30 giugno 2011

Colfóndo virale

Angelo Peretti
Si chiama Terroirvino ed è la manifestazione vinosa che Tigulliovino e il suo deus ex machina Filippo Ronco hanno ideato a Genova. Pochi giorni fa s'è svolta la settima edizione, ed è un bel segnale di continuità. Ne sono usciti anche dei riconoscimenti ad aziende e produttori che si distinguano per caratteristiche particolari. Ora senza nulla togliere agli altri premiati, ne vorrei sottolineare uno, quella attribuito a Bele Casel.
Riporto pari pari la motivazione ufficiale: "Premio Innovazione & web 2011. All’azienda Bele Casel, per aver colto appieno il senso e le opportunità offerte della rete, con una presenza attiva e partecipe alle conversazioni ed alle molteplici occasioni d’incontro. Disponibile al confronto diretto e alla condivisione, forte di una produzione di qualità superiore, valorizzando il territorio".
Ecco, sì, Luca Ferraro e la sua Bele Casel sono l'esempio di come una piccola azienda possa utilizzare il web per farne una leva di marketing e per "incubare" idee. Una su tutte, fra le idee: il lancio del Prosecco Colfóndo. Il Prosecco sui lieviti. Tradizionale. Di cui Luca s'è fatto interprete. Con successo. Diventandone una sorta di leader. Anzi, di opinion leader. Iniettando sul web un'idea, appunto, e vedendola amplificarsi via web magazine, blog, social network.
Bele Casel ha un suo sito internet basato su una piattaforma blog - ed è un blog vero, dove si discute non solo di temi aziendali, ma anche del mondo prosecchista in generale - ed è poi presente - presente davvero, attivamente, assiduamente, costantemente - anche su Facebook, su Twitter, su Myspace, su Flickr, su Linkedin, su Friendfeed. Non so quanto tempo Luca dedichi quotidianamente al web. Presumo tanto, perché lo vedo di continuo. Dovunque. Credo si porti l'iPad o l'iPhone o roba dele genere anche sul trattore, quando è nei campi. Una volta si sarebbe detto che è come il prezzemolo, ma oggi il prezzemolo è - fortunatamente - meno utilizzato di una volta. Ma la presenza paga, nel suo caso. Perché è una presenza "reale", ed è curioso usare questo aggettivo per degli strumenti "virtuali".
Dicevo del Prosecco Colfóndo. Se ne fa poco. Non ci sarebbero mai stati - ritengo - i mezzi finanziari sufficienti per lanciarne la concettualità, per farlo diventare in qualche modo un brand. Sarebbe stato già difficile mettere assieme i pochi produttori, figurarsi trovare una sintesi per un'azione comune. Internet ha permesso di superare sia il gap finanziario che quello relazionale. Mettendoci un sacco di impegno personale. E facendo diventare il Colfóndo un tormentone che è rimbalzato un po' ovunque sul web. Contagio virale.
Ecco, sì, Bele Casel è l'esempio di come una piccola azienda possa utilizzare il web e trasformarlo in una formidabile leva di marketing per proporre e poi affermare il proprio brand. L'unico dubbio è la sostenibilità nel tempo di un'azione tanto intensa. Passata la fase di affermazione, sarà ancora possibile rilanciare?
Intanto, Luca si gode il posizionamento acquisito, il vantaggio competitivo. E il premio di Tigulliovino è un ulteriore elemento moltiplicatore della sua presenza sul web. Presenza raramente tanto sudata e meritata.

29 giugno 2011

Per far buoni vini dovremo tornare a rese più alte?

Angelo Peretti
Qualche volta di più vuol dire meglio. Capisco che, detta così, la frase sia un po' criptica. Però è la chiave del ragionamento che un produttore americano, Adam Lee della Siduri Wines e della Novy Family Winery, propone in una sua breve lettera pubblicata sul numero di metà giugno di Wine Spectator.
Lee prende lo spunto da un editoriale di James Laube ch'era uscito in aprile. Il titolo era: "Come abbassare alcol e prezzi". E ovviamente si faceva riferimento all'alcol e ai prezzi del vino. Tema oggi piuttosto sentito. "Eccola qui la maniera più semplice per i produttori per abbassare i livelli di alcol e far tornare indietro i prezzi: aumentare la quantità d'uva raccolta" scriveva Laube. Proprio così, aggiungo: se ci si ostina a produrre pochissima uva per ceppo, s'ottengono zuccheri così alti che per forza ne deriverà un sacco di alcol. E nel contempo, se l'uva è poca, anche il vino sarà poco, e allora per trovare l'equilibrio finanziario occorrerà tener alti i prezzi. Se invece si fa più uva, s'otterrà anche meno alcol, e il pareggio dei conti esigerà prezzi un po' più bassi. Ed è la quadratura del cerchio. Ovvio che il ragionamento è più complesso, e qui ne ho fatto un estratto un po' troppo sintetico. Però bisogna rifletterci, ed io comunque di questa faccenda ne sono convinto: finiamola con l'esasperazione nel vigneto.
Ora, che cosa aggiunge Adam Lee a questo ragionamento? Dice così: "Certamente se le rese sono troppo alte, la qualità ne può soffrire. Tuttavia, abbiamo anche visto annate (specialmente quando si ha a che fare con varietà a maturazione precoce come il pinot nero) nelle quali le rese erano troppo basse, e gli zuccheri scappavano avanti a discapito degli aromi. Delle produzioni più elevate di uva, quando sono ancora all'interno del ragionevole, possono talvolta permettere di attendere un po' di più prima della vendemmia ed ottenere così profumi più complessi".
Sottoscrivo: occorre pensarci. Basta marmellate alcoliche, per favore.

28 giugno 2011

Alsace Riesling Grand Cru Florimont 2003 Domaine Bruno Sorg

Mario Plazio
Una versione un po’ sottotono, forse anche qui ha il suo peso la famigerata annata 2003… Al naso è piuttosto reticente e disordinato, come fosse fuori fuoco. Probabilmente c’è un eccesso di solforosa, gli aromi sono inchiodati. Nonostante ciò fa capolino un pizzico di mineralità e il tipico petrolio, accanto ad ananas maturo.
L’ingresso è morbido e dolcino per la presenza di un residuo zuccherino, mentre nella seconda parte manca la giusta persistenza e l’acidità va per la sua strada.
Ad ogni modo il vino si fa bere con piacere e questo mi basta per il momento.
1 faccino e mezzo :-)

27 giugno 2011

E se anche nel vino il meglio fosse nemico del bene?

Angelo Peretti
Sul numero di giugno, la Revue du Vin de France pubblica un articolo di Olivier Poels che fa meditare. Si tratta di alcune sue "Riflessioni sul Bordeaux" che però potrebbero esser valide - e lo sono - per molte altre regioni vinicole al mondo, Italia compresa ovviamente. L'occhiello spiega già tutto o quasi: "La qualità dei cru non è mai stata così buona. Ma sembra che si sia imposta a discapito della diversità" e, accidenti, che sia la rivistona francese a parlar chiaro sui Bordeaux è già di per sé una notizia interessante. Ma il tema, dicevo, è universale: in tante aree vinicole gli standard qualitativi son certamente cresciuti, ma questa crescita ha portato a una diffusa omologazione produttiva, che ha fatto affievolire e a volte smarrire le mille sfaccettature del terroir.
L'autore del pezzo fa riferimento agli assaggi delle settimane bordolesi di presentazione della nuova annata e dice che, certo, la qualità generale dei vini prodotti non è mai stata così elevata, e così pure i prezzi, e l'ambiente non è mai stato così euforico. Ma anche a fronte di una situazione così idilliaca non si può fare a meno di sollevare qualche domanda. "L'uniformazione delle tecniche - si chiede -, il ricorso ai medesimi enologi o consulenti, la medesima ricerca estetica del profilo gustativo del vino non conducono Bordeaux verso un'armonizzazione generale? Una sorta di livellamento verso l'alto, che cancellerà tutte le imperfezioni, le originalità, in breve, ciò che costituisce la personalità di un cru".
Un signor interrogativo, questo qui, che - insisto - potrebbe essere riportato anche su altri ambiti territoriali, mica solo a Bordeaux.
"Degustare l'uno in fianco all'altro - aggiunge Poels - quindici Pauillac o venticinque Saint-Émilion ne è la perfetta illustrazione. Diventa praticamente impossibile identificare i cru. Lo scarto qualitativo che li separa si misura ormai, si può dire, in centesimi di secondo". E ci tiene a precisare che il suo non è mica un discorso reazionario, e che certamente non si rimpiangono i tempi del brettanomyces o delle acidità volatili mal gestite o degli acini poco maturi. "Certamente no" dice. Però mano a mano i vini si son fatti troppo simili l'uno all'altro. E in fondo al suo pezzo, Poels ricorda quel che diceva Voltaire: "Il meglio è nemico del bene", e dice che dopo aver degustato qualche centinaio di Bordeaux dell'eccellente annata 2010 è difficile non sottoscrivere quest'adagio.
Ecco, sì, temo anch'io che il meglio a tutti i costi finisca per essere nemico del bene, mica solo a Bordeaux. E nel mondo del vino la ricerca sfrenata all'ottimizzazione enologica ha finito molto spesso per portare a fare i vini con lo stampino. Ottimi tecnicamente e anche igienicamente, ma tante volte senz'anima. Fatti in fotocopia. Vini Rank Xerox. Siamo sicuri che è proprio questo che vogliamo?

