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8 luglio 2011

Di vermentino e altri vitigni

Mauro Pasquali
La Sardegna è (giustamente) nota per il suo mare e le sue spiagge, che nulla hanno da invidiare ad altrettanto famose destinazioni esotiche. Purtuttavia la Sardegna che amo è diversa, per lo più sconosciuta e poco frequentata se non da coloro che hanno avuto la fortuna di scoprirla. In ogni caso, come condannare, soprattutto d’estate, coloro che non sanno resistere al richiamo di bianche spiagge e mari cristallini? Ecco, quindi che, dopo un’intensa giornata passata in mare o in barca, pare quasi un miraggio un calice di vino bianco secco e fresco, da accompagnare a piatti di pesce, spesso, ma (ahimè) non sempre, freschissimo e ben fatto.
Per una volta, quindi, non parlerò della Sardegna che più amo, quella dell’interno, legata ai pastori e a una cucina “terricola”, dove agnelli, pecore, maialini e formaggio la fanno da padrone. Piatti con i quali, ovviamente, si beve Cannonau, Cagnulari, Carignano, Monica: vini rossi, intensi e inebrianti come il paesaggio della Barbagia, del Logudoro, della Gallura, dell’Ogliastra, del Sulcis.
Per una volta racconterò della Sardegna più immediata e facile, di quella legata alle coste e alla sua cucina, quasi tutta d’importazione e così poco sarda. Una cucina che ha nel pesce e nei crostacei (spesso pescati molto lontano dalle coste sarde) gli ingredienti principe. E come non parlare, a questo punto del vino che li accompagna quasi immancabilmente? Quel Vermentino che, normalmente servito a temperature polari, è comunemente apprezzato più per la sua temperatura che per le sue qualità enologiche? Ovvio che non sempre (per fortuna) è così e la riprova è la sequenza di Vermentini che ho avuto occasione di assaggiare di recente. Cosa dire: una qualità media buona, con punte di eccellenza (anche se il vino che più mi è piaciuto, il Capichera, pur essendo vermentino in purezza, non si fregia della docg e neppure della doc, per scelta del produttore) e qualche perplessità per delle bottiglie un po’ troppo orientate sul “gusto internazionale”, con qualche ammiccamento piacione e qualche cedimento alla dolcezza che, francamente, in un Vermentino non mi aspetto.
Un ultimo appunto sull’Iselis, dove l’uva nasco è quasi in purezza: molto interessante la scelta di Argiolas di cimentarsi in un prodotto dove il vermentino dona freschezza ed acidità ad una base con notevole struttura e stoffa.
Vermentino di Gallura Superiore Aghiloia 2010 Cantina del Vermentino
Naso complesso con sentori di mandorla amara. Bocca fresca e vellutata. Finale secco e pulito
Due beati faccini :-) :-)
Vermentino di Gallura Funtanaliras 2010 Cantina del Vermentino
Naso di fiori bianchi d’acacia e mela cotogna, vaghi accenni di mandorla amara. Bocca asciutta, morbida e pulita.
Un faccino :-)
Vermentino di Sardegna Costamolino 2010 Argiolas
Naso sottile, teso e al tempo stesso delicato. In è bocca secco e gradevole con buona sapidità. Finale asciutto.
Due faccini :-) :-)
Vermentino di Sardegna Tyrsos 2010 Contini
Profumi delicati di fiori bianchi e mandorla amara. Bocca sapida con buona acidità. Sconta un finale vagamente ammiccante nella dolcezza.
Un faccino :-)
Vermentino di Sardegna Donnikalia 2010 Ferruccio Deiana
Naso un po’ chiuso, vaghi sentori di mandorla. Una bocca secca e sapida ma che non mi ha entusiasmato.
Un faccino scarso :-)
Vermentino di Sardegna Pariglia 2010 Contini
Profumo intensi, morbidi, con vaghi sentori di frutta bianca. Bocca fresca e sapida, con finale forse un po’ troppo ammiccante.
Un faccino :-)
Vermentino di Sardegna Mattarriga 2010 Chessa
Naso floreale e di mandorla. Bocca fine e morbida caratteristica. Buon finale amarognolo.
Un faccino :-)
Isola dei Nuraghi Iselis Bianco 2009 Argiolas
Uve nasco con saldo di vermentino. Affina due mesi sulle proprie fecce e una piccola parte fermenta in barrique. Naso di fiori gialli e frutta tropicale con piacevole nota muschiata. In bocca gradevolmente sapido, quasi salato di salgemma, leggermente amarognolo, con un bel finale lungo e teso.
Due beati faccini e quasi tre :-) :-)
Isola dei Nuraghi Capichera 2009 Capichera
Vermentino in purezza. Naso complesso e ampio di erbe aromatiche e frutta gialla, melone e ananas in primis. Note evidenti di pietra focaia. Una bocca tesa, secca, viva: si apre con frutti gialli maturi e conclude lunghissimo con grande mineralità e sapidità.
Tre beati faccini :-) :-) :-)

12 maggio 2011

La Garganega sui lieviti – vino frizzante naturale – dell'azienda agricola Menti Giovanni

