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17 maggio 2011

The Cave Singers - Welcome Joy

Angelo Peretti
Opperbacco se mi piacciono i Cave Singers. Pressoché sconosciuti in Italia al grande pubblico, hanno infilato tre album uno più bello dell'altro. Welcome Joy è il secondo, magari un po' meno rustico del primo, ma mica poi così tanto. Bisogna ascoltarlo, sissignori.
Neo folk, country rivisto e corretto, indie con un pizzico di blues. Da Seattle. Chitarra, percussioni, voci roche, rugginose, da boscaioli in visita ai parenti di città, ritmi che vanno dall'ossessivo all'intimistico, dall'ipnotico al crepuscolare. Musica affilata, diretta. Tradizione che guarda al futuro, il domani che ha radici nel passato.
Oh, sì, mi piacciono i Cave Singers. Come mi piace qualche vecchio Barolo dritto dritto e senza fronzoli, come qualche Madiran coi suoi begli anni sulle spalle e magari perfino (horribile auditu!) un pelo di brett che esalta un fruttino acidulo.
The Cave Singers - Welcome Joy - 2009

15 dicembre 2009

Bob Dylan - Christmas in the Heart

Angelo Peretti
Ce l'avete presente quell'abbinamento, che da qualche anno va di moda ma sta conoscendo sempre nuovi proseliti, tra i formaggi stagionati (o erborinati) e le confetture? A me, che amo il formaggio, non va più di tanto, perché il gusto del cacio mi si modifica, anche sensibilmente, con la dolcezza acida d'una confettura, o il piccante d'una mostarda, o la morbidezza zuccherosa d'un miele. Preferisco dunque in genere mangiarmeli così, da soli, i miei formaggi. Ma ammetto che certuni abbiano un carattere così marcato, deciso, quasi urticante talvolta, che il refrigerio d'una marmellata ti vien da cercarlo. Dunque, in quei casi - con un Roquefort, per esempio, o un Cabrales o uno Stilton - l'accostamento ci può anche stare ed esser piacevole, con quella personalità così spiccata del cacio - ruvido, rustico, deciso, maschio - che viene almeno un po' ingentilita. Ed anzi, certe volte ne vien fuori un connubio squisito: formaggio e confettura fondono i loro caratteri per crearne un altro fascinosamente nuovo, né dell'uno, né dell'altro. Comunque, ripeto, è cosa da ammettere, per me e i miei gusti, in piccola misura, ché i rischi son due: da un lato, smarrire il gusto del formaggio, e dall'altro rendere il tutto - il troppo - stucchevole.
Ecco, a questo mi veniva da pensare in chiave enogastronomica ascoltando l'ultimo disco di Bob Dylan. Che se n'è uscito con un album di quelli che non t'aspetti: una raccolta di canzoni di Natale. Christmas in the Heart (Natale nel cuore), s'intitola. Ed è ruvidotto e cartavetrato come tutto l'ultimo Dylan, ma anche, in sovrapposizione, dolcino (dolciastro?) come ha da essere, per convenzione non scritta, un mix di canti natalizi. Insomma: come un Roquefort e una confettura d'albicocche, assieme.
Magari ci si è anche divertito, Dylan, a cantare, in parte dissacrandoli, quei Xmas carols. E più di tutti ha colpito con l'accetta l'Adeste Fideles, cantanto in un latino - come dire - alcolico, storpiato, stropicciato, inzaccherato, prima che il coretto vi posi sopra la sua (amabile?) dolcezza retrò.
Da prendere a piccole dosi. Ma da prendere.
Bob Dylan - Christmas in the Heart - 2009