26 giugno 2011

Signorina Teresa!

Il nostro povero Andreas viene portato dunque nella sagrestia, e purtroppo non riesce più a parlare, fa solo un gesto come per toccarsi nella tasca sinistra interna della giacca, dove è il denaro che deve alla piccola creditrice, e dice: "Signorina Teresa!", dà il suo ultimo sospiro e muore.
Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella!
Joseph Roth, "La leggenda del santo bevitore", Adelphi 1988

25 giugno 2011

Da Maria - Fano (Pesaro e Urbino)

Angelo Peretti
Se vi piace il pesce di mare - e quando dico pesce intendo quello con le pinne e la coda e le squame, ché gli altri sono molluschi o crostacei -, ecco, in questa trattoria di Fano prima o poi dovete andarci, perché - ascoltatemi - la Maria è un genio. Insomma, da lei ci ho mangiato del pesce che era delicatissimo e si scioglieva in bocca e sapeva di mare. Ed era pesce di quello che spesse volte gli altri neppure prendono in considerazione: roba "minore", dal nome in dialetto, che non finisce neanche sui banchi della pescheria. La Maria ha il "suo" pescatore che glielo porta, e lei cucina solo "quello che ha dato il mare" in quella giornata, nient'altro. Per questo qui non c'è menù: si mangia quello che c'è, e quello che c'è è straordinario.
C'è, chiaro, anche qualche crostaceo - canocchie e scampi anche quelli di freschezza perfino disarmante - e se vi capita magari anche le lumachine di mare. Ma è il pesce che più di tutto mi ha entusiasmato. Ed ho avuto anche la buona sorte di potermi godere il brodetto fanese, dentro alla pentola di coccio, e ci ho fatto la scarpetta col pane più volte.
Vini di territorio, a prezzi onesti (bella l'idea di mettere nella lista i depliant dei produttori). E un servizio che è davvero familiare, a cura di Domenica, la figlia.
Non dimenticatevi di prenotare con largo anticipo. E se vi dicono che non sanno se c'è posto insistete. Ma sappiate che in ogni caso se la notte il mare non ha dato nulla, non si mangia: dunque, ritelefonate prima di partire. E se ci capitate, credo ne sarete felici.
Da Maria - via IV Novembre, 86 - Fano (Pesaro e Urbino) - tel. 0721 808962

24 giugno 2011

Che fine hai fatto terroir?

Angelo Peretti
La domenica, e poi man mano un po' durante la settimana, mi concedo il piacere della lettura del supplemento culturale del Sole 24 Ore: il domenicale, con le sue dotte rubriche, vale proprio la pena approfondirlo. Sull'edizione di domenica 19 giugno c'era un elzeviro di Vincenzo Cerami sullo stato della letteratura in Italia. Titolo: "Che fine hai fatto letteratura?"
Perché ne parlo qui? Perché credo che il parallelismo fra quanto scrive Cerami sulla letteratura italiana e quanto accade nel mondo del vino sia piuttosto evidente.
Dice Cerami: "Mi passano tra le mani centinaia di libri dei miei connazionali, spesso molto interessanti per i temi affrontati. Si leggono con una certa sveltezza, non si dilungano in divagazioni, si esprimono in un campo lessicale piuttosto agile ed essenziale, utilizzano una lingua denotativa che tende a omologarli sul piano dello stile. Il lettore fa pochi sforzi, prende per buoni i caratteri dei personaggi, delineati più tramite l'oggettività delle azioni e dei comportamenti che attraverso la menzogna dei pensieri, anzi della lingua dei loro pensieri. Così risultano accattivanti i romanzi e i racconti che hanno trame elaborate e ricche di rimandi e indizi. All'aumento, fin troppo vertiginoso, di raccontatori di storie, corrisponde una visibile diminuzione di letteratura. Ho sempre pensato che spezzare ogni rapporto tra gli uomini e la lingua che li racconta vuol dire togliere alla Storia ogni responsabilità sul loro vissuto".
Testo magistrale, nel quale vedo molte analogie con la situazione attuale del mondo del vino. E per chi queste analogie faticasse a vedercele, propongo qui di seguito il medesimo testo con qualche ritocco capace - spero - di renderlo compatibile con l'argomento enoico (e me ne scuso con Cerami se ho osato tanto).
Ordunque: "Mi passano tra le mani centinaia di bottiglie dei miei connazionali, spesso molto interessanti per i territori e i vitigni di origine. Si assaggiano con una certa sveltezza, non si dilungano in divagazioni, si esprimono in un campo organolettico piuttosto agile ed essenziale, utilizzano una lingua enologica denotativa che tende a omologarli sul piano dello stile. Il degustatore fa pochi sforzi, prende per buoni i caratteri aromatici, delineati più tramite l'oggettività della struttura e della concentrazione del frutto che attraverso la menzogna dei pensieri, anzi della lingua dei loro pensieri. Così risultano accattivanti i rossi e i bianchi che hanno trame tanniche o acide elaborate e ricche di aromi fruttati e di morbidezza. All'aumento, fin troppo vertiginoso, di produttori di vino e di enologi, corrisponde una visibile diminuzione di espressione del terroir. Ho sempre pensato che spezzare ogni rapporto tra gli uomini e il vino che li racconta vuol dire togliere al terroir ogni responsabilità sul loro vissuto".

23 giugno 2011

Esportare o disintermediare?

Angelo Peretti
Esportare o non esportare? Questo è il problema. Già, perché ci stanno facendo una testa così sul fatto che l'America è il Grande Mercato del vino e che se non sei a Hong Kong non sei nesuno e che la Cina è la Cina e che insomma bisogna esportare, solo esportare, inesorabilmente esportare, pena la morte enoica.
Illuminante è però la rilettura di un articolo che Andrea Dal Cero ha scritto per La Madia di maggio. Dice: "In un futuro prossimo le dinamiche distributive saranno in buona parte riviste: ci sarà molto da teorizzare e soprattutto da realizzare. Il frazionamento della domanda, la riduzione dei consumi e soprattutto la diminuita capacità d'acquisto del consumatore, richiedono strutture di distribuzione elastiche e ramificate sul territorio nazionale. L'offerta è grande e la domanda è specializzata: fare incontrare il consumatre con il suo vino preferito è un'arte che sta diventando scienza. Esportare, anche se inevitabile, prestigioso e lodevole, costa: se il vino si vendesse sul territorio di produzione tutto costerebbe meno e il mondo sarebbe più pulito".
Ora, vorrei fare qualche commento mio.
Dico subito che non credo si viva nel migliore dei mondi possibili, e penso anch'io che esportare sia "inevitabile", anche perché tutta la domanda di vino italiano non basta a svuotare le nostre cantine. Però, nel mentre la vedo una scelta obbligata per la grande impresa vinicola, privata o cooperativa che sia, ho dei dubbi per la piccola cantina. Credo che nel caso dei piccoli, più che "esportare", la parola d'ordine possa e debba essere "disintermediare".
I margini si stanno erodendo, i prezzi non crescono, e allora non vedo che una via: abbattere i costi. E i costi non sono quelli di produzione, visto che se si vuol competere con un'offerta spaventosa occorre che la qualità sia alta, e la qualità costa in termini di produzione. I costi che si possono ridurre sono solo quelli di distribuzione, e ci riesce solo avvicinando l'acquisto al luogo di produzione. Il mercato interno sarà anche meno profittevole, ma ha costi minori, e dunque alla lunga diventa più profittevole, se ci si organizza in questa direzione. Esportare costa tanto, tantissimo: non è che per i piccolini che non dispongono di sufficiente massa critica per beneficiare delle sinergie di scala, alla fine i costi dell'export superano i benefici?
L'ideale, poi, sarebbe vendere tutto direttamente in cantina. Ma per far questo bisogna, ancora una volta, organizzarsi. Ma prima ancora bisogna crederci. Parole come "enoturismo" sono per ora solo concetti da convegni e libri. Non c'è niente da fare: i produttori di vino ne parlano, ma poi non ci credono. Occorrerebbe cominciare ad essere accoglienti per davvero, e l'accoglienza non sta nella costruzione di una moderna sala da degustazione affacciata sui vigneti. Sta nella disponibilità verso l'ospite. Ed è un atteggiamento culturale, prima che una sommatoria di comportamenti codificati.
Disintermediate, gente.

