ad esaltarli, e dunque li costringiamo in "nicchie" da iper-appassionati, in degustazione semi-carbonare. Peccato, ché abbiamo un patrimonio caseario straordinario. Da far invidia ai francesi, che però, loro, diversamente da noi, i loro formaggi li sanno rendere accattivanti e anche sexy, se occorre.
Date un'occhiata al sito internet Fromages de Terroirs, che già dal nome la dice lunga su come in Francia si sappia valorizzare la diversità e l'identità dei caci, mettendo in campo il concetto di terroir, preso pari pari dal vino.
Il sito lo gestisce l’Association Fromages de Terroirs, nata a Lione nel 2001 per iniziativa d'una giornalista, Véronique Richez-Lerouge. Ne fanno parte artigiani caseari, gente della stampa, cuochi stellati. E da cinque anni pubblica il calendario delle From'Girls - le Ragazze del Formaggio - che fan bella mostra di sé dalle pagine patinate. Foto birichine, spiritose, a tratti un pochettino impertinenti, epperò mai (quasi) sopra le righe: vedere per credere.
A proposito: se ci fosse qualcheduna fra le lettrici che vuol diventare una From'Girl per l'edizione 2012 del calendario, il modulo d'autocandidatura si può compilare qui. Si sa mai.

2 maggio 2011

Il racconto della capsula a vite

Mauro Pasquali
Qual è il problema della scarsa diffusione del tappo (o, meglio, capsula) a vite in Italia? Sicuramente la prevenzione e la diffidenza verso una chiusura che, soprattutto in chi di anni non ne ha pochi, porta a lontani ricordi di vini dozzinali chiusi con un improbabile tappo a vite di alluminio. Nulla di più diverso dalle moderne chiusure a vite ma le credenze e le diffidenze sono radicate e dure da superare.
Quale il modo migliore per superare diffidenza e ignoranza, si è chiesto Stefano Menti, giovane ed entusiasta viticultore in quel di Gambellara? Educare e informare, è stata la risposta.
Come raggiungere il maggior numero di persone con un messaggio efficace e, al tempo stesso, non eccessivamente costoso, visti i tempi? Usare il mezzo stesso oggetto del contendere: il tappo a vite.
Così, oggi, possiamo trovare il Paiele, Gambellara dell’Azienda Menti, con la chiusura Stelvin in cui fa bella mostra il racconto del tappo a vite:
"Perché la capsula a vite?
Per conservare al meglio i vini di pronta beva
Per rendere più agevole apertura e chiusura
Perché il metallo con cui è fatta è riciclabile
Per escludere interferenze sempre più frequenti con sughero e sintetici".

1 maggio 2011

Prelievo

Angelo Peretti
Qualche giorno fa sono stato a fare le analisi del sangue e sulla ricevuta del pagamento del ticket ho letto "prelievo vinoso in ambulatorio" e mi sono preoccupato.
Poi ho guardato meglio e ho visto che in realtà era "venoso" ed è tornato il sereno dentro di me: ho capito che invece di smettere di bere dovrò più semplicemente recarmi dall'oculista.