Mauro Pasquali
E perché, si è domandato Stefano Menti, non cimentarsi con una Garganega “sur lie” o, meglio, “sui lieviti”, come ama chiamarla lui? Tra il dire e il fare c’è di mezzo un anno. Un anno che ha permesso di migliorare e affinare la tecnica, con un bel lavoro di squadra con il padre Giovanni, che firma anche la bottiglia. Non che la versione 2009 non fosse valida, per carità, tant’è che di bottiglie dell’anno passato in cantina non ce n’è traccia, complici, oltre alla qualità del prodotto, un prezzo decisamente interessante e un mercato sicuramente ben disposto verso questa tipologia di vino.
Oggi, all’uscita dell’annata 2010, colgo l’opportunità di assaggiare questa Garganega. Un vino ideale per l’estate, grazie alla bella acidità e freschezza e alla piacevole rifermentazione causata dalla sapiente aggiunta di una piccola dose di mosto di Recioto di Gambellara. Gli zuccheri e i lieviti, presenti naturalmente nel mosto, provocano la rifermentazione in bottiglia. Pétillant direbbero i francesi, frizzante lo chiamiamo noi italiani, ché la pressione in bar in bottiglia non supera i 2,5 e per legge non lo si può definire spumante. Ma tant’è: all’atto di versarlo nel bicchiere ti sorprende per la sua spuma compatta e persistente, per il perlage fine, considerata la tipologia di vino, tanto che potresti scambiarlo tranquillamente per un metodo charmat, non fosse per la naturale torbidità dovuta ai residui di lieviti. Al naso balzano evidenti le note agrumate e i sentori minerali classici della garganega. Una bocca pulita e sapida con una bella lunghezza rendono piacevole la beva di un vino che sarà indubbio compagno di molte serate estive.
Un vino non impegnativo ma, proprio per questo da apprezzare anche da solo, come aperitivo, bella alternativa a più famosi e modaioli vini.
Due beati faccini :-) :-)

2 maggio 2011

Il racconto della capsula a vite

Mauro Pasquali
Qual è il problema della scarsa diffusione del tappo (o, meglio, capsula) a vite in Italia? Sicuramente la prevenzione e la diffidenza verso una chiusura che, soprattutto in chi di anni non ne ha pochi, porta a lontani ricordi di vini dozzinali chiusi con un improbabile tappo a vite di alluminio. Nulla di più diverso dalle moderne chiusure a vite ma le credenze e le diffidenze sono radicate e dure da superare.
Quale il modo migliore per superare diffidenza e ignoranza, si è chiesto Stefano Menti, giovane ed entusiasta viticultore in quel di Gambellara? Educare e informare, è stata la risposta.
Come raggiungere il maggior numero di persone con un messaggio efficace e, al tempo stesso, non eccessivamente costoso, visti i tempi? Usare il mezzo stesso oggetto del contendere: il tappo a vite.
Così, oggi, possiamo trovare il Paiele, Gambellara dell’Azienda Menti, con la chiusura Stelvin in cui fa bella mostra il racconto del tappo a vite:
"Perché la capsula a vite?
Per conservare al meglio i vini di pronta beva
Per rendere più agevole apertura e chiusura
Perché il metallo con cui è fatta è riciclabile
Per escludere interferenze sempre più frequenti con sughero e sintetici".

19 febbraio 2010

Cristiana Meggiolaro e un sogno nato a Gambellara

Mauro Pasquali
Quando due ragazzi giovani decidono di dare corpo ad un sogno, spesso devono fare i conti con le concretezze quotidiane, con la realtà che non sempre è benigna, con i piccoli problemi di tutti i giorni che gradualmente rischiano di far spegnere la fiamma che porta a sognare e mantiene vivo il sogno. Sia che il sogno significhi una vita insieme, sia che, più concretamente voglia identificare la realizzazione di un progetto lavorativo.
Cristiana Meggiolaro e Riccardo Roncolato il loro sogno lo stanno realizzando quotidianamente, nella vita come nel lavoro. Con loro non riesci a capire dove finisce il sogno privato, personale e dove inizia quello pubblico, lavorativo. O, forse, è proprio questo che rende particolare ed unico il loro progetto.
Quattro ettari e mezzo di vigneti abbarbicati in una delle più belle zone viticole di Gambellara: il Monte Calvarina. Più un ettaro, che entrerà in produzione fra un paio d'anni, nella stessa zona ma in comune di Roncà, terra di Soave, giusto per continuare a tenere accesa la fiamma del sogno.
Un territorio straordinario che loro, grazie al loro sogno ma anche a tanta pazienza e a tanto lavoro, sono riusciti a racchiudere nei loro vini. Due soli, per ora, ché il Recioto ha bisogno di tempo, amore e tranquillità per essere pronto.
Due vini che racchiudono tutte le potenzialità di questa zona, seconda a nessuno. Due vini con un unico filo conduttore, ma personalità completamente diverse. Due vini che, alla loro prima uscita, si collocano subito ai vertici qualitativi della zona.
Se questi sono i risultati di chi sogna, ci vorrebbero più sognatori in questo mondo. Ci vorrebbero più persone disposte a rischiare, inseguendo un ideale, un sogno, trascurando critiche, consigli, ammonimenti. Di persone posate e concrete è pieno il mondo, per cui: grazie a chi ancora ha il coraggio di sognare!
Gambellara Classico 2008 Cristiana Meggiolaro
Si apre con un naso di una freschezza e mineralità sorprendenti. Sasso moro, tufo, fra cui emergono sentori di mandorla e pera. In bocca la freschezza e la sapidità si accompagnano ad un frutto molto elegante. Finisce lunghissimo con una bocca bella pulita.
Due beati faccini :-) :-)
Gambellara Classico Ceneri delle Taibane 2008 Cristiana Meggiolaro
Le Taibane è la zona in cui sono collocati i vigneti. Le ceneri quelle del vecchio vulcano spento che donano a questo vino la sua spiccata mineralità. Ancora parzialmente nascosta, per la verità, dai sentori fiori bianchi, gelsomino soprattutto. Le note salmastre, quasi saline, ne fanno un vino complesso, per il quale cui intravedo un futuro particolarmente longevo. Un vino che darà il meglio di se fra tre/quattro anni.
Due beati faccini, quasi tre :-) :-)

15 febbraio 2010

Quale futuro per il Durello?