22 giugno 2011

Grandi Vigne: il vino dell'Iper

Angelo Peretti
Certamente a chi mi legge non gliene importerà granché, ma dico lo stesso che una delle esperienze che mi piacerebbe fare è quella di costruire una linea di vini a private label per la grande distribuzione. Sissignori: quei vini che vanno in bottiglia col marchio del supermercato.
Questa storia dei vini con la marca della gdo mi intriga parecchio. Credo sia una delle prospettive del vino di qualità. Avete letto giusto: di qualità. Perché nelle bottiglie a private label non ci si mettono vini ordinari, signornò. Ci si mette roba buona, perché ci va di mezzo la reputazione della catena. E in più quel vino fa da benchmark per il prezzo, e non è mai un prezzo bassissimo: di sotto ci stanno i vini più ordinari, di sopra le eccellenze.
C'è in particolare una linea che mi sta interessando un bel po': quella dei vini delle Grandi Vigne dell'Iper. Sul sito si legge così: "Iper La grande i è la prima catena delle grande distribuzione in Italia ad aver creato una linea esclusiva di etichette 'di filiera', Grandi Vigne, che propone l'eccellente qualità  dei migliori viticoltori italiani". E i vini sono apprezzabili. Ma soprattutto a rendermi curioso è l'idea che c'è sotto. E l'idea è questa: selezionare qui e là per l'Italia dei vignaioli che facciano buoni vini a denominazione, e chiedere loro di imbottigliare a marchio Grandi Vigne (unica eccezione, mi pare, per il Lambrusco, per le quali il riferimento è la cooperazione). Dietro, sulla retroetichetta, il produttore viene citato espressamente.
Ho acquistato e provato una serie di bottiglie dell'Iper a marchio Grandi Vigne. Qui sotto le mie impressioni. In ordine di gradimento.
Colli Aprutini Pecorino Vallefino 2009 Grandi Vigne - San Lorenzo Vini
Davvero un lietissima sorpresa, un bianco da acquistare a botta sicura. Frutto croccante, freschezza, persistenza. Da comprare.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Montepulciano d'Abruzzo Plavignano 2009 Grandi Vigne - San Lorenzo Vini
Qualcuno potrebbe trovare un po' scorbutica l'acidità, ma in tavola va benone. Un bel frutto, nitido: ciliegia, mora, prugna. E il giorno dopo, a bottiglia aperta, è in perfetta forma.
Due lieti faccini molto abbondanti :-) :-)
Treviso Prosecco Extra Dry Val del Galinel Grandi Vigne - Il Colle
Un extra dry che si fa bere assai piacevolmente. Morbidezza ben gestita. Pera e un finale mandorlato. Mica male davvero.
Due lieti faccini :-) :-)
Frascati Superiore Secco Giunone Regina 2010 Grandi Vigne - Tenuta di Pietra Porzia
Un bianco ben eseguito. Floreale. Frutti gialli. Buona freschezza. Buona struttura.
Un faccino e quasi due :-)
Bonarda dell'Oltrepò Pavese Frizzante I Grimani 2010 Grandi Vigne - La Travaglina
Nel suo genere, sa il fatto suo. Spuma ben gestita, tannino, prugna, ciliegia. Rosso mosso da grigliate all'aperto.
Un faccino e quasi due :-)
Trebbiano d’Abruzzo Brecciaro 2009 Grandi Vigne - San Lorenzo Vini
Si lascia bere con semplicità e facilità.
Un faccino :-)
Barbaresco Vallera 2006 Grandi Vigne - Adriano Marco e Vittorio
Apprezzo solitamente parecchio il lavoro degli Adriano, ma questa bottiglia l'ho trovata magrolina, poco espressiva. Si beve, ma senza grandi slanci.
Un faccino scarso :-)

21 giugno 2011

Bourgueil Les Perrières 2000 Catherine et Pierre Breton

Mario Plazio
Una coppia di produttori appartenenti alla categoria dei "naturalisti". Niente pesticidi in vigna, molta attenzione alle piante, niente lieviti e pochissima o nulla solforosa a seconda della cuvée.
Questo cru di Burgueil, nel cuore rossista della Loira, rende bene fin dal nome l’idea del vino che troveremo in bottiglia. Si sente appunto il minerale, il sasso, il catrame. Una leggiadra nota vegetale, tipica della varietà (il cabernet franc) resta molto delicata in sottofondo. A tratti esce un aroma di pietra focaia che potrebbe far pensare più a un bianco che a un rosso.
Splendida la bocca, setosa, tutta confettura di fragola, pesca e viola. E poi l’acidità, quella che mi fa tanto amare bianchi e rossi di questa zona della Francia. Lungo vivo e dinamico, termina sul tartufo, sui fiori e su una ampia balsamicità.
Tutta la sottigliezza e la piacevolezza che amo ritrovare nei grandi vini.
Tre faccini :-) :-) :-)

20 giugno 2011

Non si vende vino col web

Angelo Peretti
Ecco, lo so, farò la figura dell'arrogante, ma mi viene proprio da dirlo: "Ma va?" Sì, perché ho letto su WineNews la sintesi di una ricerca presentata a Vinexpo sul rapporto tra vino e social network. E il risultato, in sintesi estrema, è che "Facebook, Twitter e gli altri aiutano a costruire e far conoscere il marchio, ma pesano poco sulle vendite dirette".
Questa la notizia così come si legge su WineNews: "I social network aiutano molto a far circolare e costruire il valore di un marchio, ma in termini di vendite di vino on-line, se non in casi eccezionali, aiutano poco. Lo dice una ricerca di Forrester Research e Gsi Commerce, pubblicata da Vinexpo (Bordeaux, 19-23 giugno): tra novembre e dicembre 2010, i social network come Facebook e Twitter hanno fatto scattare l’acquisto solo nel 2% dei casi. Gli utenti sembrano, invece, molto più propensi all’acquisto stimolato dal social network in caso di promozioni o vendite flash, che ottengono fino al 7% in più quando vengono veicolate così".
Ora, mi permetto di tornare indietro di qualche mese. A novembre dell'anno passato. Quando ci fu a San Michele all'Adige, terra trentina, un "live blog" sul rapporto fra vino e internet. Ero stato invitato tra i relatori. Un po' provocatoriamente e un po' no, dissi la mia, ponendo una domanda: "Il vino è compatibile con Internet?" Risposi così: "Pur coinvolgendo una pluralità di valori immateriali, il vino è pur sempre un bene materiale: se il vino va assaggiato, degustato, bevuto, posso 'sostituire' tali esigenze 'fisiche' con uno strumento tipicamente immateriale come Internet? Probabilmente, la risposta è no".
Le reazioni, quel giorno e nella settimana successiva, non si fecero attendere, e insomma passai quasi per un oscurantista. E allora rincarai la dose con un mio successivo intervento su quest'InternetGourmet, dicendo che no, il web, strumento immateriale, non è adatto a promuovere "il vino", bene materiale. Riaffermai che la materialità si promuove attraverso la fisicità del rapporto. Con l'assaggio, nel caso del vino. Tasto un vino e dico se mi piace o no e decido se comprarmelo o no. E allora il web a cosa serve, mi trovai a chiedere? E mi risposi che serve a promuovere qualcosa di immateriale. E cos'ha di immateriale il vino? La risposta è semplice: ha la propria cultura. Ecco, in questo il web è utilissimo e addirittura direi in questo momento essenziale: per promuovere la cultura del vino.
Ovviamente, anche questa volta non trovai concorde il popolo del web. Epperò oggi ecco 'sta notizia che viene da Bordeaux, e mi trovo in sintonia: via web si promuove l'immaterialità, e dunque - per esempio - il marchio di un'azienda, oppure, aggiungo, il brand costituito da una denominazione, o ancora l'idea d un territorio vinicolo, la filosofia di un vigneron. Il vino no, il vino - bene fisico, materiale - non si vende col web. E la ricerca illustrata al Vinexpo sembra che mi dia una qualche ragione. Sembra. A meno che gli intervistati fossero tutti oscurantisti anche loro.