26 novembre 2009

Kings of Convenience - Declaration of Dependence

Angelo Peretti
Alla ricerca di un aperitivo che non sia troppo impegnativo e nel contempo neppure senza costrutto come sono certi beveroni stile happy hour? Un Prosecco (quello di Valdobbiadene o di Conegliano, intendo: con la nuova doc non mi ci sono ancora orientato) può essere la soluzione. Ce n'è di molto buoni, nel loro genere. Senza essere aggressivi, senza eccedere nella struttura o nella carbonica o nel frutto o nei terziari. Buoni per un pre dinner di corsa, sbocconcellando qualcosa con gli amici. Affidabili e adattabili. Flessibili. Non pretenziosi.
Alla ricerca adesso di un cd da mettere nel lettore tornando a casa dal lavoro o per una mezz'ora di relax in poltrona? Me n'hanno regalato uno che farebbe al caso vostro, se questa è l'esigenza: è il "Declaration of Dependence" dei Kings of Convenience. Chitarre acustiche, voci ben miscelate stile Simon and Garfunkel, melodie carezzevoli. Come un Prosecco extra dry. Magari non un vino (non un disco) di quelli imperdibili che resteraanno nella storia eccetera eccetera, ma alla prima occasione non disdegnerete di riascoltarlo (di rimetterlo nel lettore).
Ovvio che potrà interessare poco, ma è me è capitato che, ascoltato e riascoltato quest'album, a casa mi sono stappato proprio un Prosecco, ché me n'aveva fatta proprio venire l'idea. E non me ne sono pentito per nulla.
L'aggettivo giusto? Gradevole. Il disco e anche il vino.
Kings of Convenience - Declaration of Dependence - 2009

21 novembre 2009

Robertina & Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo - Cuore

Angelo Peretti
In linea generale, non sono un fan dei vini dal cosiddetto "stile internazionale", e dunque dei Supertuscans o degli altri bordolesi d'Italia. Se bevo un Cabernet o un Merlot, cerco almeno che sia ben marcato dall'influsso del territorio.
Detto questo, ammetto una certa debolezza per qualche Merlot di quelli che definirei "rassicuranti". Ne bevo volentieri un paio di bicchieri qualche volta. Perché apprezzo il loro velluto, la linearità del frutto, la buona persistenza. E senza per forza andare a cercare un costoso e imponente Masseto della Tenuta dell'Ornellaia o un denso Patrimo dei Feudi di San Gregorio, è possibile rintracciare altri italici Merlot che sono, appunto, ben fatti ed eleganti nel loro mix di frutto e velluto e vaniglia. Dalle mie parti, ad esempio, il Sansonina dell'omonima aziendina condotta a Peschiera del Garda da Carla Prospero, la vedova di Sergio Zenato.
Ora, mi si è stampato in testa questo stile di Merlot ascoltando e riascoltando Cuore, un album di Robertina e di quella magica music machine torinese che si cela sotto il nome di Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo. Tutta una serie di cover, uscita a fine 2006, di brani del periodo beat italiano, rivisitati con algide sonorità d'oggidì. E se dico che questo disco, davvero da far suonare a lungo, mi ricorda i Merlot internazionalizzanti, non è per la potenza, ma, appunto, come dicevo sopra, per la loro linearità, la definizione del frutto, il velluto. Ché queste musiche son così, lineari, appunto, e cesellate e definite e avvolgenti, ancorché del tutto minimaliste. E se qualche spigolo di tanto in tanto sembra comparire, è subito ricomposto, come il legno nel frutto.
Peccato non abbia avuto grandissima diffusione, questo Cuore, tornato oggi alla ribalta perché una parte delle incisioni son dentro la colonna sonora del film Il Cosmonauta. Probabilmente, se lo cercate nei negozi di dischi non avrete miglior fortuna di me: non si trova. Sappiate che me lo son procurato nello shop on line di Casasonica, l'etichetta che l'ha prodotto. Vale la pena. Tra l'altro, credo funzioni bene come sottofondo da lounge bar o ristorante di tendenza.
Robertina & Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo - Cuore - 2006

17 ottobre 2009

Bob Dylan - Together Through Life

Angelo Peretti
Oh, accidenti: l'avevo proprio abbandonata questa mia rubrichetta del Music for Food, che avevo impostato un bel po' di tempo fa come mio personalissimo divertissement, ad unire la passionaccia per il cibo e il vino con quella per la musica (l'ascolto, intendo). Ora eccomi qui con questo recente cd di Bob Dylan nel lettore (volevo scrivere che è l'ultimo, ma in questi giorni è uscita un'inattesa, a tratti quasi surreale raccolta di brani natalizi), e mi vien voglia di riprenderla. S'intitola, questo disco, per me bellissimo, Together Through Life, e fin dalla prima volta che l'ho ascoltato, a inizio estate, e poi a ogni riascolto, sempre m'ha fatto avanzare un'idea vinosa: quella del Barolo. Invecchiato.
Già, volendo assimilare un vino a questo dico, be', non v'è dubbio, per me: Barolo con qualche bell'anno sulla groppa. Ché del grande rosso nebbiolista langarolo ci sono, assieme, l'aristocrazia e la rusticità, la viola e il tannino, il frutto e la lunghezza, la liquirizia e la freschezza. Che superano il tempo. Come la voce di carta vetrata di questo Dylan che torna a tirar fuori rock'n'roll d'antan e poi sofferte, dolcissime ballate e poi blues elettrici che tolgono il fiato.
Rassicurante come il Dylan che conoscevi, nuovo come il Dylan che non t'aspettavi. Come una grande Barolo, insieme, appunto, rassicurante nella sua corrispondenza al nebbiolo e al terroir, sempre nuovo man mano che evolve in bottiglia, con lentezza.
Bob Dylan - Together Through Life - 2009