Mauro Pasquali
Non si può certo dire che il Consorzio del Durello, nonostante la piccola dimensione della doc e il fatto che questa è compressa fra un colosso come la zona del Soave ed una emergente come quella di Gambellara, non si faccia notare! Non bastassero giornalisti, wine blogger e opinionisti (si dice così, vero?), anche il Consorzio si interroga e si domanda: quale futuro per il Durello?
Ma credo che il Consorzio ed i produttori prima di tutto si siano domandati e si stiano domandando: esiste un futuro per il Durello? Non vorrei essere frainteso: un futuro il Durello lo ha eccome. Se non altro per la capacità di passare in una decina d'anni da 50mila a 500mila bottiglie vendute nelle varie versioni. Se non altro per la capacità di trasformarsi da vino aspro e duro in vino che “se lo conosci non puoi non innamorartene”. Se non altro perché, ultimo ma non meno importante: il Durello piace ed assai!
Il futuro che mi domando (e credo se lo siano domandato anche i produttori) se esisterà per il Durello è un futuro ben identificato e che continui a evidenziare quella forte personalità che contraddistingue il Durello. Mi spiego meglio: possiamo inseguire le mode e possiamo scimmiottare altre grandi produzioni, oppure possiamo valorizzare ed esaltare le caratteristiche peculiari del Durello. Possiamo produrre un vino che imita altri prodotti oppure produrre un vino che si faccia riconoscere, anche con qualche difetto, ma, sempre e comunque un vino fortemente caratterizzato e che identifichi e sia identificato dal territorio in cui nasce.
Il disciplinare cambia nuovamente, ci dice Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio del Durello. La terza volta in pochi anni. Certamente il mondo del vino è fortemente cambiato dalla fine degli anni Novanta e forse occorreva fare qualcosa. Finalmente, dopo anni, il territorio, gli uomini, il vino cominciano a contare più dell'etichetta, del blasone. E questo credo - mi auguro - sia stato lo spirito che ha portato ad individuare la necessità di questa revisione. E far nascere due disciplinari: uno per il Lessini Durello ed uno per il Monti Lessini. Il primo regola la produzione delle varie tipologie di Durello, dove l'uva durella deve essere presente almeno all'85%. Il secondo disciplinare regola la produzione degli altri vini: bianco con almeno il 50% di chardonnay e rosso con almeno l'85% di pinot nero.
Che dire? Che forse è mancato un po' di coraggio. Il coraggio di fare un Lessini Durello solo in purezza o, al massimo, di aggiungere quel 15% di sole uve pinot nero. Rimango perplesso dal ventaglio di possibilità: garganega e/o pinot bianco e/o chardonnay e/o pinot nero. Quale sarà l'anima comune di ciò che ne deriva? Quale il comune denominatore di prodotti che avranno. almeno potenzialmente, molte differenze? E il consumatore, quando acquisterà una bottiglia di Durello, ricordando un certo vino che tanto gli era piaciuto e troverà un prodotto diverso (non meno buono: diverso), come reagirà?
Lasciamo tempo al tempo e proviamo ad immaginare il futuro. Un futuro che ben è stato delineato nel corso di una serata dedicata, appunto, al tema: “Il Durello: ieri, oggi e domani”.
L'occasione, ben ospitata nella splendida Officina di Gustolocale a Trissino, ha visto protagonista assoluto il Durello in tre versioni: fermo, spumante metodo italiano (o charmat) e spumante metodo classico. A condurre la serata l'amico Franco Ziliani, con la maestria e la verve che gli riconosciamo tutti.
Dirò diffusamente della versione ferma, la meno nota ed apprezzata, ma, non per questo quella da snobbare. Tre soli i vini e due soli i produttori, ché pochi vignaioli la fanno. Tre prodotti, però che incarnano, pur con le dovute e doverose differenze, l'anima del Durello. Perché di anima si tratta. Come non definire tale quella caratteristica che ho trovato comune a tutt'e tre i vini? Tre vini diversi ma altrettanto intriganti ed emozionanti. Del Durello di Sandro de Bruno ho già parlato a suo tempo: posso solo confermare le sensazioni che mi diede, esaltate ancor più dal tempo passato: il territorio, quella mineralità basaltica che emerge e mi fa subito pensare al Monte Calvarina. La freschezza e la sapidità che regalano grande finezza al vino. Anno dopo anno.
Del Durello Superiore di Casa Cecchin posso solo dire che è un vino che mi è sempre piaciuto e continua a piacermi: un bel profumo delicato ma deciso, la mineralità che esce ad ogni sorso.
Del Durello Pietralava, sempre di Casa Cecchin, ne parlo per la prima volta. Lo assaggiai in vasca, molti mesi fa e mi piacque. Poi, complice un imbottigliamento recente, rimasi perplesso: non lo riconoscevo più. E rimasi confuso: possibile che quel vino si fosse perso? Ora ho trovato il bandolo della matassa: il Durello è vino che abbisogna di lungo affinamento, anche in bottiglia, a dispetto di chi lo ritiene vino da pronta beva. Anche nella versione ferma: ecco trovato il filo conduttore e l'anima di questi Durelli. Un vino che comincia a dare il meglio di sé dopo mesi, anni dall'imbottigliamento e, quindi, una speranza e una richiesta ai produttori: lasciatelo dormire nelle vostre cantine e distribuitelo un anno dopo. Questo è il Pietralava, ma anche il Durello di Sandro de Bruno e anche quello Superiore di Cecchin: vini che, come tutti i grandi vini, cominciano a dare il meglio di sé qualche anno dopo la vendemmia. Così mi è parso il Pietralava: un vino che solo ora, ad un anno e passa dalla vendemmia, comincia a vivere ed ad emozionare.
Poi i cosiddetti “spumanti”. Concordo con Franco Ziliani: basta con questo termine! Basta con un nome che accomuna tutto e il contrario di tutto! Per cui, complice il nuovo disciplinare del Lessini Durello, d'ora in poi lo chiamerò Lessini Durello Metodo Italiano e Lessini Durello Metodo Classico.
Otto erano i vini in degustazione: quattro della prima tipologia e quattro della seconda, ché dei due intrusi, inseriti ad arte per far discutere, non parlerò. Bella la scelta di servire solo magnum: il formato che più si addice ai gradi spumanti (pardon!). Ancor più bella la scelta di servire i vini rigorosamente alla cieca: nessun cedimento all'etichetta e al nome del produttore.
Un filo conduttore credo di averlo trovato: la mineralità ed i sentori agrumati per i primi (metodo italiano) e l'acidità , la bella vena ossidativa (quasi da Champagne), ancora la mineralità e le note di frutta secca per i secondi (metodo classico).
Un elemento di disturbo: quanta variabilità in un prodotto che nasce in un fazzoletto di terra! Forse l'elemento cantina prevale ancora troppo sull'elemento territorio: quando (e se) i produttori riusciranno a non dimenticare (e alle volte a a non eliminare) le caratteristiche della durella, forse questo grande, splendido vino uscirà dal limbo provinciale (sempre per dirla con Franco Ziliani) e comincerà a fare (seriamente e non solo a parole) concorrenza agli altri grandi metodi classici.
Durello Lessini Spumante Brut Cantina dei Colli Vicentini
Al naso emergono sentori citrini e floreali accompagnati da bella vena acida. In bocca discreta mineralità con forse eccessiva morbidezza. Un bel vino da aperitivo.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Prime Brume Cantina di Gambellara
Bel naso minerale con vaghe note agrumate. In bocca leggera speziatura con un finale lungo dove emergono note di frutta secca.
Due faccini :-) :-)
Lessini Durello Spumante Brut Cantina di Montecchia di Crosara
Le bottiglie aperte presentavano purtroppo problemi ossidativi. Ricordo che lo assaggiai molti mesi fa e mi colpì, in una degustazione alla cieca, per il suo saper stare alla pari con più blasonati metodi classici.
Non classificabile
Lessini Durello Spumante Brut Cantina di Monteforte d'Alpone
Bel naso che gioca fra la florealità e la mineralità. In bocca delude un po': entra bello amarognolo ma finisce con una vena eccessivamente dolce.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico Corte Moschina
Un appunto: peccato la mancata dichiarazione dell'anno della vendemmia. Ma è stato promesso che dal prossimo anno ci sarà. Al naso colpisce il bel bell'aroma floreale. In bocca è fresco e minerale. Denuncia l'eccessiva giovinezza: la durella è uva che deve rimanere sui lieviti molto a lungo…
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico 2005 Casa Cecchin
Al naso una leggera nota ossidativa accompagna la frutta secca e la prepotente mineralità. In bocca forse sconta una eccessiva invadenza del liqueur d'expédition che comunque svanisce presto a vantaggio di una grande sapidità ed armonia. Finale molto lungo e gradevole
Tre faccini :-) :-) :-)
Lessini Durello Etichetta Nera Riserva 2004 Fongaro
Bellissima nota ossidativa molto intrigante. Emergono note di frutta secca, crema, vaniglia. In bocca le belle note speziate denunciano l'uso sapiente del legno. Begli aromi di frutta matura. Finale lungo e gradevole
Due faccini e quasi tre:-) :-)
Lessini Durello Brut Metodo Tradizionale 2003 Marcato
Al naso frutta secca con preponderanza di nocciola e mandorla tostata. Costa di pane e vaniglia. In bocca discreta mineralità con eccellente equilibrio. Un eccellente prodotto ma forse il meno “durello” dei metodi classici degustati.
Due faccini e quasi tre :-) :-)

