27 febbraio 2008

L’ocm, l’antipolitica, il vino col truciolo e il vitigno nell’urna

Angelo Peretti
Tempo fa ebbi occasione d’occuparmi di politica. Magari non a livelli eccelsi, ma comunque discreti. Ed è stata un’esperienza comunque importante, per me. Che ho chiuso nel 1995, per scelta. O forse perché m’ero accorto che non c’ero tagliato. Sta di fatto che non m’accodo a quell’antipolitica che va oggi di moda, sull’onda dei proclami dei Grillo (o dei Fiorello, ma non l’ho visto) di turno. La politica è necessaria. Come la filosofia. Philosophandum est: si deve far filosofia, per dare senso alla vita. Così come si deve far politica per trovare ragione al convivere.
Detto questo, vorrei però dire che a vedere e sentire i politici d’oggidì mi sento talvolta (spesse volte) sconfortato. Anche, o soprattutto, quando trattano d’agroalimentare, di vino. E avverti con sconcerto un senso di distacco dal pensare la realtà delle cose, dalla fatica della quotidianità, dalla concretezza dell’agire.
M’è capitato d’esser presente per esempio a un convegno sul rapporto fra vino e territorio, e c’era fra i relatori anche qualche rappresentante, a vario livello, delle istituzioni, dell’amministrazione, della politica. E il discorso è finito sulla nuova ocm del vino, leggi organizzazione comunitaria di mercato, che è poi quella disciplina europea che detta le regole della produzione e del commercio, appunto, nel settore vinicolo. E vai coi piagnistei sul fatto che in Francia e in Germania possono (ancora) arricchire il loro vino con lo zucchero, mentre da noi si ricorre all’mcr, che sarebbe il mosto concentrato rettificato (ma guando la smetteranno di parlar per sigle, e cominceranno invece a farsi comprendere?). E insomma ci sarebbe concorrenza sleale. E noi saremmo più puri, perché almeno l’mcr viene dall’uva e insomma noi il vino lo arricchiamo con un prodotto comunque tratto dalla vigna e invece i nostri cugini francesi e germanici no.
Allora io dico: ma che vino è quello che si deve arricchire da noi o dai franzosi o dai todeschi? Vinello. E allora dove sta il problema? Vinello era, vinello resta, salvo che noi abbiamo una cert’agricoltura (meridionale) da sovvenzionare e altrove hanno altri bisogni. Non è lì che si compete sulla qualità. Salvo clamorose eccezioni, da noi e da loro. La più sensazionale? Gli spumanti metodo classico. Lo zucchero lo si mette anche da noi, prima della tappatura definitiva: è parte fondante del liquer d’expedition, che è poi quella miscela che conferisce stile alle bolle, nello Champagne come nel Franciacorta, giusto per dire.
Ma questo è niente. È venuta fuori di nuovo la storia, trita e ritrita, dei cosiddetti trucioli nel vino, che tanto discorrere fecero pochi mesi fa. E i politici al tavolo avanti col dire che non è giusto che si possa invecchiare il vino coi trucioli. E a paventare i nuovi pericoli che vengono dal di là dell’oceano, dove i vini s’invecchierebbero facendo ricorso ai campi elettromagnetici. E insomma, ha detto uno, non è giusto che i californiani facciano una verticale di vini con una sola annata. Al che mi son cadute le braccia. Ma che invecchiare! Ma che verticale con un’unica raccolta! Un vino del 2007, truciolo o non truciolo, elettricità o non elettricità, è e resta un vino del 2007. E se è un gran vino non c’è truciolo o magnete che tengano. E se è un vinello, certo, se ne può accelerare un pelo l’evoluzione organolettica, si può dar qualche sentore vanigliato, un che di tannicità, ma vinello era e resta. Altroché. E ancora una volta: è forse su questo campo che ci si confronta nel nome della qualità? Ma va.
