Enrico Lucarini
Mi piace il sale. Ne ho collezionati molti, da ogni parte del mondo: dai cristalli piramidali delle saline di Cipro ai granelli del sale di canna del fiume Nzoia alle salgemme persiane.
Mi diverte a tavola improvvisare nuovi abbinamenti, provando ad anticiparne con la mente gli effetti sulle pietanze.
Spesso, quando apro la madia e m’interrogo se sia meglio prendere l’uno o l’altro prodotto, mi torna alla mente quando conobbi Andoni Luis Aduriz (chef del blasonato ristorante Mugaritz in terra d’Errenteria) e del discorso che fece.
Spiegò che sin da piccolo apprezzava la cucina, e in particolare quanto preparava sua madre, e che una volta le chiese quale fosse il segreto per cui un suo piatto fosse tanto squisito. La madre rispose che era buono perché l’aveva preparato con amore. Una risposta che credo tutti han ricevuto nella loro vita da parenti di un qualche grado. Ma Andoni non si fermò qui, si chiese invece cosa volesse dire “cucinare con amore”. E trovò pure la sua risposta: cucinare con amore voleva dire prestare la massima cura in ogni dettaglio. Bella risposta, peraltro condivisibile, forse non esaurisce la questione ma di sicuro ne pone in luce alcuni aspetti. E nel suo ristorante, lo chef Andoni vuole che si cucini con amore, visto che i risultati che si ottengono son poi migliori. E come ottenere tutto ciò? Semplice, obbligando la brigata in cucina alla massima attenzione. Ovvero “costringendo” a maneggiare gli alimenti solo con minute pinzette, a pesare anche la singola spezia. Anche il sale. Anzi, per il sale solitamente usava delle comprese prepesate (che oggi ritroviamo peraltro in molte cucine professionali).
Confesso che la cosa mi colpì molto, e tuttora mi chiedo se i risultati ottenuti con tale metodo siano effettivamente validi. A ben pensarci, quando andiamo a pranzare in un ristorante pluristellato, un po’ per l’impegno economico, un po’ per il titolo che sfoggia, non siam disposti a perdonar nulla. Una tovaglia con un errore di stiratura o una pietanza fuori temperatura non sono accettabili, così come una troppo sapida. Preferirei però che si miri ad ottener tale risultato non con una standardizzazione dei processi produttivi, ma con una vera e spontanea passione per cui ogni collaboratore in cucina assaggi, mediti, sbagli, corregga quanto sta preparando secondo il suo gusto, e non misurando i decimo di grado e il peso della foglia di basilico da usare.
Razionalità contro utopia? Può darsi, ogni giorno me lo chiedo.
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29 dicembre 2011
23 dicembre 2011
Fico!
Enrico Lucarini
Fico!
Questa è la prima cosa che ho pensato quando sorpassata Isera son giunto in un punto in cui il rumore del traffico era assente, e la vista sulla valle si donava.
Fico, quando ho visto l’insegna de Il Gallo, l’agriturismo in cui avevo prenotato la cena.
Fico, quando son arrivati gli antipasti…
Fico!
Questa è la prima cosa che ho pensato quando sorpassata Isera son giunto in un punto in cui il rumore del traffico era assente, e la vista sulla valle si donava.
Fico, quando ho visto l’insegna de Il Gallo, l’agriturismo in cui avevo prenotato la cena.
Fico, quando son arrivati gli antipasti…
31 luglio 2011
Bic-chi(?)-ere
Enrico Lucarini
Quanto conta quello che vediamo in relazione all'appagamento che proveremo di un vino?
Si dice molto, e credo sia vero.
E quanto questo ci può condizionare/ingannare sulla vera qualità del prodotto?
Probabilmente altrettanto.
Nel caso della foto, poi, rimarreste delusi.
Il bicchiere è sorprendentemente vuoto, complice un riflesso in un padiglione di SlowFish.
Quanto conta quello che vediamo in relazione all'appagamento che proveremo di un vino?
Si dice molto, e credo sia vero.
E quanto questo ci può condizionare/ingannare sulla vera qualità del prodotto?
Probabilmente altrettanto.
Nel caso della foto, poi, rimarreste delusi.
Il bicchiere è sorprendentemente vuoto, complice un riflesso in un padiglione di SlowFish.
10 luglio 2011
22 maggio 2011
Candid’o
Enrico Lucarini
E ingenuo come li Candido di Voltaire mi son sentito quando ho assaggiato questa canditura, che era la prima volta che tastavo un tal prodotto e che mai pensavo potesse esistere. E nemmen mi sfiorava l’idea che una ricotta candita potesse esser tanto gradevole. Che di questo si tratta. Deliziosa. Sembra una caramella mou, ma è molto meno appiccicosa, meno stucchevole e più bilanciata grazie anche a una certa acidità, la vaniglia poi ne completa la complessità del gusto donandole persistenza ed equilibrio. Una coagulazione delle sierocaseine, bacche di vaniglia, sciroppo e tempo (tanto, ne vanno almeno quindici giorni) per costruire un piccolo capolavoro. Io lo trovo perfetto per la transizione, quel momento cruciale e delicato del pranzo in cui i palati affaticati abbandonano i formaggi per passare ai dolci...