19 gennaio 2010

Riso amaro

di Mauro Pasquali
È proprio vero che non bisogna mai abbassare la guardia! Abbiamo appena fatto in tempo a portare a casa una legge (finalmente) degna di questo nome sull'etichettatura dell'olio d'oliva e la tutela del consumatore, che lo stesso problema ci si ripresenta, quasi identico, con il riso.
Un disegno di legge, a primo firmatario Roberto Rosso, deputato torinese del Pdl, ma che ha già ottenuto alla Camera dei Deputati il voto favorevole o l'astensione di tutti i gruppi politici, prevede che, a causa dell'aggiornamento delle norme sull’etichettatura del riso, sarà possibile di non indicare con esattezza la varietà (vialone nano, carnaroli, arborio, ecc.) e l'origine del riso contenuto nel pacchetto, ma solamente la sua granulometria, cioè le sue dimensioni, e le sue caratteristiche biomediche. Non importa, quindi, la varietà della pianta da cui è nato il riso, ma quanto grande o perfetto è il chicco.
Un grande assist all’industria e ai grandi confezionatori e commercianti, che potranno utilizzare riso di qualità inferiore e, magari, proveniente dai paesi asiatici, al posto di prodotti qualitativamente superiori ma più costosi da produrre. Facciamo un esempio: se questo legge passasse anche in Senato, sarà possibile vendere confezioni di riso non già contenenti un'unica varietà, come oggi avviene, bensì inserire in un’unica confezione varietà similari per caratteristiche e parametri biomedici, per esempio raggruppare l'eccellente carnaroli (più costoso da produrre) con il karnak, varietà simile, più coltivata, ma meno pregiata e con scarso valore in cucina.
Un grande passo indietro per le garanzie ai consumatori e la difesa della rintracciabilità dei prodotti italiani.
Ancora una volta, con l'alibi di recepire direttive comunitarie (ricordate il caso delle banane o delle carote e della loro pezzatura minima imposta per legge? Come se la qualità di un prodotto si misurasse in centimetri!) si cerca di far passare una legge che va in direzione diametralmente opposto alla tutela della biodiversità e della qualità dei prodotti agroalimentari.