E poi la propostona: chi usa i trucioli li deve indicare in etichetta! Dobbiamo pretendere trasparenza, s’è gridato. Allora avanti - verrebbe da dire - coll’indicare tutto, e dunque: contiene solfiti (c’è già scritto, obbligatorio), contiene bentonite (che è polvere d’argilla: serve per chirificare il vino), contiene albume (sì, proprio il bianco d’uovo: anche questo per chiarificare), contiene gelatina alimentare (sempre le chiarifiche), contiene colla di pesce (idem), contiene caseinato di potassio (ut supra), contiene acido sorbico, contiene acido tartarico, contiene bicarbonato di potassio, contiene carbonato di calcio, contiene tartrato di calcio (tutta roba ammessa, sia chiaro, e se volete l’elenco completo, potete rileggere quel che scrissi un annetto e mezzo fa, riprendendo un bell’editoriale di Alessandro Masnaghetti). Allora sì, signori miei, che ne venderemmo del vino... Ma suvvia!
Personalmente, credo che la nuova ocm vino, al di là dei burocratismi e dei tecnicismi e delle ripercussioni inevitabili in termini d’equilibri geopolitici e socioeconomici, abbia invece tracciato una strada nuova, che va interpretata rapidamente, per evitare che gl’italici vigneron restino al palo, ancora una volta. Scavalcati a destra e a sinistra, e uso i due lati nel segno della par condicio, ammesso ch’esistano ancora destra e sinistra (ecché, c’è qualche differenza sostanziale fra uno schieramento e l’altro, ormai, nei programmi, negli enunciati?). L’essenza, il succo dell’com, a mio avviso, è questo: i vini a denominazione saranno vini di territorio, quelli da tavola saranno vini di vitigno. Prendere atto, signori.
Gli è così, perché il sistema delle doc, a sentire l’orientamento comunitario, dovrebbe approcciare sempre di più quello delle dop, che tutelano l’origine, appunto, territoriale del prodotto. Mentre per i vini da tavola, la nuova ocm prevede in etichetta annata e nome del vitigno. Capito? Annata e vitigno.
E dunque, piantiamola di puntar tutto sul vitigno e cominciamo a concentrarci, alla buon’ora, sul terroir. Che è poi l’unica maniera per evitare non solo le aggiunte di mosto concentrato, che sarebbe il male minore, ma anche di rallentare in qualche modo un cert’andirivieni di cisterne su e giù per la penisola (più su che giù).
Verifichiamo, controlliamo l’origine delle uve. E confidiamo nell’incontro virtuoso fra suolo, clima, vigna, uomo, storia, tradizione, cultura: che è poi, ripeto, il mix che compone il terroir.
Il vitigno, da solo, non paga. Prendete il nero d’Avola. Qualche anno fa è stato boom: adesso non lo vuole quasi più nessuno. Prendete gli shiraz australiani o i pinot neri americani: adesso dalle loro parti stan facendo le zonazioni, perché han capito che si vendono meglio se il territorio prevale sull’uva.
Il mondo del vino sta andando così, fuori dai nostri confini. Ma è mica facile farlo capire ai politici. Testardi nei loro luoghi comuni. E il fatto è – e la cosa si fa preoccupante – che sto perfino imparando a non arrabbiarmici più di tanto. E mi fanno quasi tenerezza quando, finendo il convegno, portano ad esempio uno di loro, che dalle parti sue sta investendo quattrini e tempo sulla promozione d’un certo vitigno. E poi si lamentano se cresce l’antipolitica. Ma, tranquilli: in Italia siamo abituati a votare. E rivoteremo. In fondo, Berlusconi è bravo a stare in tv, e Veltroni mette capolista delle belle signore. E chiunque vinca, si farà fotografare mentre brinda. Volete mettere? Questa sì che è promozione del vino.