14 maggio 2006

Thelonious Monk Quartet with John Coltrane - At Carnegie Hall

Angelo Peretti
Secondo me è andata così. Quella sera - era il ’57, il 29 di novembre – per chissà quale motivo nell’alto dei cieli e negl’inferi ci fu il rompete le righe. Così, angiolini e demonietti – un certo numero, un drappello - si trovarono in libera uscita. Finirono nello stesso posto, che era poi un teatro, la Carnegie Hall. Dove si faceva un concerto di beneficenza. Anzi, due, ché si suonò, pare, alle ott’e mezza di sera e poi a mezzanotte.
Dietro le quinte cominciarono a farsi gli sberleffi, e a bere diabolico whisky e angelico Southern Comfort, il malto e l’acero, il secco e il dolce, forti entrambi. Fu così che presero la sbronza e s’infilarono fra il pianoforte e il sax, la batteria e il contrabbasso. Insieme, Confondendo il reciproco ruolo. N’uscì fuori qualcosa che solo angeli e diavoli ubriachi potevano fare. E non se ne sarebbe poi dovuta avere traccia alcuna: s’aveva da cancellarne la memoria. Così era stato disposto. Così avvenne. Ché nessuno ricordava più davvero quel concerto.
Poi, chissà come, chissà perché, ecco ritrovato un nastro. Con la registrazione d’un po’ di quel concerto. Quel po’ degl’angeli e diavoli. Che avevano il fiato d’alcol. E la testa che ballava e le lacrime del blues. Prima che fossero richiamati nell’empireo e nel profondo.
Non può che essere andata così. Ché sennò non mi spiego come faccia ad esser tanto dolce e triste insieme e comunque di fort’impatto quel disco che adesso dal nastro s’è tratto. Al pianoforte Thelonious Monk, ispirato come non mai. Al sax John Coltrane che graffia l’aria e disegna nel fumo. La ritmica asseconda: al basso Ahmed Abdul-Malik, alla cassa e al rullante Shadow Wilson.
Grande, grandissimo cd, dopo quasi cinquant’anni, uscito dall’incisioni custodite alla Biblioteca del Congresso. Capolavoro? Sì, capolavoro.
Chissà che accadde, quella notte. Mai lo sapremo realmente. Ma possiamo ascoltarlo. Ci prende poi, magari, un’ebbrezza melanconica. E un po’ di cerchio alla testa Com’è normale che sia.
At Carnegie Hall – Thelonious Monk Quartet with John Coltrane - 2005