23 settembre 2009

Achaval-Ferrer, quando l'Argentina esprime il territorio

Mauro Pasquali
La cantina Achaval–Ferrer nasce dall'intuito di Roberto Cipresso che riesce a convincere un gruppo di amici argentini ad acquistare un vigneto di oltre 90 anni in stato di completo abbandono e destinato a morire di lì a breve. Poco alla volta si sono aggiunti altri vigneti, tutti caratterizzati da un'età media delle vigne molto alta (oltre 44 anni) e dalla assoluta predominanza di malbec a piede franco, inattaccabile dalla filossera a causa della particolare composizione del terreno.
Siamo in Argentina, vicino a Mendoza, zona classica di produzione. Ma se pensate ai soliti vini argentini, muscolosi, potenti e che sanno solo di legno, state sbagliando.
Sono vini quasi europei, eleganti e che esprimono in modo netto e caratteristico il territorio da cui provengono, senza nasconderlo e senza mascherarlo dietro un gusto omologato.
In cantina sono molti i no che Achaval-Ferrer ha deciso di dire, a cominciare da un bel no a solforosa aggiunta, a correzioni di acidità, a chiarifiche, a criomacerazione, a filtraggi, a lieviti selezionati. Un bel no deciso che ha permesso di guadagnare in personalità, a tutto vantaggio del rispetto del terroir e di ciò che riesce ad esprimere.
Malbec Mendoza 2008
Il fratello minore dei vari Finca Altamira, Bella Vista, Mirador. Malbec in purezza, coltivato a quasi 1000 metri di altitudine e che racchiude in sé la filosofia aziendale: un vino nel quale, prima di tutto, devi riconoscere l'Argentina. Grande frutto al naso, accompagnato da note speziate e di tabacco. In bocca conferma quanto promesso con l'accompagnamento di una grande freschezza. Un bellissimo retrogusto agrumato caratteristico di tutti i Malbec di Achaval–Ferrer.
Due beati faccini: :-) :-)
Quimera 2007
Un taglio bordolese classico. Le proporzioni delle uve variano a seconda delle annate ma, ormai, con una costante predominanza di malbec (40-45%). Poi, a seguire, merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc. La scelta di miscelare i vini prima della fermentazione mallolattica è voluta per ricercare il migliore equilibrio possibile fra le varietà, con l'aspirazione di ottenere un vino con un'“unica anima”. Una chimera, appunto, anche sapendo che è impossibile da ottenere in ogni anno.
Un faccino: :-)
Finca Altamira 2007
Il malbec lascia il passo al terroir. Le caratteristiche varietali sono sopraffatte dalla forza degli altri elementi: terreno, clima, minerali che emergono dal vino e che donano quella complessità aromatica che ne fa un fuoriclasse. In bocca entra morbido, con tannini sorprendentemente eleganti per un vino giovane, a neppure tre anni dalla vendemmia (in Argentina si vendemmia in marzo) ma che avrà davanti a sé una vita lunga lunga. Il finale è sorprendentemente lungo, quasi interminabile.
Tre beati faccini: :-) :-) :-)