16 febbraio 2008

Durellisti si nasce

Angelo Peretti
Durella l’uva, Durello il vino. Area: Lessinia. Montagna. Autoctonia montanara. A cavallo fra Veronese e Vicentino. Denominazione: Lessini Durello. Doc. Così doc che ha il difetto congenito delle doc italiane: di tutto e di più. E dunque: versione ferma, spumante fatto in autoclave - leggasi Charmat - eppoi ancora bolla metodo classico e perfino passito. Vabbé, mettiamocela via: dalle nostre parti, su e giù per lo stivale, va in questa maniera. Ah, se capissimo che la strada giusta è «una denominazione, un vino»!
E per me, cari durellisti scaligero-berici, il vostro vino ha da esser uno: lo spumante. Che poi lo facciate più o meno secco, più o meno cremoso, fatti vostri: a ognuno lo stile suo. Durellisti si nasce, e voi siete nati per far bolle. Eppoi, ditemi: perché crear confusione con quell’altre tipologie francamente inutili? Volete fare un vino fermo? Fatelo a igt. Volete un passito? Fate un vino da tavola. Tanto, li vendete lo stesso, se volete. Chi ve li compra oggi, seguiterà a comprarli anche domani, e comunque non è lì che potete qualificarvi.
Orbene, il Durello stavolta l’ho proprio tastato. Tutto o quasi. E così soddisfo quel lettore che mi chiedeva qualche tempo fa come mai non n’avessi mai scritto: gli avevo risposto che non ne avevo ancora avuto occasione. Stavolta l’occasione è venuta. Ah, cosa non si fa per contentare anche un solo lettore!
Ergo, pubblico. Non tutto, no: quel che m’è piaciuto. Solo.
Che dire sinteticamente dei Durelli che ho assaggiato? Che ce n’è qualcuno di valido assai, per me inaspettatamente. Uno in particolare, metodo classico, of course. E anche qualche giocoso durellino Charmat bollicinoso da aperitivo.
Cito - vedrete - anche un fermo e un passito, giusto a titolo d’esemplificazione: se volete togliervi lo sfizio di provarli...
Quanto alle bolle, la domanda cui volevo tentar di dare risposta era questa: c’è qualche elemento accomunante? Organoletticamente, intendo. La risposta è affermativa: l’albicocca prima di tutto, un po’ la pera, eppoi una vena floreale (tiglio).
Accomuna anche la bolla, tuttora da domare del tutto, salvo rara e benemerita eccezione. Ma se ricorda dov’eravamo tempo fa, si son fatti bei passi avanti.
Altro fattor comune è il prezzo, generalmente mite. E non è questione di poco conto, con le vacche magre che circolano.
Ora, i vini. Per tipologia. Cominciando dal piano nobile: metodo classico.

LESSINI DURELLO METODO CLASSICO
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico 1996 Casa Cecchin Naso mineraleggiante. E sotto la pera in composta, esilina. E vene di timo. E in bocca crema pasticcera, e brioche all'albicocca (ed eccolo l'aroma durellista, anche qui). E slancio citrino. E memoria di clementina. E freschezza esuberante, nervosa, ma non aggressiva, nossignori. Vino che ha carattere. E che chiude asciutto, perfino vagamente tannico. Una bottiglia da stappare volentieri. Molto volentieri.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico 2002 Casa Cecchin Di primo acchito ti mette in difficoltà, ché ti pare un po' ossidativo, mielosetto. Epperò ecco sul fondo la fragranza di pera matura, che sembra quasi uno dei marcatori della categoria. E l'agrume, la buccia candita. Fin qui con i profumi. In bocca c'è una carbonica decisa, netta, di gran carattere, epperò che non dispiace, non invade. Insomma: bene, nell'assieme. E anche il frutto si fa avanti deciso: il fruttino di sottoboso succoso e l'albicocca e la pera. E c'è lunghezza fruttata e vena salina. E quasi iodata. Oh, mica male davvero!
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Lessini Durello Spumante Metodo Classico 2005 Fongaro All'olfatto propone vene che direi quasi agrumate. Da fiore d'arancio, forse, ancorché esilino. E vene d'albicocca e di pesca, sottilissime, tenui. E al palato ecco ancora l'agrume, il dolce acidulo della clementina, rinfrescante. Eppoi il fiore bianco. E l'albicocca immatura. Ma anche un po' di miele un pelino ossidativo. E comunque bolla misurata, composta.
Due lieti faccini :-) :-)
Lessini Durello Spumante Metodo Classico 1998 Marcato All’annusare ecco che c'è in primis decadente vena d'ossidazione e di mobile antico, epperò non è spiacevole affatto. Col suo frutto evoluto. Col fiore essiccato. Con la nota fumé. E in bocca ha spessore e sapidità iodata. La noce. La vena d'ossidazione, certo, esiste. Ma la freschezza permane. E la lunghezza di frutto in composta pure. E di caramello. Per chi ama le bolle d'antan.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico Riserva dei Fondatori 2005 Cantina di Montecchia Naso da crosta di pane e fiore di campo e fruttino giallo. E c'è pure vena minerale, un pochetto. In bocca la carbonica è in rilievo, certo, ma non aggredisce. E insomma non posso dir che sia cremoso, ma ci sta. E la mineralità è piuttosto in rilievo. E peccato che c'è quel filo d'amaro nel fondo. Comunque c'è carattere.
Un faccino :-)