19 giugno 2011

Il Nereo vince con l'Archévitis

Angelo Peretti
Trattandosi oltretutto di un amico, la notizia mi fa ancora più piacere. La notizia è che un lungometraggio di Nereo Pederzolli, giornalista del Trentino - e direi a tutti gli effetti giornalista-gourmand - è stato premiato alla diciottesima edizione del "Festival international des films et photographies sur la vigne et le vin" ad Arbois, nel Jura, terra che fa tra l'altro vini che adoro. La terra dei Vin Jaune.
Il lungometraggio vincente s'intitola "Archévitis": è un documentario diretto dal Nereo e prodotto da Sirio Film, "un viaggio alle radici della vite, nei luoghi del Caucaso dove la vitis vinifera ha dato il via a tutte le moderne varietà". Le parole virgolettate le ho prese dalla notizia che mi ha girato proprio il Nereo su Facebook. Dove aggiunge che il film mira a "ricostruire il percorso della vite puntando principalmente sul marzemino. E farlo attraverso documentazione storica e scientifica, nelle tappe da Tbilisi a Isera".
Bravo Nereo.

18 giugno 2011

Ma lo sapete che nei vini igt...

Angelo Peretti
Si tratta di una rivista tecnica. Anzi, tecnicissima, da addetti ai lavori, e mica sempre riesco a capire tutto quel che provo a leggerci. Per esempio, sull'ultimo numero che ho ricevuto non sono riuscito ad addentrarni nella dissertazione sulle nuove tecniche di filtrazione dei vini passiti, ma io non sono certamente un enologo. Perché, ecco, sì, la rivista è L'Enologo, il mensile dell'Associazione enologi enotecnici italiani, che l'Assoenologi mi invia a domicilio, e gliene sono grato, trovandola utilissima.
Sul numero di maggio de L'Enologo c'è un interessantissimo articolo - tecnico, ovviamente - sulle risposte che l'Assoenologi ha fornito ai quesiti posti dai soci. Una delle risposte, in particolare, m'ha fatto riflettere, e credo possa essere interessante riportarla.
Ordunque, il quesito era questo: "Un vino Igt (ad esempio del Veneto) può essere tagliato con un vino rosso generico C2 (proveniente da qualsiasi regione) o deve essere tagliato con un vino rosso della stessa regione (nel mio caso con un rosso del Veneto)?"
Bella domanda, e credo che la risposta possa interessare parecchio anche i consumatori. Perché son cose a cui in genere non si pensa, ma che può invece essere utile sapere.
Ordunque, la risposta è questa: "Un vino a Igt deve essere ottenuto, per almeno l'85%, esclusivamente da uve provenienti dalla zona geografica di cui il vino porta il nome. Il restante 15% può provenire da altre zone geografiche, purché situate nel territorio italiano (Art. 6/2, Reg. Ce 607/2009).
Ora, so che qualcuno rischia di essere bazato sulla sedia: il 15% può arrivare da ogni parte d'Italia. Però il 15% non è poco, e dunque qual è la caratterizzazione geografica di un vino a indicazione, appunto, geografica?
Adesso provo a ragionare per assurdo. Prendo per esempio l'igt "delle Venezie". Già di per sé, la zona di produzione è amplissima. Comprende tutto il Veneto e poi il Friuli Venezia Giulia e anche alcuni comuni della provincia autonoma di Trento. Mica poco, ammetterete, come estensione. E dunque, un Cabernet igt delle Venezie può esser fatto, se si vuole, con uve che vengono - che so - un po' da Verona, un po' da Vicenza, un po' da Treviso, un po' da Trieste, un po' da Trento. E come se non bastasse ci si può mettere dentro anche un bel 15% di Cabernet - che so - siciliano o toscano.
Fossi un produttore e volessi darmi un'immagine di qualità, forse ci penserei su prima d'imbottigliare sotto qualche igt. Tanto vale imbottigliare a marchio proprio come vino da tavola. Pardon: vino, ché il "da tavola" non si deve più scrivere in etichetta.

17 giugno 2011

Bourgogne Aligoté 2009 Jean-Luc e Paul Aegerter

Angelo Peretti
Ecco, sì, insomma, devo dirlo: non avevo mai bevuto prima un Aligoté. Perché pensavo che fosse il fratellino minore dei Borgogna fatti con lo chardonnay (e questo invece è fatto col meno blasonato vitigno dell'aligoté, appunto) e che non valesse quasi la pena di bere 'sto vinello bianco. Confesso che quello degli Aegerter l'ho comprato solo perché l'ho trovato in offerta. E me ne vergogno. Perché invece da adesso in posi sarò un fan dell'Aligoté. Anche senza bisogno di correggerlo col cassis per farci il kyr.
Di cosa sa 'sto vino? Boh, forse di mela verde, la Granny Smith, che prima di tutto è acidula, e forse è solo acidula, e per il resto è pressoché neutra, tant'è che la si usa (la uso) come intermezzo tra un olio e l'altro in degustazione, capace com'è di cancellare ogni traccia dell'extravergine che precede.
E allora perché ne sono diventato un fan, dell'Aligoté, se è così lineare? Come spiego il colpo di fulmine? Perché, appunto, è un vino di una freschezza straordinaria, ed è secchissimo e un bicchiere tira l'altro, ché non ci hai quelle melense vene aromatiche da lieviti selezionati che ormai trovi pressoché ovunque nei bianchi.
Ecco, sì, è un bianco immediato, diretto, affilato. O ti piace o non ti piace. A me piace, e lo trovo un aperitivo eccellente.
Mi riprometto di investigare meglio in mondo per me semisconosciuto degli Aligoté. Intanto, invento una definizione per questo che ho bevuto: un perfetto vino minimalista.
Due lieti faccini :-) :-)

16 giugno 2011

Maurizio e i big value wines delle cantine sociali

Angelo Peretti
Maurizio Gily è una persona seria, che scrive di cose serie in modo serio, e un'introduzione del genere magari rischia di non giovargli, ma la penso così. Scrive di vigne, di agronomia, di temi vitivinicoli. È il direttore di una rivista piuttosto tecnica (ma mica solo tecnica) come Millevigne. E ho letto un suo intervento sull'ultimo numero di Slowfood (tutt'attaccato), il periodico di Slow Food che viene spedito ai soci. Scrive di cantine sociali: "La cooperazione non è morta", titola, e se non siete soci Slow ma volete leggere per intiero il pezzo ugualmente, potete andare a scaricarlo dall'archivio on line della rivista: quando vi si apre il sommario, basta cliccare sul titolo dell'articolo.
Quello di Maurizio è un excursus tutto da leggere sulla nascita e sull'attualità del sistema cooperativo del vino in Italia. Breve, ché chi le cose le sa, mica ha bisogno di tanto spazio per esprimerle. Ricorda giustamente - ed è giusto ricordarlo, perché spesso si corre il rischio di dimenticarsi di questo concetto primario - che "lo schema della società cooperativa, in tutti i settori, è quello di una società di persone prima che di capitali" e che "prevede la partecipazione di ogni socio al voto in assemblea", e dunque gli amministratori di una cooperativa rispondono a loro, ai soci. Talché, pur prevedendo gli statuti il diviedo di distribuzione degli utili, "in verità, se ci sono utili e non sono reinvestiti né portati a riserva, il modo di distribuirli si trova facilmente: nel caso di una cantina sociale basta aumentare il valore delle uve conferite e pagarle di più". E i soci son contenti. Il problema è che "c'è stato anche chi, in questo modo, ha distribuito utili che non aveva, e qualche recente notizia di cooperative in difficoltà è da ricondurre a simili disattenzioni..."
I problemi, qui da noi, sono anche altri. Per esempio, nelle cantine sociali "è comunque molto più facile introdurre innovazioni nella vinificazione che non agire sul comparto agricolo, condizionando il modo di produrre dei soci, visto che questo sfugge al controllo della direzione aziendale". L'imposizione di decisioni dall'alto non funziona, nelle cooperative. E dunque ci vogliono pazienza e dialogo. Ripeto: si tratta di società di persone, e le persone vanno convinte, non obbligate. L'autorevolezza non si ottiene con l'imposizione dell'autorità.
Altro problemuccio mica da poco è che è duro a morire il luogo comune che le cantine sociali producano vini a basso prezzo e di bassa qualità. Per carità: casi del genere non sono così rari, ma ci sono anche straordinarie eccellenze. Ma per fare vera qualità si torna al tema precedente, la vigna. "Il settore più avanzato della cooperazione - dice Maurizio - sta tuttora attraversando una rivoluzione nella quale l'innovazione tecnologica è un aspetto importante ma non prioritario, a fronte del vero nodo della questione: il cambio di mentialità dei soci, che consente di produrre non più 'dell'uva', ma uva con le caratteristiche giuste per il vino-obiettivo". Ma "le molte aziende che l'hanno fatto o lo stanno facendo faticano ancora a emergere nella considerazione dei consumatori, almeno quelli di fascia alta, e dei critici, perché chi lavora bene sconta il danno di immagine dovuto a chi lavora male e a un passato in cui questo male era assai più diffuso".
Non c'è dubbio: è un errore quest'atteggiamento di "disattenzione" verso i vini delle cantine sociali. Perché, come osserva Gily - e condivido in toto - "oggi non ha più senso parlare di vini della cooperazione come di una categoria: come ovunque ce ne sono di eccellenti, di medi e di scadenti. Una denominatore comune è che, in genere, quelli eccellenti costano meno dei loro concorrenti 'privati': il fatto di non avere il profitto come missione qualcosa vuole pur dire. Il che fa di questi prodotti, come direbbero in America, dei big value wines".
Ecco, è lo slogan giusto: "big value wines". In italiano dovremmo dire "vini dal grande rapporto qualità-prezzo", ma suona male. In questo caso sì, suona meglio l'inglese.
Bravo Maurizio.