7 agosto 2009

Il Durello che mi piace

Mauro Pasquali
Non poteva che finire così: tirato per la giacca (anche se in questa calda estate ormai ho dimenticato la giacca nell'armadio da un pezzo), ma non più di tanto, ritorno a parlare di Durello. Anzi, del mio Durello, di quello che mi dà sensazioni, che mi emoziona quando ne apro una bottiglia e, soprattutto, quando la bevo.
Gli amici, scherzosamente, mi dicono che sono un po' maniaco: se c'è da aprire una bottiglia di bollicine italiane, al 90% è una bottiglia di Durello. Oddìo, in altre zone d'Italia vi sono sicuramente prodotti che ricevono punteggi superiori nelle varie guide, ma per me, quando si parla di bollicine italiane, la prima scelta cade sempre sul Durello. Chiamatela mania, chiamatelo sciovinismo (i francesi hanno molto da imparare da me...), chiamatelo amore per un territorio e per chi vive quel territorio, ma il fatto è questo: vini come il Durello delimitano (o, meglio, dovrebbero delimitare) il confine fra coloro che nel vino vogliono trovare e sentire il territorio e coloro che si accontentano di un anonimo prodotto, sicuramente ben costruito ma così desolatamente privo di personalità e incapace di emozionare.
Non parlerò dei Durelli che non mi piacciono. Vorrei scrivere che non esistono Durelli che non mi piacciono ma, purtroppo, ciò non è vero. Poi qualcuno dirà: ovvio, i Durelli di cui non ha scritto, non gli piacciono e sono quelli che vorrebbe mettere all'indice. Non è così. Per una volta smettiamo di dividere il mondo in bianco e nero, in giusto e non giusto. Per una volta permettetemi di scrivere di ciò che mi piace e basta. Punto.
Per una volta non darò faccine, giusto per non fare una classifica che servirebbe a poco. L'obiettivo oggi non è questo. Oggi vorrei togliermi lo sfizio di mettere una prima pietra nella costruzione di quell'incontro sollecitato da Paolo Menapace. Un incontro che vedrà (lo spero) tutti (sottolineo: tutti) i produttori di Durello e qualcuno, come il sottoscritto ed altri che amano il Durello e lo vogliono veder sempre più diffuso, magari a cominciare dai locali veneti che, a parte Prosecco e Franciacorta, sembra non conoscano altre bollicine. Ma, soprattutto, lo vogliono coerente, con personalità e caratteristiche proprie: di Prosecchi e Franciacorta è pieno il mondo!
Monti Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico – Casa Cecchin
Troppo facile cominciare con il Durello di Cecchin: un classico (non solo nel metodo). Quattro anni sui lieviti donano sentori di frutta secca tostata, un perlage fine e persistente, profumi freschi e delicati. Ma è soprattutto la mineralità: quelle note che nascono dai terreni vulcanici su cui le vigne sono coltivate, che affascinano e conquistano. Un vino che apro, volentieri, per tutto pasto.
Monti Lessini Durello Spumante Extra Dry Metodo Charmat – Cantina Sociale Valleogra
Un vino piacevole, senza quella voglia di stupire (non riuscendoci) che altri hanno. Una bella alternativa al Prosecco come aperitivo non impegnativo (se solo le nostre enoteche e i nostri ristoratori promuovessero il Durello). Anche il prezzo è piacevole.
Monti Lessini Durello Spumante Extra Dry Metodo Charmat – Cantina Colli Vicentini
Vale quanto detto per la Cantina della Valleogra: una piacevole alternativa ad altre più famose bollicine. Come aperitivo, naturalmente.
Monti Lessini Durello Superiore – Sandro De Bruno Ritrovo, a dispetto di una forse eccessiva morbidezza, il territorio, quella mineralità basaltica che mi fa subito pensare al Monte Calvarina. La freschezza e la sapidità fanno il resto, regalando una bella finezza al vino.
Monti Lessini Durello Superiore – Casa Cecchin
Un bel profumo delicato ma deciso, la mineralità che esce ad ogni sorso. Una bella beva fresca e sapida. Un bell'abbinamento con alici e sarde.
Oddìo, solo ora mi sono accorto che ho inserito, salvo Sandro De Bruno, solo produttori vicentini. Non me ne vogliano gli amici veronesi. La scelta non è geopolitica ma esclusivamente organolettica. Altri prodotti veronesi mi avevano entusiasmato tempo fa ma, ora, non li riconosco più.

14 luglio 2009

C'era una volta il Durello

Mauro Pasquali
Questa è una favola e, come tutte le favole, dovrebbe avere un lieto fine. Ma qualche volta anche le fiabe non finiscono proprio così bene. Il finale di questa fiaba non è ancora scritto e forse non lo sarà mai. Ognuno è libero di immaginarlo lieto o triste. Da parte mia vi è, al momento, una grande paura: che il Principe Azzurro non giunga in tempo per svegliare Biancaneve.
Esisteva una volta, sui monti che fanno da confine fra le province di Vicenza e Verona, un'uva che dava un vino aspro, acido, quasi imbevibile. Non per nulla l'uva aveva diversi nomi, ma tutti richiamavano le sue caratteristiche: cagnina, rabiosa, durasena, caina, quasi a voler indicare, e così era, un'uva scorbutica, difficile da trattare e da vinificare. Il vino che se ne otteneva, dicevano i contadini, aveva “garbo”, intendendo con questo non la gentilezza, bensì l'esatto opposto.
Poi arrivarono dei vignaioli che cominciarono a capire la durella e a trattarla meglio. Cominciarono a farla maturare e, soprattutto, cominciarono a vinificarla nel modo che le è più congeniale, spumantizzandola. Sì, perché la durella ha naturalmente un'acidità fra le più alte delle uve conosciute e questo la rende oltremodo adatta ad essere spumantizzata, sia che si produca un metodo classico, sia che si opti per un più veloce charmat.
Queste persone non dimenticarono, poi, che il durello era anche un vino di tutti i giorni, da pasto, e cominciarono, pian piano, a migliorare anche il vino fermo, rendendolo bevibile e gradevole al palato.
E venne la stagione d'oro del Durello: inizialmente tre, quattro produttori, poi, via via sei, sette, dieci. Oddio, non numeri grandi come altre zone, ma pur sempre bei numeri per il Durello. Numeri interessanti anche commercialmente, sull'onda di un prodotto che, finalmente, usciva dal limbo dei pochi appassionati e cominciava a farsi conoscere al grande pubblico. E, soprattutto, un prodotto che manteneva intatte la propria personalità e le proprie caratteristiche.
Poi... poi arrivò qualcuno che cominciò a pensare che, forse, il Durello era ancora troppo “rustico”, con troppa personalità per piacere a tutti e, per poter fare un ulteriore salto di vendite e volle renderlo più “facile”, più internazionale (ahi, ahi, ecco che ricadiamo nel solito vizio italico di inseguire le mode). E il Durello si trovò così, di punto in bianco, ad essere trasformato in una brutta copia di altri prodotti, riducendosi ad essere né carne né pesce. Si trovò a competere con altri spumanti e, nella smania di rincorrerli e di ritagliare per sé uno spazio nel loro mercato, cominciò a snaturarsi, ad ammiccare alla dolcezza, a diventare ruffiano, lui che ruffiano e facile non era mai stato.
E arriviamo ai nostri giorni. Il Durello giace, come Biancaneve, apparentemente morto. Forse arriverà qualcuno che, come il Principe Azzurro risvegliò Biancaneve, risveglierà il Durello e lo porterà a vivere nel suo castello incantato e gli darà nuova vita. O, forse, il principe azzurro, non arriverà mai e Biancaneve si sveglierà attorniata dai sette nani e continuerà, per tutta la vita, a fare da serva ai simpatici minatori.