LESSINI DURELLO METODO CHARMAT
Lessini Durello Spumante Extra Dry Val LeograBolle durelliste vicentine, a prezzo piccino picciò, da quel che ho capito (sui 3 eurini, grosso modo). Al primo impatto potrebbe anche sembrare un pochetto sfacciato, con quel profumo di lavanda che sembra un po' appiccicato lì. Però poi ecco che emerge l'albicocca, ed è piacevole questo fruttato. E in bocca è di nuovo albicocca, non del tutto matura. E un po' di pesca gialla. C'è mela asprigna che s'aggiunge. E la bolla non aggredisce, ed anzi l'assieme vira quasi alla cremosità, pur con quella spalla acida ch'è imprinting territoriale. e c'è bella lunghezza fruttatina. Niente male.
Due lieti faccini :-) :-)
Lessini Durello Spumante Brut Cantina di Montecchia Altra cooperativa, altro Charmat, altro bel rapporto qualità prezzo. Naso sottilmente floreale. Biancospino. Appena appena il tiglio. E cenni di fruttino di bosco. Ribes. La carbonica è minuta e tagliente, e ci vuole un po' prima che la florealità si rifaccia largo. Epperò c'è carattere. E in fondo una vena vagamente amara che raavviva la beva pur'essa. Vino rude, rustico. Montanaro.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Colli Vicentini E vai con la cooperazione vinicola. Qui c'è sì traccia di fiore e di fruttino bianco, all’olfatto, ma il tutto è esile, compresso. In bocca la carbonica sembra un pochetto aggressiva, grossetta la bolla. C'è fondo dolcino, amabile, epperò la vena acida si fa largo, avanza, emerge, prevale, pulisce. E alla fine si presenta una leggerissima vena mandorlata, amarognola, ma non spiacevole. Vino di poco impegno, d'accordo, ma ci sta.
Un faccino :-)

LESSINI DURELLO FERMO
Lessini Durello s.a. Colli Vicentini Sans année: senz’annata, mi par proprio che sia, questo durellino fermo, citrino e nervosetto. Il colore è quasi il bianco carta che andava una trentina e passa d'anni fa. Naso esili, sui toni floreali, un po' aromatici, con qualche traccia un po' sfacciata, però, da caramellina, da chewing gum. E alla lunga ecco un po' di anice. La bocca è salata, in maniera quasi aggressiva. E il frutto non è elegantissimo, ma c'è discreta polpa, in fondo. Peccato non brilli per lunghezza.
Un faccino :-)