‘o.
E ingenuo come li Candido di Voltaire mi son sentito quando ho assaggiato questa canditura, che era la prima volta che tastavo un tal prodotto e che mai pensavo potesse esistere. E nemmen mi sfiorava l’idea che una ricotta candita potesse esser tanto gradevole. Che di questo si tratta. Deliziosa. Sembra una caramella mou, ma è molto meno appiccicosa, meno stucchevole e più bilanciata grazie anche a una certa acidità, la vaniglia poi ne completa la complessità del gusto donandole persistenza ed equilibrio. Una coagulazione delle sierocaseine, bacche di vaniglia, sciroppo e tempo (tanto, ne vanno almeno quindici giorni) per costruire un piccolo capolavoro. Io lo trovo perfetto per la transizione, quel momento cruciale e delicato del pranzo in cui i palati affaticati abbandonano i formaggi per passare ai dolci...
‘o.
17 aprile 2011
Testo e foto: Chiaré!
Enrico Lucarini
Buono buono buono! Accidenti, in genere non apprezzo più di tanto il bere mescolato, ma Andrea Palmisano con questo cocktail a base Bardolino Chiaretto ha fatto veramente centro. Va giù “a secchiate” questo Chiaré: di facile beva (poco alcolico) e intrigante (profumatissimo) ti seduce ancora prima che te ne possa rendere conto. Finitolo, il palato anela a ritrovare subito la sua freschezza, roba da bevitore seriale. Pure si sposa bene pure con l’aperitivo a tutto tondo: l’abbiamo provato con la trippa di Leandro Luppi e reggeva una meraviglia, e idem con il Monte Veronese nelle diverse stagionature!Che sia nata l’alternativa allo spopolante spritz? Provandolo ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad una di quelle grandi opere che segnano la storia, come chi per primo provò la pasta alla carbonara, per intenderci. Qualcosa che entrerà nella nostra vita quotidiana, una importante innovazione in punta di piedi. Chiaro?
17 marzo 2011
Testo e foto: t(Re)
Enrico Lucarini
O meglio 3. Già, tre spessori in un’unica pasta. Questo il segreto che una sera il signor Benedetto Cavalieri in modo quasi carbonaro ci rivelava: le ruote pazze (questa è la denominazione del formato) sono meravigliose perché han tre spessori differenti. I raggi son più sottili e risulteran ben cotti, il “battistrada” leggermente più spesso sarà al dente, ed il mozzo più che al dente. Vero. Deliziosamente vero. E la forma seduce e cattura la salsa, ed il dimensionamento è perfetto per il boccone. Il re dei formati.
È bello trovare la perfezione nelle piccole cose: in un numero o in una pasta dalla forma scherzosa.
Visto che ci siamo, complici col condimento abbiamo tre colori freschi di giornata: verde, bianco, e rosso.
O meglio 3. Già, tre spessori in un’unica pasta. Questo il segreto che una sera il signor Benedetto Cavalieri in modo quasi carbonaro ci rivelava: le ruote pazze (questa è la denominazione del formato) sono meravigliose perché han tre spessori differenti. I raggi son più sottili e risulteran ben cotti, il “battistrada” leggermente più spesso sarà al dente, ed il mozzo più che al dente. Vero. Deliziosamente vero. E la forma seduce e cattura la salsa, ed il dimensionamento è perfetto per il boccone. Il re dei formati.
È bello trovare la perfezione nelle piccole cose: in un numero o in una pasta dalla forma scherzosa.
Visto che ci siamo, complici col condimento abbiamo tre colori freschi di giornata: verde, bianco, e rosso.
23 febbraio 2011
Cotto DiVino

Enrico Lucarini
“Affinità elettive” per dirla alla Goethe, che della Sicilia ne descrisse le meraviglie. E meraviglia è quella che provai qualche giorno fa in Trinacria, quando al dessert mi fu suggerito di assaggiare arance fresche e vino cotto. Dall’espressione che accompagnò il mio annuire l’oste capì a volo che la mia era una scelta basata più sulla fiducia che sulla consapevolezza. Accennò un sorriso, e garbatamente spiegò che era tradizione far bollire i mosti fin a concentrarli a men d’un terzo, e quindi speziarli.
Il primo assaggio partì timido e un po’ prevenuto, ché temo le speziature troppo spesso invadenti e maldosate. Beh, con sommo piacere mi ritrovai invece ad assaporare un piatto di incredibile equilibrio, arance e vino si sposavano senza che mai l’una prevalesse sull’altro… un piatto di notevole freschezza, frutto fresco e frutto concentrato.