15 giugno 2011

Colli Orientali del Friuli Tocai Friulano Vigneto Storico 2006 Gigante

Mario Plazio
Ogni tanto mi diverto a prendere qualche etichetta celebrata e premiata da guide e guidine. Ho aperto in questi giorni uno di questi vini, il Tocai Friulano Vigneto Storico di Gigante. È a mio personalissimo avviso paradigmatico di un certo tipo di viticoltura friulana, che si sta sempre di più allontanando dal mio ideale enoico. Massiccio, alcolico (15°!), pesante, monolitico. Insomma, un vino che faccio fatica a bere.
Ma i friulani non hanno mai sentito parlare dei vinini?
Un faccino scarso :-)

14 giugno 2011

Valpolicella e Big Mac: oh, yes!

Angelo Peretti
Ve la ricordate quella scena di Sideways in cui Miles, ferito nei sentimenti, prende la bottiglia di Cheval Blanc del '61 - un mito! - che conservava gelosamente e va a bersela in un fast food, dentro a un bicchiere di carta? Oh, sì sì: non sono un cultore del cinema, ma quella scena lì è un capolavoro. Drammatico. Uno Cheval Blanc del '61 in un bicchiere di carta, accidenti!
Ecco, non dico di arrivare a cose del genere, però la domanda che si pone il portale americano Snooth è di quelle giuste, ed è giusta anche la risposta: "So what could be better than a Big Mac? A Big Mac and a glass of wine!" Traduco, per i pochi che non masticano l'inglese: "Ordunque, che cosa potrebbe esserci di meglio di un Big Mac? Un Big Mac e un bicchiere di vino!" E il Big Mac in questione è proprio quello, il paninone-one-one di McDonald's.
Oh, fate i seri: non stracciatevi le vesti, adesso, perché parlo del Big Mac. Tanto lo so che ci siete stati anche voi - di nascosto, con gli occhiali neri e i baffi finti - a mangiarvelo da McDonald's. E se, nonostante il travestimento, vi avessero scoperti, avreste avuto la scusa pronta: "Sono venuto a comprarlo per mio nipote..." Ma va là: ammettilo che ti piace, il Big Mac. In fondo, una volta all'anno è concesso dar via di testa, dicevano i latini, e allora mica bisogna farsi tanti problemi.
Solo che ha ragione Snooth: meglio metterci assieme un bicchiere di vino, e in questa maniera "si può prendere un puro e semplice takeout e trasformarlo in un pasto vero". Oh, yes!
Così, i redattori di Snooth hanno scelto una serie di vini e li hanno provati in abbinamento con le cose che si comprano da McDonald's. E per il Big Mac hanno scelto un fresco Valpolicella "base" 2009 di Bertani e un più strutturato Merlot Reserve Red Rock del 2008, from California. Perché l'uno si abbinava, appunto, per la sua freschezza e l'altro per il frutto. E son d'accordo che i due stili di rosso potevano andar bene entrambi.
Ebbene sì: sdoganiamo il Big Mac. Con un buon bicchiere di rosso (il bianco no, e neppure il rosato, ché con le salse diventerebbero metallici: rossi ci vogliono). Confesso: già fatto anch'io. Mica difficile, poi, indovinare che rosso fresco ci ho messo, visto che sto sulla sponda veneta del lago di Garda...

13 giugno 2011

C'è chi vorrebbe già bere vini del 2011

Angelo Peretti
Su "Io Donna", magazine del Corriere della Sera, sabato c'era un servizio di moda che diceva: "Nelle vetrine si vede già l'autunno". E spiegava, "per cominciare", le quattro tendenze fashion che stanno emergendo: stampe, maglierie, tessuti, colori.
Già, non è ancora estate e il made in Italia dell'abbigliamento mette già in mostra l'autunno, cercando d'intercettare chi soffre di bulimia da novità, chi vorrebbe apparire sempre un passo avanti degli altri.
Anche al ristorante, c'è chi vorrebbe di già i vini del 2011. Esagero? Provate a chiedere a qualche ristoratore.
Si vive d'apparenza.

12 giugno 2011

Abbiamo sorpassato la Francia e me ne preoccupo

Angelo Peretti
E così nel 2010 abbiamo fatto più vino dei francesi. Noi 49,6 milioni di ettolitri, loro "solo" 46,2. Così li abbiamo sorpassati: tié!
Il proclama è uscito sui media nazionale. Sul sito del Corriere della Sera leggo che è un "sorpasso storico". Sul sito di Repubblica vedo che siamo diventati il numero uno "sfilando il primato finora detenuto dalla Francia".
Però non riesco a essere così contento della notizia, perché, a pensarci, tutta quella roba lì che abbiamo messo in cantina adesso bisognerebbe anche venderla, e non mi risulta che ovunque in Italia siano rose e fiori e che le cantine siano vuote. Anzi.
Produrre tanto mica sempre è positivo. Perché poi o ti resta lì il vino o sei costretto a svendere. E a volte sono vere tutte e due: svendi, ma nonostante questo ti resta lì il vino, e sono guai. E in certe parti d'Italia, infatti, sono guai. Lo erano prima, potrebbero esserlo di più ora. Spero di no, ma non mi sento ottimista.
Dice il Corriere, riferendosi al "sorpasso", che "il risultato è il frutto di una sostanziale stabilità della produzione in Italia e di un calo in Francia". Domando: non è che i franzosi invece siano stati più furbetti di noi, e per sostenere il prezzo dei loro vini abbiano prodotto di meno apposta? Il dubbio magari mi viene. E se fosse vero, non sarebbe stato male che ci avessimo pensato anche noi. Con la crisi che c'è, magari è meglio togliere il piede dall'acceleratore e lasciarsi sorpassare. Che le rogne se le cucchino gli altri. Ma mi auguro di avere torto.