LESSINI DURELLO PASSITO
Lessini Durello Passito 2003 Marcato Giallo dorato. Con sfumature ambrate. Naso da albicocca secca, da miele di castagno. E il candito d'arancia, di cedro. E l'erba officinale, il timo soprattutto. In bocca ecco che ai toni agrumati, che sono in rilievo (e ricordano perfino il liquore d’agrume), e alla canditura s'aggiungono di nuovo, da subito, l’erbe officinali. Vabbé, magari non è esattamente il mio vino, ma credo ci sia gente disposta a fare un applauso molto, molto volentieri.
Un faccino :-)

Il parere contenuto in questa segnalazione è rapportato alla tipologia di vino e poggia in primis sulla piacevolezza che la bottiglia ha saputo trasmettere.
Il giudizio è dato in faccini stile sms.
- un faccino è per un vino di corretta e comunque piacevole beva
- due faccini per un vino di bel piacere
- tre faccini per i vini appaganti, le punte massime delle rispettive tipologie.

3 febbraio 2008

Ruberpan, ovvero del rosso che ha lo stile d’un bianco

Angelo Peretti
Ammetto che ero scettico. Quando venni a sapere che il Leonildo Pieropan re del Soave comprava terra a Illasi per piantarci vigne da vin rosso, avevo più di qualche dubbio. Che il Nino sia il più grande fra i bianchisti d’Italia, per me è cosa scontata, e il suo Calvarino - l’ho detto più volte e lo riaffermo - è l’unico italico bianco che metterei a confronto, per continuità d’annate belle e per capacità d’invecchiare, co’ grandi di Francia e di Germania. Ma da lì a esser capace di fare anche i rossi ce ne passa.
E invece non avevo fatto i conti con certi fattori.
Il primo: quando uno è bravo, è bravo. Il secondo: quando uno ha stile, quello stile lo sa mettere in tutto. Il terzo: il Nino ha figli grandi, che hanno la personalità loro e la libertà (e l’intelligenza) per cercar la loro strada. E il mix ha un che d’esplosivo. Se ci si aggiunge, di più, una convinzione che in famiglia talvolta rasenta la testardaggine, che mica sempre - badate - è cosa negativa, allora il gioco è fatto. E infatti...
Metti una sera al Dodici Apostoli, ristorante nel cuore di Verona, casa di Giorgio Gioco, ottanta-e-passenne maestro mio e di chissà quanti che hanno scritto e scrivono di cibo & vino. E ambientaci lì l’anteprima de’ rossi d’Illasi targati Pieropan. E son quattro annate, fin qui: il 2003 è la prima, il 2007 la più recente, ovvio. E in nessuna la vigna s’è salvata del tutto dalla grandine e dal vento, ché la, sul Monte Garzon, terra di Cellore d’Illasi, quando l’aria tira non scherza mica. Eppure il vino lascia il segno.
Direi che anzi lo stile - quello stile di casa Pieropan, che ho detto e che mette in primis pulizia e freschezza - è inconfondibilmente quello. E dunque il vino mira sì alla concentrazione, ma mai cedendo dal lato della beva. Ed è una sorta di quadratura del cerchio, e se funziona è quasi rivoluzionaria, questa formula, in terra valpolicellista. Già, perché Cellore è terra doc della Valpolicella che s’usa dire allargata. E le vigne piantate son quelle valpolicellesi: e dunque corvina veronese e corvinone e rondinella e un pelo di croatina. E son vigne giovani, e se tanto mi dà tanto, quanto saranno a maturità, cosa ti tireranno fuori i Pieropan da quelle terre?
Per intanto, si son tirati fuori loro. Dalla doc. Han scelto d’uscire non col Valpolicella - e men che meno con l’aborrito Ripasso - ma con un igt, che valpolicellista è dalla testa ai piedi, ma che rifiuta la denominazione. Per scelta familiare e direi per malessere nei confronti di quell’indeterminatezza che oggi sembra esistere sull’idea stessa del Valpolicella. E malessere è, in effetti, se arrivano a dirti che magari non escludono un giorno di farci il doc, ma che adesso no, non se ne parla.