11 giugno 2009

Villa di Maser: quando il genio non è solo Palladio

Mauro Pasquali
Raccontare di una degustazione fatta all'ombra di colonne palladiane e a due passi da uno straordinario ciclo di affreschi di Paolo Veronese, è al tempo stesso emozionante (la stessa emozione provata entrando nella villa e varcandone la soglia) e stimolante.
Villa di Maser. A Maser, Treviso.
È difficile staccare gli occhi dalle armonie dell'architettura della villa, questo straordinario complesso nato, come quasi tutte le ville palladiane, per il governo ed il controllo del territorio circostante. Questa villa con una forma che sembra voler avvolgere la campagna circostante, posta com'è sul fianco di un dolce rilievo collinare e che allarga le sue ali, quasi come braccia che si protendono a voler proteggere la campagna.
Ma non dobbiamo dimenticare che il genio di Andrea Palladio aveva concepito la villa come luogo di lavoro e di ricovero degli attrezzi e dei prodotti. Ecco quindi che, fino a metà del XIX secolo l'uva veniva lavorata e conservata nelle barchesse e nei locali della villa, fino a quando fu costruita l'attuale cantina, anch'essa frutto, qualche secolo dopo della genialità minore, ma non per questo da disprezzare, non solo dello sconosciuto progettista ma, anche, di coloro che suggerirono gli accorgimenti tecnici per favorire il lavoro dei vignaioli e dei cantinieri. Geniale è la costruzione, distribuita sui tre livelli di cui si compone la cantina e che permettono di tenere separati i materiali e le attrezzature, riposte al primo piano, dalle uve in lavorazione e dai mosti che trovano la collocazione ottimale al piano terra, dal vino che trova l'ambiente ideale per la sua conservazione e affinamento nella cantina sotterranea.
Entrare nella zona di affinamento del vino dà un colpo d'occhio straordinario: per tutta la lunghezza botti storiche ancora in uso e barriques che riposano nel silenzio e nella penombra del locale.
Ma torniamo all'esterno, ammirando i vigneti curati come giardini, tutti rigorosamente allevati a guyot, nella spasmodica ricerca della qualità da ottenere già in vigna, con una resa molto bassa per pianta. Ma questo, ovviamente, non basta. E' necessario selezionare l'uva e raccogliere solo quella al giusto punto di maturazione, anche a costo di lasciare sulla pianta i grappoli non pronti o imperfetti, cosa che getta nello sgomento i vecchi vignaioli, abituati a raccogliere tutto, fino all'ultimo acino, memori di anni di difficoltà economica e carestie. Ma tant'è: la scelta che Diamante e Vittorio, gli attuali proprietari ed artefici della decisa virata verso la qualità di Villa Maser, è irreversibile e decisa: qualità, qualità e, ancora, qualità.
Ci spostiamo per provare alcuni dei prodotti di Villa di Maser quasi a malincuore, tanta è l'armonia che le proporzioni dell'architettura palladiana ci hanno donato. Ma le sorprese non terminano qui: ben lontani, almeno qui a Villa di Maser, i tempi di una produzione banale e scontata.
Prosecco Montello e Colli Asolani 2006
Il vino è più che interessante e detto da me, che non amo particolarmente la tipologia, credo possa essere preso per un complimento. Il motivo è presto detto: è un prosecco non prosecco, a partire dalla raccolta delle uve, che avviene molto tardi, quando tutti gli altri produttori hanno ormai finito e il loro vino ha già iniziato a fermentare, per proseguire con una fermentazione in acciaio lunga lunga, oltre tre mesi, quasi quattro. Non bastasse ciò, il vino viene messo in vendita un anno dopo gli altri, dopo un lungo periodo di affinamento in bottiglia. E il risultato si sente: una struttura che non sospetteresti in un prosecco e una notevole lunghezza gustativa che fanno da contorno ad una complessità insospettata. Insomma un prosecco da provare, soprattutto da parte di chi, come me, non ama il genere.
Due beati faccini: :-) :-)
Colli Trevigiani Manzoni Bianco 2007
Non si fa fatica a pensare che, quando il professor Manzoni a metà degli anni '30 selezionò l'incrocio denominato 6.0.13, facendo accoppiare, mi si passi il termine, pinot bianco e riesling renano, aveva in mente di ottenere un vino proprio come questo. Il figlio di questo matrimonio non avrebbe potuto essere più degno di genitori così nobili: un vino fortemente caratterizzato dall'aromaticità del riesling e che dona al naso forti sensazioni di frutta, mela e pesca in primis e che, pian piano, lascia spazio a note di fiori di geranio, al pomodoro verde. Ma è in bocca che il vino esprime tutta la sua pienezza: fresco, morbido, sapido, con una lunghezza incredibile. È un continuo ritorno, anche dopo molto tempo dall'averlo bevuto, di sensazioni quasi balsamiche.
Due beati faccini pieni e convinti, quasi tre :-) :-)
Colli Trevigiani Verduzzo 2007 Il colore che non t'aspetti: giallo oro, di un giallo caldo, brillante, che ti scalda il cuore solo a vederlo. Un profumo ampio, profondo, raffinato con note vinose che ti avvolgono e ti portano ad assaggiarlo cercando di cogliere anche in bocca le stesse sensazioni. Il primo sorso rivela una grande complessità, con una spiccata sapidità che lo rendono più che piacevole, con un finale lungo lungo. Il secondo sorso ti riempie la bocca e te la lascia gradevolmente pulita. Il terzo sorso… in poche parole un vino più che piacevole, di quelli che vorresti incontrare tutti i giorni. Di quei vini che, stappati alla sera, ti riconciliano anche con le giornate più storte e negative.
Tre beati faccini, pieni e convinti :-) :-) :-)
Maserino Rosso 2005
Taglio bordolese che più bordolese non si può: merlot, cabernet sauvignon e cabernet franc, in proporzioni decrescenti nell'ordine, che portano ad un vino di grande equilibrio e complessità.
In bocca quello che si dice “un vino con una grande beva”: semplice ed immediato ma, al tempo stesso con una personalità che lo rende non banale. Un vino da pasto, e scusate se è poco, in un panorama di vini che prendono grandissimi voti in degustazione e poi, messi di fronte ad un arrosto o a un piatto di pesce, crollano miserevolmente. Un vino che regge il confronto con più blasonati cugini, che nascono anche a pochi chilometri da qui ma che, alle volte, non hanno neppure lontanamente quella piacevolezza che contraddistingue il Maserino.
Due beati faccini: :-) :-)