11 giugno 2011

Soave Classico Monte Fiorentine 2008 Cà Rugate

Mario Plazio
Da sempre il Monte Fiorentine è per me un punto di riferimento per i bianchi di Soave e, aggiungo, per i bianchi italiani in generale. Questo 2008 è a mia memoria uno dei più eleganti e slanciati che mi sia capitato di bere. Questo senza incappare in magrezze o mancanze di polpa.
C’è poco da dire: ha uno stile lineare, pulito e conferma la sua razza assoluta. Ancora molto giovane, esibisce però fin da subito il lato minerale del suo carattere, e affianca tutta una serie di aromi che non debordano mai nell’eccesso di maturazione o nelle scorciatoie di una tecnica fine a se stessa. Il naso propone mandarino, pesca, salvia e dopo qualche ora anche una bella nota terrosa che ne aumenta la profondità. Asciutto e sapido si fa bere che è un piacere, e questo penso sia un gran complimento per qualsiasi bottiglia.
Tre faccini :-) :-) :-)

10 giugno 2011

Friuli Venezia Giulia: non solo vino

Mauro Pasquali
Vi sono tre piante che caratterizzano più di altre l’areale mediterraneo: la vite, il leccio e l’ulivo e tutt’e tre crescono in zone a clima temperato caratterizzate da inverni miti. La vite, in verità, si è molto ben adattata anche in climi rigidi, mentre le altre due specie, forse più delicate, forse meno adattabili, non hanno goduto della stessa possibilità. Parrà quindi molto strano trovare dei lecci a Osoppo, una trentina di chilometri a nord di Udine, ben al di fuori di quello che abitualmente è considerato un “ambiente mediterraneo”. Eppure quei lecci che troviamo sul Colle di Osoppo non sono l’unica testimonianza di mediterraneità del Friuli: nella stessa Osoppo ma anche poco più a sud, a Buttrio e Cividale del Friuli o a est, a Nimis, non è infrequente imbattersi in oliveti coltivati, testimonianza di una produzione di olio d’oliva, altra caratteristica del mondo mediterraneo, non legata al semplice consumo familiare.
In Friuli Venezia Giulia si dice olio extravergine d’oliva e subito si pensa al Carso, al golfo di Trieste. Eppure anche là, sulle colline a ridosso di Udine cominciano a farsi strada alcuni piccoli produttori di qualità. Oddio, i numeri non sono sicuramente quelli delle grandi estensioni delle regioni centrali e meridionali d’Italia ma, se la qualità non si misura a quintali d’olio bensì in base al risultato ottenuto, con un occhio o forse anche tutt’e due alla integrità e salvaguardia del territorio, ecco: gli oli di queste zone che ho potuto assaggiare recentemente, nulla hanno da invidiare ad altri e ben più famosi prodotti “mediterranei”.
Cinque oli rappresentativi di tre delle quattro province della regione. Uno di questi può fregiarsi della dop Tergeste, che caratterizza la produzione di alcuni comuni della provincia di Trieste e impone l’uso per almeno il 20% della cultivar bianchera, specie locale diffusa anche in tutta l’Istria. Tutti, dop o meno, sono caratterizzati, pur in un’annata non felice come il 2010 per la produzione di olio d’oliva, da un buon risultato qualitativo.
Olio extravergine di oliva - Castelvecchio - Sagrado (Gorizia)
Profumi delicati di frutto e ortaggi freschi, con vaghi ricordi di nocciola. Bocca inizialmente dolce con amaro e piccante sullo sfondo. Finale di oliva e mandorla mature. L’olio che, forse, più ha scontato l’annata infelice e la raccolta in parte tardiva.
Un faccino :-)
Olio extravergine d’oliva - Fior Rosso - San Dorligo della Valle (Trieste)
Grande pulizia al naso con sentori di ebra fresca, foglia di pomodoro, mela verde. In bocca gioca fra dolcezza e amarezza con prevalenza di quest’ultima, mentre la piccantezza rimane sullo sfondo. Finale gradevole e pulito con richiami alla noce.
Un faccino, quasi due :-)
Olio extravergine di oliva - Venturini Remo - Osoppo (Udine)
Olio fruttato medio con sentori di cardo, foglia di pomodoro e vaghi accenni di mandorla verde. In bocca equilibrio fra dolcezza, amarezza e piccantezza, con leggera prevalenza di quest’ultima. Nel finale bel ritorno della mandorla verde con finale pulito.
Un faccino :-)
Olio extravergine d’oliva - Petrossi - Nimis (Udine)
Due giovani ragazzi per un buon olio ma che, soprattutto, fanno ben sperare per il futuro dell’olivicultura in Friuli. La bianchera è evidente ma rimane quasi inespressa causa la giovinezza delle piante. Un olio equilibrato, con piacevoli sentori di cardo, foglia d’oliva. Finale molto gradevole e lungo.
Un faccino, quasi due :-)
Tergeste dop Lenardon - Lenardon - Muggia (Trieste)
Naso fruttato intenso (la bianchera in purezza è evidente) con ricordi di forglia di pomodoro e mela. Entrata potente con una bella amarezza che subito si fa notare e con la piccantezza che emerge graduale ma decisa. Note di carciofo, foglia di pomodoro per un finale di noce e nocciola straordinario. Un grande olio con un retrogusto che lo fa ricordare anche a distanza di molto tempo.
Due faccini, quasi tre :-) :-)

9 giugno 2011

Forse la struttura: ecco il problema

Angelo Peretti
Chi frequenta con maggiore assiduità queste mie pagine on line, probabilmente sa che sono un fan di Enogea, il "bimestrale indipendente" in stile fanzine rock di Alessandro Masnaghetti. La considero la più bella pubblicazione enoica che si stampi in Italia. Bella non già esteticamente, ché anzi è piuttosto minimalista nell'impaginato (e anche nella copertina, tutta gialla), ma come contenuti. In particolare, ne apprezzo la grande coerenza: chi legge il Masna, oppure il suo sodale Falco (al secolo Francesco Falcone), sa esattamente come pensano il vino, e questo non è poco. Anche se magari io amo un tipo di vino un po' diverso, meno esposto nel tannino, meno robusto nella struttura, più nervoso nella vena acida. Ma è questione di gusti.
Trovo in ogni caso spesso illuminanti le cose che si leggono su Enogea. Stavolta - mi riferisco al numero d'aprile-maggio - mi sono letto e riletto la paginetta introduttiva all'assaggio dei Bordeaux del 2010: testo di Masnaghetti. Ma non per puro interesse filo-bordolese. Piuttosto, perché dice cose che trovo di condividere in toto riguardo al vino e alla sua attualità (e alle sue prospettive?).
Trascrivo. Dice così: "Poi ci sono i vini, che è impossibile non giudicare importanti, ma che in fondo - e al di là delle distinzioni che pure ci sono e avremo modo di fare nell'articolo - sono accomunati da una sensazione di uniformità, di troppo bello, di troppo perfetto (tant'è che più di una volta mi sono chiesto: che cosa ha di particolare questo 2010 che altre annate non hanno, quale è il segno distintivo che in degustazione te lo fa riconoscere - penso al 1982 o al 1996 - ... be', proprio non saprei, mi sono risposto... forse la struttura). E mi raccomando: non tiriamo in ballo storie parkeriane già masticate sui guru che manipolano il mercato e balle varie. Piuttosto pare una deriva inconscia, o se vogliamo un'ossessione, che porta a quell'eccesso di perfezione/selezione che alla lunga finisce col togliere l'anima anche ai vini più dotati. Non la barrique, non le troppe estrazioni. Solo un ecceso di cura e di attenzioni".
Ecco: parole sante. E non mi riferisco a Bordeaux e ai suoi 2010, che non ho tastato. Mi riferisco più in generale al mondo del vino. La mia impressione - ripeto, in generale - è esattamente quella del Masna: la troppa cura, la ricerca del perfezionismo, il rigore tecnico stanno uccidendo l'anima del vino. Ecco, questo è "il" problema.

8 giugno 2011

Alto Adige Pinot Bianco 2004 Franz Haas

Mario Plazio
Grande vignaiolo il nostro Franz. E il suo pinot bianco è un classico tra i vini dell’Alto Adige. Quasi didattico, nel senso migliore del termine. Stupisce la delicatezza con la quale viene trattata la materia prima. Il pinot bianco è una varietà fragile, difficilissima da inquadrare. O si ottengono vini pesanti e imbevibili, o bibite diluite senza alcun interesse. Se ci pensiamo un attimo infatti, non sono molti i grandi pinot bianco che ci vengono in mente, segno del tutt’altro che semplice compito che spetta ai produttori.
Questo 2004 è ancora incredibilmente giovane, teso, forse con un pizzico di alcol in rilievo. I profumi spiccano per la loro spontaneità, senza alcun tecnicismo indotto. Riconosciamo la mandorla verde, il mandarino, la linfa, i fiori. La mineralità è in formazione e appena percettibile. Un gran bel compagno di tanti abbinamenti, saprà accompagnare senza prevalere risotti e preparazioni con verdure.
Due faccini e mezzo :-) :-)

7 giugno 2011

Se anche i portoghesi cominciano a usare il tappo a vite...