25 marzo 2006

Vassilis Tsabropoulos - Akroasis

Angelo Peretti
Per quarant’anni ho creduto che la vita potesse avere un lieto fine di là dalla vita. Poi ho visto morire mio padre e i dubbi si sono sovrapposti ai dubbi. Continuo però a pensare che dentro di noi si muova – e ci distingua – qualche cosa che chiamare anima è un po’ presuntuoso, ma che insomma esista, insieme al lato materiale della nostra esistenza, un che di spirituale. E di questo lato seguito ad avere rispetto, e rispetto ho verso coloro che vi credono di là di ogni ragione.
Che c’entra questo con la musica? Potrebbe entrarci perché s’usa dire che la musica è espressione, insieme, della mente e dello spirito. Ma ancora di più ti fanno riflettere e ti mettono in crisi e ti struggono lavori come il primo album solo – e ormai ha quattro anni sulle spalle – del pianista greco Vassilis Tsabropoulos. S’intitola «Akroasis». Rivisita in forma lenta e pigramente solenne e sussurrata, com’è tipico delle incisioni Ecm, arcaici inni sacri bizantini, su cui s’innestano moderne, placide improvvisazioni.
Musiche per il tempo di Pasqua. Meglio: musiche ispirate al tempo di Pasqua. Inni malinconici e solitari, come lo sono i giorni della sofferenza, quelli che viviamo, forzatamente, in solitaria melanconia, ché non c’è uomo o donna che possa condividere fino in fondo il nostro intimo patire. E se Pasqua terrena esiste – l’ultraterrena non so, mi confonde - e possiamo sperare di risorgere almeno un attimo dal nostro tribolare, ha prima lunga l’agonia della Quaresima, che è certa e umana e ci accomuna tutti. Ché due cose sole abbiamo sicure del nostro tempo: il nascere e il morire.
Serenamente, però, melanconici, risuonano questi canti del pianoforte. Forse a ribadire, sommessamente, che non siamo - solo – bestie, e che un momento di resurrezione lo possiamo davvero trovare anche nelle piccole cose, nei gesti donati, negli affetti che abbiamo saputo - voluto - regalare. E in fondo questo è tutto quel che abbiamo. Il tesoro dei nostri giorni di pellegrini della vita.
Aggiungo solo: per me, un capolavoro questo «Akroasis».
Akroasis – Vassilis Tsabropoulos - 2002

11 marzo 2006

Enrico Terragnoli Orchestra Vertical - L’anniversaire

Angelo Peretti
Vi piace il mambo? Mica quello da balera, da disfida danzante televisiva. Intendo invece
la versione elettrica, scarnificata, essenziale. Per capirci, quella di «Mambo sinuendo», l’intrigante, splendido lavoro sfornato da Ry Cooder e Manuel Galban nel 2002. Musica che cresce e t’ammalia alla distanza, come un bicchiere di vino a lungo affinato, che pretende e merita attenta, posata, pacata degustazione.
Ebbene: se questo è il mambo che vi piace, allora non perdetevi «L’anniversaire», il cd inciso da una band messa insieme da un musicista veronese di valore ben superiore alla fama. Lui si chiama Enrico Terragnoli, il suo gruppo è l’Orchestra Vertical. L’etichetta è quella d’un collettivo di musicisti jazz, El Gallo Rojo: farete probabilmente fatica a trovarla distribuita nei negozi di dischi, ma cercate, chiedete, esortate.
Il debito è riconosciuto, palesato: c’è il ringraziamento, nelle note di copertina, proprio a Ry Cooder. Il suono va via che è un piacere, lento ma inesorabile, vorticosamente pigro, indolente, sensuale perfino. Splende sugli strumenti la voce di Claudia Bidoli, una delle più belle del panorama femminile italiano, eppure nota a pochi, troppo pochi. Sue anche le liriche, tutte composte in francese, a rendere ancora più arcano il fascino dell’opera.
Musica calda, eppure anche tagliente. Che t’entra nelle vene. Come un sorso di rhum bevuto nella nebbia padana. Come un rimpianto che ti buca lo stomaco.
L’anniversaire – Enrico Terragnoli Orchestra Vertical - 2005

25 febbraio 2006

Architecture in Helsinki - In case we die

Angelo Peretti
E già, che adesso ci ho invidia per Alessandro Masnaghetti. Che sulla sua fanzine vinicola, la bella e spartana e pulita Enogea, s’è messo a dar anche consigli di musica. E già che ha ragione: è piacer della vita anche questo. Dunque, l’imito anch’io. Cominciando da un disco stranissimo, inquieto, intrigante.
Loro sono gli Architecture in Helsinki, e con la Finlandia non han nulla a che fare, ché sono australiani. E il disco ha titolo-istruzione: «In case we die». Tradotto è come: «Casomai morissimo».
Dicono che il genere è avant-pop. Cosa sia ‘sto avant-pop non lo so. Invece so che questo cd è nuovo, apre prospettive. Fa bene al cuore, alla mente, al ventre. È mutazione continua, è zibaldone di suono, richiamo al già udito che si trasforma però ogni volta in qualcosa di nuovo. Ogni brano, una piccola suite di musiche e rumori e vocine in pochi minuti. Surf, fanfara, melodia, calipso, filastrocca, punk, canzonetta. Brivido continuo, mai aggressivo.
Gli Architecture sono otto: un collettivo di musicisti, d’artisti. L’etichetta: Moshi Moshi. La reperibilità facile, nei buoni negozi di dischi.
Geniali.
In case we die – Architecture in Helsinki - 2005