13 gennaio 2009

Ancora i vini della Valle dell'Agno: La Bertolà

Mauro Pasquali
Dopo aver parlato di Masari, ecco ancora dei vini interessanti dalla Valle dell'Agno, nel Vicentino.
Vini ancora firmati da Massimo Dal Lago.
L'azienda in questo caso è la tenuta La Bertolà
Ecco qui sotto le mie impressioni.
Aggiungo che il sito internet dell'azienda dice che "il vigneto di 22 ettari ha un’esposizione sud ed è stato mantenuto nel suo originario habitat circondato da boschi e prati. In questa dolce collina si coltivano due varietà di rosso: Cabernet Franc e Carbernet Sauvignon, e tre di bianco: Pinot Grigio, Chardonnay, Riesling secondo un rigido protocollo chiamato Regola della Valle d’Agno, in cui sono stati recuperati gli antichi principi dell’agricoltura locale".
Chardonnay 2007 La Bertolà
Un po' chiuso all'inizio. Note di nocciola e frutta fresca. In bocca buona mineralità e sapidità, per concludere con classici aromi di frutta tropicale.
Un faccino :-)
Cabernet Sauvignon 2007 La Bertolà
Complessità al naso con sentori di frutta rossa, soprattutto lampone. In bocca tannini morbidi e avvolgenti. Buon finale con lunghezza discreta. Può solo migliorare.
Un faccino che potrebbero diventare due a breve :-)
Pinot Grigio 2007 La Bertolà
Una piacevole sorpresa. Al naso soprattutto sentori di gemme di bosso e fiori bianchi. In bocca note interessanti e quasi aromatiche. Polpa di frutto matura con grande avvolgenza gustativa e una lunghezza incredibile con grande armonia.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
Riesling 2007 La Bertolà
Al naso si viene subito avvolti da note di erbe officinali, basilico con una dominante balsamica interessante. In bocca grande equilibrio e lunghezza con note floreali di ritorno.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)

12 gennaio 2009

Masari e i vini della Valle dell'Agno

Mauro Pasquali
Alcune schede di vini che reputo molto interessanti, prodotti in Valle dell'Agno, nel Vicentino, da Massimo Dal Lago e Arianna Tessari.
L'azienda è Masari ed è nata nel 1998 con la volontà - dice il sito internet - "di coltivare e vinificare le uve provenienti dalle colline della vallata dell'Agno, sita nella parte settentrionale della provincia di Vicenza, rivalutando così la tradizione agricola che in questo territorio si stava quasi perdendo".
Ho avuto occasione di assaggiare tutta la loro produzione (di Massimo anche quella che proviene dalla tenuta La Bertolà, di cui parlerò in un prossimo appuntamento).
Quelle che leggete qui sotto sono le mie impressioni.
AgnoBianco 2007 Masari
Vitigni: 60% garganega e 40% durella.
Al naso subito la mineralità. E poi note di fiori bianchi e la morbidezza della garganega. In bocca tutta la sapidità e la freschezza della durella esce prepotente. Un bel vino e una bella beva che riassume le caratteristiche migliori dei vitigni da cui proviene.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
San Martino 2006 Masari
Vitigni: cabernet 50%, merlot 50%.
Al naso ti avvolge subito una decisa nota di caffè. Poi cioccolata, cuoio. In bocca l'aroma ti prende in un grande equilibrio con note sapide e tannini morbidi. L'uscita è lunga e piacevole.
Due beati faccini pieni e convinti :-) :-)
Masari 2006 Masari
Vitigni: cabernet 70%, merlot 30%.
Un grande vino. Peccato solo l'eccessiva giovinezza. Un affinamento più lungo può solo fargli del bene. Al naso spezie con preponderanza di pepe nero. I tannini un po' spigolosi denunciano l'eccessiva gioventù del vino. Da riprovare fra un paio d'anni dopo il completamento della sua evoluzione.
Due beati faccini che potrebbero diventare tre :-) :-)
Doro 2006 Masari
Vitigni: 60% durella, 40% garganega.
Una grande conferma. L'evoluzione dalle prime annate di questo splendido passito e la scelta di puntare solo su durella e garganega premiano. Al naso la frutta tropicale matura e l'albicocca. Ed aprono ad una bocca dove la dolcezza e la morbidezza sono sapientemente bilanciate dall'acidità e dalla sapidità.
Tre beati faccini :-) :-) :-)