Angelo Peretti
Oh, sì sì: per me che sono un fan dei vino in capsula a vite, questa è una notiziona, e cioè che il più grande gruppo vinicolo portoghese, Sogrape, ha messo il tappo a vite sul Vinho Verde 2010 della Quinta de Azevedo. Ed è una notiziona perché il Portogallo è di gran lunga il maggior produttore al mondo di sughero e sta ovviamente levando un fuoco di fila mica da poco contro le chiusure alternative, appunto, al sughero. Ora, son d'accordo con Decanter, che ha dato la notizia e che ha detto che Sogrape ha mostrato un bel coraggio.
I portoghesi producono suppergiù l'80-85% dei tappi in sughero messi in commercio nel mondo: che una delle sue maggiori aziende del vino cambi rotta su un bianco rappresentativo della "portoghesità" non gli farà molto piacere. Tantè che l'articolo pubblicato da Decanter ha avuto qualche commento un po' stizzito: "Who is Brave? And why? Because of screwcap?", e cioè "Chi è che è coraggioso? E perché mai? Per il tappo a vite?" si chiede un commentatore dal nome palesemente portoghese. C'è da capirli. Perché finora qualcun altro in Portogallo aveva provato la via della capsula a vite, ma nessuno dell'importanza di Sogrape e comunque con vini a prezzo più basso.
Ora, giusto per capir meglio, aggiungo che Sogrape è proprietaria di un bel mucchio di marchi, e tra questi anche Mateus, Offley e Sandeman, che potranno piacere o non piacere, ma che son comunque noti in tutt'il mondo e son tra quelli che "fanno" il mercato. E che un'azienda del genere prenda un Vinho Verde portoghese di buon livello e lo metta in tappo a vite, be', è mica cosa da poco.
A proposito: siccome io pubblico solo fotine piccine picciò, se volete vedere la bottiglia intiera, consiglio di andare a fare un salto su The Wine Detective, che pure ha dato la notizia con ampio commento.

6 giugno 2011

Fate che quel ponte sia famoso perché non è stato fatto

Lo slogan mi piace: "Fate che sia il ponte più famoso senza che venga costruito". E dunque parlatene, parlatene, parlatene, e magari scrivete a politici e giornali per fermare lo scempio, che sta invece avanzando nella sua fase progettuale.
Lo slogan si legge sul sito del comitato tedesco che si oppone alla realizzazione dell'inaudito ponte che dovrebbe essere costruito sopra ad alcuni dei più straordinari vigneti della Mosella, là dove si fanno vini di commovente eleganza.
Il ponte è stato previsto per dare sfogo a una nuova strada, chiamata B50 neu, che sbucherà da un tunnel sul fianco di una collina dal nome sacro per chi ama il Riesling: Ürziger Würzgarten. E attraverserà la Mosella su un gigantesco ponte, passando dritta sopra ai vigneti di Zeltingen-Rachtig, Wehlen, Graach and Bernkastel, con una diramazione che transiterà accanto al paese di Erden. Altri nomi che sono tutti cari ai fan del Riesling germanico.
Serve mobilitazione. Per quel che conta, io ci sto, e ne ho già scritto altre volte. Invito chi mi legge ad attivarsi con i mezzi che ha: informazioni in tedesco e in inglese sul sito www.b50neu.de.

5 giugno 2011

Un fazzoletto a pallini

Più gridavo, più battevo i pugni sul tavolo, e più lui beveva; e più beveva, più le lacrime gli sgorgavano dagli occhi. Cacciò di tasca un fazzoletto a pallini, si soffiò il naso e ingollò un altro poco di vino. Faceva pietà: distrutto, imbarazzante, rivoltante, spudorato, stupido, rozzo, disgustoso e sbronzo, il peggior padre che un uomo potesse avere, così abominevole che sputai la birra nella sputacchiera e mi alzai per andarmene.
John Fante, "La confraternita dell'uva", Einaudi 2004

4 giugno 2011

Un po' di Champagne

Angelo Peretti
Allora: mettiamo che ci si trovi in una dozzina di persone sedute intorno a un tavolo, e che fra i dodici ci sia un giovanissimo vigneron dello Champagne, dalle mie parti per uno stage, e che si decida di stappare Champagne, compresi un paio di suoi, e che alla fine se ne stappino dodici. Ecco, è esattamente quel che è successo qualche sera fa. E non è stato niente male.
Il giovinotto in questione è Brice Lejeune, figlio di Luc, piccolo produttore, appunto, di Champagne a - mi pare - Villers-Marmery. E devo dire che le sue bollicine non sono niente male: per me, soprattutto il base, che comprerei subito.
Adesso, qui di sotto, dico brevemente cosa s'è bevuto e qual è stato il parere mio e del gruppo che ha bevuto con me: ho chiesto di dare un voto da 1 a 10 a ciascun vino, basandosi esclusivamente sulla piacevolezza, e riporto il giudizio medio che n'è uscito. Aggiungo solo un'opinione comune dei presenti, banale fin che si vuole, ma condivisa: la finezza delle bolle champagniste è inarrivabile.
Champagne Brut Selection Thierry Massin. Vino dall'eccellente rapporto qualità-prezzo. Perfetto per un aperitivo disimpegnato. Per me, è da due lieti faccini. La media decimale dice 7,92.
Champagne Brut Réserve Michel Furdyna. Lo bevo e lo strabevo e continua a piacermi. Ed è piaciuto anche agli altri. Per di più, non costa molto. Tre faccini e media decimale a 8,73, il top della serata.
Champagne Brut Lacourte-Godbillon.  In bocca si batte bene (e del resto è un coup de coeur della Guida Hachette), ma al naso non è piaciuto invece altrettanto. Peccato. Voto medio a quota 6,38.
Champagne Brut Premier Cru Lejeune. Mica per ossequio al nostro giovane ospite, ma 'sto Champagne è piaciuto: godibilissima mela croccante e succosa. Tre faccini per me, media 8,38.
Champagne Brut Premier Cru Grande Réserve Lejeune. Sarà che non amo il solo chardonnay, ma ho preferito il base, e come me, in genere, i presenti. Comunque, bel vino. Due faccini e 7,85 medi.
Champagne Blanc de Blanc Cuvée du Melomane Herbert Beaufort. Polvere da sparo, canna di fucile: il naso ne è segnato. Chardonnay ben lavorato, ma un po' ostico. Giudizio medio 5,58.
Champagne Extra Brut V.ve Fourny et Fils.  Per me, un gran bel vino, teso, nervoso. Ma non tutti sono stati del mio avviso. Per quel che mi riguarda: tre faccini. La media decimale dice 7,92.
Champagne Extra Brut Fallet Prevostat. Uno Champagne mitico. Al naso è rusticotto, ma in bocca è poesia. Solo che la poesia non piace a tutti. Per me, tre faccini e applausi. Per la media 7,96.
Champagne Blanc de Blanc Gran Cru Brut Herbert Private Didier Herbert. Giusto per smentirmi, ecco uno chardonnay che mi piace. Per me: tre faccini. Per i presenti: 7,85. Per la Hachette: coup de coeur.
Champagne Brut Selection Olivier et Bertrand Bouvret. Altro coup de coeur della Hachette, ma questo mi ha impressionato meno. Comunque buono. Due faccini e media a quota 7,31.
Champagne Blanc de Blanc Brut Le Mont Aigu Gran Cru Jack Legras. La prima volta che l'ho bevuto, m'era piaciuto molto. Stavolta meno, e così pure agli altri. Un faccino ampio e 7,12 di media.
Champagne Blanc de Noirs Brut Roses de Jeanne. Seconda volta che lo bevo e seconda volta che mi strapiace. Grandissima tensione, croccatezza, frutto. Tre faccini. La media è a quota 7,73.