E dunque il vino del Monte Garzon si chiama Ruberpan. Ruber che significa rosso, Pan che è il dio dei boschi e anche il suffisso della casata. E nelle annate giuste, e solo quelle, si chiama anche, questo sì doc, Amarone, e per ora è solo il 2006.
Ma, attenti: è igt, d’accordo, il Ruberpan, ma è anche inconfondibilmente valpolicellista in tutto e per tutto. E anzi potrebb’essere - e inevitabilmente sarà - un benchmak, un riferimento, un modello per chi volesse d’ora innanzi fare un rosso di Valpolicella da uve fresche, senz’appassimento. Coll’affinamento in legno che mira un po’ a domare la spinta acida, senza però mai del tutto sopirla. «Non abbiamo voluto fare un vino da palestra», dice Andrea, figlio agronomo di Nino. «Come per i bianchi - aggiunge Leonildo -, anche per i rossi abbiamo puntato a fare non un vino fine a se stesso, ma da pasto, che si sposa con la cucina, che si beve a tavola».
Certo, aggiungo, che uno che può permettersi di far scelte del genere perché si chiama Pieropan, e dunque il brand, il marchio, il nome è in grado di prevalere perfino all’etichetta. Ché altrimenti sarebbe mica facile spiegare alla gente in giro per il mondo quell’acidità, quella freschezza che ti trovi in bocca insieme al frutto sì tondo e bello e maturo e croccante. Sarebbe difficile, intendo, spiegare il perché d’un carattere simile - e farlo accettare - senza dire che ha l’imprinting del rosso valpolicellista senza esser Valpolicella doc. Ma il marchio è marchio, e dunque dov’è il problema?
Ora, due parole sui vini, di cui uno solo è in commercio, il Ruberpan 2003. Gli altri usciranno quando saranno pronti. Abbiamo chiesto: quando? E la risposta è stata proprio quella: quando saranno pronti.
Ruberpan 2003 L’unico, dicevo, che già potete trovare in circolazione. Al naso ha la ciliegia sotto spirito e memorie balsamico-officinali e qualche vena sottile di bella terrosità, perfino, e accenni di cannella. E in bocca c’è continuità. S’avverte il calore dell’annata (che si traduce in una qualche spinta alcolica) e la giovinezza della vigna (che induce una qualche brevità del vino). Ma è vino che si beve con piacevolezza comunque, e se questa è la premessa...
Ruberpan 2004 È ancora nel legno. Andrà in bottiglia più avanti. Propone ora gran frutto rosso, surmaturo direi. E cenno di fruttino in confettura. E spezia, pepe soprattutto. Ed ha bocca densa e sontuosa eppure anche freschissima e nervosa e slanciata e insomma tanto valpolicella style. E insomma ha sì struttura, ma conserva beva pienissima. Ed ha lunghezza.
Amarone della Valpolicella 2006 Il 2006 è l’anno dell’Amarone, mica del Ruberpan. Ché, hanno spiegato i Pieropan, l’uva era spargola e dunque adatta all’appassimento. E dunque ci han provato. E ha naso di già adesso molto bello di ciliegia e fruttini rossi e confettura e tanta spezia. In bocca è fresco, e lo stile è ancora quello: marchio di casa. Epperò è dolce parecchio, ma don’t worry - dicono - ché l’Amarone ogni anno tende a rifermentare un po’, e duqnue prima che sia pronto alla bottiglia, lo zuccherò brucerà ancora, evolverà. Tanto, c’è tempo.
Ruberpan 2007 Fatto con l’uva salvata dalla grandine, sul lato del vigneto meno esposto. Ed è vino ancora in fasce, ovviamente. Eppure ha di già frutto ben delineato. E insomma, promette bene. Ed ha freschezza perfino più nervosa de’ fratelli dell’annate precedenti. E spezia intrigante. Insomma: c’è continuità.
Ora, non voglio esser troppo entusiasta, ché è meglio attenderli al varco, dopo la bottiglia e l’affinamento, e dunque se ne riparlerà in futuro. Ma scettico non son più, vivaddìo.