E, sarà un’eresia, trovai affinità al gusto fra il vin cotto e l’amato aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio. Affinità elettive, nella terra di cui tempo fa quel visitatore saggio scrisse: “Kennst du das Land, wo die Zitronen blühn, Im dunkeln Laub die Goldorangen glühn…”
31 gennaio 2011
Il tutto è maggiore della somma delle parti

Enrico Lucarini
Non resisto, lo ammetto. Tapas è per me una parola evocativa. Magica. Metafisica, oserei dire, visto che cito Aristotele. Amplificare le sensazioni del pranzo tramite una moltitudine di piccole porzioni, è frutto di genialità e sacrificio, ché s’ha da lavorare molto di più in cucina. Una piccola/grande lezione che i Baschi hanno regalato alla grande cucina, transitando per la nouvelle cuisine. Tutti i grandi chef oggidì offrono la possibilità (quando addirittura non obbligano come avviene ad esempio a El Bulli) di segliere fra uno o più menu degustazione, che altro non è che un pranzo a base di tapas. E in una tale occasione riusciamo realmente a comprendere ed apprezzare uno stile di cucina, una filosofia, vedere quali siano i valori che spingono uno chef ad aver scelto tale mestiere. E anche gli abbinamenti con le bevande si moltiplicano, così come la possibilità di giocare sugli abbinamenti con le bevande, di creare percorsi del gusto nel dipanarsi delle portate. Riusciamo a cogliere, raggiungiamo la percezione del tutto. E ci accorgiamo che è veramente superiore alla somma delle sue parti.
Grazie, piccole tapas.
16 gennaio 2011
L’età di lOro

Enrico Lucarini
Parrebbe volgere al termine, vivaddio. Mi riferisco a quella moda, mutuata dalla cucina indiana, di decorar dolci e dessert con foglie d’oro. Primo fu Gualtiero Marchesi, a giocare con il giallo del metallo e dello zafferano in un risotto. Poi, s’accodarono gli stellati. Liquori e altre vivande non ne passarono indenni, e la moda dilagò sempre più.
Eviterò di impantanarmi nella vexata quaestio sulla salubrità o meno di tale pratica, soffermandomi solo sull’aspetto estetico.
Ritengo che lo stupore sia uno degli ingredienti fondamentali della grande cucina (ché altro non vedo collegato a tale usanza), ma passare dallo stupire all’annoiare è passo breve.
E noia e fastidio è quello che provo quando mi è servita una pietanza “dorata”: provar a rimuovere la lamina è opera vana, tanto è impalpabile, e altro non si può fare che ammetterla nel boccone.
E questo pur basterebbe, ma la sensazione di “ecco: lo facciamo anche noi” infastidisce ancor di più. Soprattutto quando si tratta di ristorazione di alto livello. Un riutilizzo non è mai sorprendente.
Tornare quindi in uno dei posti a me preferiti e scoprire che tutti i dolci serviti sono ora gold-free è stato un gran piacere. Ché a “El celler de can Roca” c’eran caduti anche loro in passato. Ed il posto è sì un ristorante d’altissimo livello, ma è soprattutto uno di quelli che fa scuola, dove molti chef con ambizioni vanno in pellegrinaggio ad imparar nuovi sapori e nuove tecniche ed a trovar ispirazioni.
Spero che la lezione che porteranno a casa sia che è meglio stupire col sapore, e con l’ingegno com’è riuscito a fare questa composizione di Jordi (il fratello dei Roca dedicato ai “postres”), ricomponendo il gusto delle vaniglia del Madagascar con quattro elementi base (caramello, liquirizia, olive nere caramellizzate e disidratate).
Assaggi i quattro elementi, assaggi il gelato di vaniglia in fianco, e… ti stupisci.
6 gennaio 2011
BioMASse

Enrico Lucarini
Acqua non addizionata di cloro. Sale integrale della Normandia. Pasta di grano duro essiccata in quarantotto ore. Burro da panna fresca. Habanero. Papavero. Nigella. Sesamo nero. La tentazione (soffocata) di aggiungere impunemente del parmigiano del presidio delle vacche bianche. Cottura passiva della pasta, come catechizzato da Elio Sironi per intenderci.
Ah, la salsa di pomodoro‽ Direttamente da Pozzuoli. Biotech. Ma non ogm: “mas”. Acronimo di Marker Assisted Selection. In questo caso da un incrocio di San Marzano e Black Tomato. Che dire, usualmente in campo biotech son molto conservatore, tanto quanto son filo rivoluzionario per le arti in cucina. Mi spinge a tale chiusura la consapevolezza del “non ritorno”, del fatto che reputo vi siano precipuamente interessi di pochi, sulla pelle dell’intera biosfera. In particolare mi spaventano le modifiche genetiche volte a creare resistenze, non credo sia corretto creare una superpianta che possa avere il sopravvento sulle altre, alterando equilibri stabiliti in millenni. E la salsa di pomodoro “mas”? Non lo so, la faccenda mi perplime, ho ripromesso a me stesso di rifletterci. Di sicuro la pasta era deliziosa.
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