3 giugno 2011

Un manuale di conversazione per chi va a visitare le cantine

Angelo Peretti
Le nuove tecnologie sono importanti, lo so. Dunque, hanno importanza anche gli strumenti che supportano le tecnologie. Conseguentemente, capisco che con la rivoluzione partita con l'iPhone e poi con l'iPad sia cambiata la modalità di fruizione dei testi. Al punto che Amazon ha dato l'annuncio che le vendite dei libri in formato digitale hanno superato quelle dei libri cartacei, anche se magari è scontato che chi compra on line preferisca il testo elettronico a quello, come dire, analogico. Sta di fatto che io faccio un po' fatica a staccarmi dal libro di carta. Anzi, non mi ci stacco proprio. Perché ho un piacere prima di tutto fisico, tattile, sensoriale che mi deriva dalla carta, dal suo odore, dalla sua consistenza, dal carattere utilizzato per la stampa, dalla distribuzione delle parole sulla pagina. In questo certamente non c'è iPad che possa reggere il confronto.
Comprendo tuttavia che ci sia chi ritiene che siamo nel pieno di una rivoluzione digitale destinata a cambiare le sorti del mercato librario. E in questa corrente di pensiero mi pare si pongano anche due wine blogger veronesi, Elisabetta Tosi e Giampiero Nadali, che hanno esordito con loro primo ebook: un "Manuale di Conversazione per Eno-Turisti" autoprodotto attraverso la piattaforma Narcissus, vale a dire uno di quegli strumenti che consentono di superare abbastanza agevolmente gli ingenti costi di stampa e di distribuzione dei libri di carta.
Che dire del libro dell'accoppiata da qualche tempo confluita nella joint venture di Fermenti Digitali? Che è un buon libro in quanto a contenuti. Non sempre li condivido in pieno, ma i libri anche a questo servono: a muovere il pensiero, a creare opinione, dibattito. A tener viva la testa. E comunque affermo esplicitamente che delle numerose sagge indicazioni che vi sono contenute - nate dalle esperienze "sul campo" - me ne avvarrò anch'io, che pure non sono un neofita nelle visite alle cantine, e dunque ritengo che l'appassionato e il turista possano trovarne considerevole utilità. Un compendio così puntuale di suggerimenti, consigli, indicazioni, sinora sul mercato editoriale non l'avevo ancora visto. Per ogni capitoletto, poi, vengono proposti alcuni interrogativi da sottoporre al produttore: ovvio che sconsiglio vivamente al visitatore di presentarli tutti, e non perché si tratti di quesiti imbarazzanti, ma semplicemente perché sarebbero decisamente troppi. Però ripassarseli di tanto in tanto è un buon allenamento.
Dico poi che un'occhiata al libro dovrebbero darla anche i produttori, o quanto meno quelli - e sono la più parte - che fanno vendite in cantina: non sarebbe male che si guardassero in queste pagine virtuali come ci si guarda in uno specchio. Anzi, credo ne trarrebbero anch'essi notevole utilità, migliorando la maniera di porsi verso il visitatore e l'appassionato. E preparandosi a rispondere agli interrogativi di una schiera di appassionati sempre più informati.
Voglio poi ringraziare Elisabetta e Giampiero per avermi citato con la mia "soglia ottomila". Si tratta di chiedere quanti ettari di vigneti (di proprietà e in affitto) l’azienda gestisca e quante bottiglie produca complessivamente e poi dividere le bottiglie per il numero di ettari: se il risultato è tra 8 mila e 12 mila, allora è molto probabile che il vino sia fatto con le sue uve dell'azienda, ma se la cifra che risulta dal calcolo è superiore, allora è probabile che siano state utilizzate (comprate e vinificate) anche uve di altri.
Dunque, bene, ripeto per i contenuti. Parlo di contenuti perché, non se la prendano a male i due coautori, in materia editoriale l'ebook paga invece un po' lo scotto che è tipico dei wine blog e anche dei web magazine: l'impaginato è più che accettabile, ma è quel che è (provo una qualche repulsione ad esempio per l'utilizzo del Times New Roman et similia come font per un libro), e mi ci dovrebbero costringere con la forza a dare alle stampe qualcosa in cui la è maiuscola sia scritta con la E seguita dall'apostrofo (E'), anziché correttamente accentata (È). Ma sono fisime mie.

2 giugno 2011

Nahe Riesling Beerenauslese 1976 Abtei Rupertsberg

Mario Plazio
Una bottiglia in forma smagliante. Spezie, zenzero, sottofondo di botrite appena accennato. Tutta la magia del vino si rivela alla beva, dove tutto pare fondersi nel modo più ovvio possibile (cosa che invece è tutt’altro che scontata). Il segno della grandezza sta nella aerea leggerezza del corpo, caratteristica che appartiene solo ai grandi riesling di questa regione della Germania.  Dopo più di un minuto il liquido continua a persistere nel palato, e ai sentori di caramello, frutta secca e minerale fa seguire paradossalmente delle note ancora più fresche di mango e agrumi, per terminare leggermente amarognolo, eredità lasciata dalla botrite. Equilibrio, leggerezza, finezza.
Tre faccini :-) :-) :-)

1 giugno 2011

C'è del bio-qualcosa in Francia

Angelo Peretti
Les Zinzins du Vin è un'enoteca con accluso sito internet di commercio vinoso, oppure un sito di ecommerce vinicolo con acclusi bar e cantina, fate voi. Ogni tanto ci faccio una capatina. Virtuale. Nel senso che vado a vedere il sito per comprarci del vino, ché il bar à vin è a Besançon, e dunque non è che mi sia così comodo. Orbene, che cos'ha di tanto particolare 'sto Zinzins du Vin perché ne parli? Ci ha che è specializzato in vini bio-qualcosa francesi. Biologi, biodinamici e quant'altro di bio-prefisso conosciate.
L'ultimo acquisto che ci ho fatto sono andato giù tosto, e ho preso bottiglie piuttosto strane, per mettere insieme una degustazione con un gruppo d'amici. Ho titolato la degustazione: i rossi eretici. Eretici, ché sono bottiglie così fuori dalle appellation delle relative aree d'origine da non poterle collocare se non nella categoria dei vin de table. Abbiamo in effetti avuto nei bicchieri cose che a volte definirle "difficili" appare eufemistico. Letteralmente spiazzanti. Qualcheduna fenomenale, qualche altra che ti fa dubitare se 'sti bio-chissà non ti stiano semplicemente prendendo in giro. Mah: su qualche boccia abbiamo deciso perfino di stendere un pietoso velo, tra spunti acetici davvero eccessivi e puzze insostenibili. Ma altri son risultati vini d'eccellenza: magari tecnicamente imperfetti, ma la perfezione enologica ha da essere per forza un pregio? Ecco, questo è l'interrogativo che è venuto fuori dalla serata: la tecnica è davvero sempre un valore aggiunto?
Ordunque, ecco i cinque che sono risultati più interessanti.
Le Verre des Poètes 2005 Domaine de Montrieux Emile Heredia
Rosso che viene dal Vendômois, fatto con uve di pineau d'aunis da una parcella impiantata nel 1880 o giù di lì. Sa di geranio, di asparago, tutta roba da bianco, e invece è rosso. E poi liquiriza e tracce di mineralità, ma la finezza è altra cosa. Costa 11,90 euro.
Un faccino :-)
Le Vin des Amis 2009 Mas Coutelou
Fatto con uve di grenache noir nella Coteaux-du-Languedoc. Fragola al naso. Bocca tannica e ancora fragolosa. Vino semplice ma piacevole. Costa 6,90 euro.
Un faccino e quasi due :-)
Cuvée des mille Zincs 2005 Didier Chaffardon
Cabernet sauvignon e cabernet franc, ma è il franc - com'è logico che sia, dico, per un rosso d'Anjou, Loira - a prevalere con una piacevole sensazione di peperone verde. Vino elegante, polposo ma nel contempo snello. Viene 13 euro.
Due lieti faccini :-) :-)
Mazière 2002 Jean-Michel Labouygues
Syrah. E del vitigno ha in effetti la spezia pepata e a tratti anche affumicata. Viene dalla zona di Corbières. Vino strambo, dalla volatile - ad avviso dei presenti - alta, il che ha fatto storcere il naso a molti. Ma io ci ho trofato un frutto delizioso, e ho finito per amarlo e berlo, 'sto rosso. E lo riberrei, volatile o no: del resto, la piacevolezza è faccenda personale. Viene 26 euro, che non è poco.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Clos des Cèdres  2001 Domaine de Lisson Iris Rutz-Rudel
Un rosso da mourvèdre della Coteaux-du-Languedoc. Un grande rosso, futtatissimo. Fine, elegante, aristocratico: rustica aristocrazia di campagna, intendo, vestita di fustagno. Lei, la produttrice, dev'essere un tipo deciso. Le vigne - leggo sono in una località isolata e in azienda non arrivano né la corrente, né l'acqua potabile: ci si serve di pannelli solari e di un pozzo.  Costicchia, il vino: 34 euro la bottiglia. Per farmi un'idea sul fatto che li valga, l'ho confrontato con due grand'italiani che costano pressoché il doppio, e ha stravinto il confronto. E dunque li vale. Lo riberrei subito e fra dieci anni almeno.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)