25 marzo 2008

Il vino da comodino e l’inutilità dell’infelicitarsi

Angelo Peretti
So che qualcuno fra i miei lettori storcerà il naso. Mi darà magari del birbante, parola desueta, ma carina. Però il tema è così stuzzicante che non posso esimermi. Parlo della nuova puntata del «vino dei blogger», quell’iniziativa - simpatica - che vuole che il gestore d’un blog enoico lanci un tema e poi chi ne ha voglia, nella blogosfera e nel web, lo sviluppi. E stavolta la palla l’ha messa in campo Wineplanet, che ha scodellato la storia del «vino da comodino». Sì, insomma ci sarebbe da parlar di quei vini che - cito - «se le donne e gli uomini comprassero in maggiori quantità, i rispettivi MaritiMogliMorosiMorose penserebbero meno a calcio, politica, oroscopi e telenovele, e conseguentemente elargirebbero maggiori coccole». Il che non mi pare una cosa tanto cattiva.
Ora, si tratta di sceglierlo, questo benedetto vino da comodino. E francamente qui ho l’imbarazzo. Perché mi vengono in mente da subito due soluzioni: la dolcezza e la bollicina.
Per non sbagliare, le scelgo entrambe. Ma, guardate, deluderò: non dirò d’una bottiglia o di un’altra in particolare. Meglio dir delle tipologie, perché a contare, in faccende come queste, è talvolta l’attimo. Che non può essere previsto, programmato meccanicisticamente.
La dolcezza, dunque. Credo che un vino dolce, un passito - o un molleaux, come dicono in Francia - sia vino da coccolarcisi. In due. Il problema è che la coccola non diventi stucchevole, falsa, e col vin dolce questo rischio c’è, dato che il più delle volte stucchevolezza e fanfalucheria enologica son lì che t’attendono al varco, nel bicchiere colmo di liquido alcolico-zuccheroso. E dunque ritengo, anzi pretendo, che un buon vin dolce non sia «da dessert», ma «da bere». Che sia vino-vino. E pertanto viva dell’equilibrio tra dolcezza birichina, acidità nervosa, struttura snella, lunghezza intrigante. In questo senso, ho due direzioni, soprattutto, da seguire. I Riesling teutonici un po’ dolcini e tanto freschi, gli Auslese, gli Spätlese. Oppure gli chenin blanc della Loira, e in tal caso suggerirei un Coteaux du Layon o un Vouvray: complessi ed eleganti, frutta stramatura, spezia dolce, erbe officinali, slancio.
La bolla. E in questo caso rischio lo stereotipo: Champagne, solo Champa, nient’altro che Champa. Vino peccaminoso, da bistrot parigino, da folies bergere. Ma la bollicina franciosa è così ammaliante, così rinfrescante, così appagante, che sul comodino io ce la vedo. Salvo l’imbarazzo e l’imbrigo di mettere il secchiello del ghiaccio: ma vabbé, le questioni logistiche non possono che venire in second’ordine. Piuttosto, quale Champagne? Uh, ce n’è così tanti di buoni... E non occorre mica per forza spenderci cifre fuori di zucca. Eppoi a volte basta anche la mezzina, la bottiglia piccola, e non s’infuffino ora i puristi della bolla transalpina, ché qui mica stiamo parlando di degustazioni seriose, ma d’attimi di felicità, in due.
Ci potrebbe tuttavia essere un’obiezione, o una controindicazione, ai suggerimenti che ho dato. Ed è che son vini bianchi soltanto, e taluni, e soprattutto talune, mal ne sopportano i più alti contenuti in solfiti, e dunque ecco il cerchio - se non il dolore - alla testa, che non è buon viatico alla coccola. E dunque occorre anche un rosso. E in questo caso, non ho dubbio: è italico, è Barolo, di vecchiezza all’incirca decenne (o più, se è dato avere, trovare o spendere). Ché solo il Barolo maturo è capace d’avere indole insieme di donna e d’uomo: femminino nelle fragranze di viola, mascolino negli afrori di liquirizia e, talvolta, di tabacco o d’asfalto. Sempre elegante, anche quand’è nel segno della tradizione più schietta (ed anzi, forse più aristocratico, in questo).
Ora, dati i consigli, ho un po’ da filosofeggiare, in tema di felicità e comodino. E lo faccio ripensando a un verbo che ho letto qualche giorno fa su una di quelle riviste fashion che si sfogliano dalla parrucchiera. Infelicitarsi, è il verbo. Che è il volersi infelici, il togliersi d’attorno la felicità, o anche solo il privarsi del sapore agrodolce della sua attesa. Capisco che la felicità non può essere duratura. Che non appartiene alla nostra natura d’uomini e donne, fatti di fisicità e sentimento assieme (qualcheduno direbbe di corpo e d’anima). Che vive - l’ho detto prima - d’attimi soltanto. Ma sono quelli gli attimi che cambiano - in meglio - la vita. E c’insegnano a cogliere appieno le nostre giornate: carpe diem.
Imparare ad ascoltare il linguaggio del vino, del cibo, può aiutare ad assaporare questi umanissimi attimi. Perché spesse volte è l’ascolto dell’altro, più che l’introspezione, a regalarci gioia. Tempo fa, scrissi qualcosa sull’amore e sul formaggio, dicendo che l’amare e il gustare comportano entrambi il coinvolgimento totale dei sensi. Continuo testardamente a ritenerla fondata, la somiglianza, anche se uno dei miei lettori mi replicò allora ch’era azzardato, quello scrivere.
Il medesimo tema lo ritrovo in un «riprovevole» librino edito da Sellerio. S’intitola «Trattato di culinaria per donne tristi» ed ha però più a che fare con la vita che non con la cucina. Autore: Héctor Abad Faciolince, colombiano di studi italiani, classe 1958 (siam quasi coetanei). Che scrive con levità e ironia.
Dice dunque Faciolince alle sue donne tristi: «È scritto nei libri che affinché la bocca si riempia di saliva e tutto sia inumidito da un liquido fresco, è necessario che confluiscano tutti i sensi. Mantieni attenti al piacere le pupille, le papille, le narici, i polpastrelli delle dita». E dunque, «non mettere palpebre alle tue orecchie». L’avete capito: non si parla, qui, né di vino, né di tavola. Ma d’amore, che è fisicità, e insieme ascolto, ed è anche gioire della gioia dell’altro.
Non so se sia libricino da comodino, ma mi pare possa starci, insieme con la nostra bottiglia. Anche se non tutte le pagine hanno la stessa piacevolezza, e magari qui e là c’è della forzatura, così come non tutti i bicchieri versati sono parimenti indovinati. Ma la vita è anche imperfezione. Ed è l’imperfetto, il punto di disequilibrio, a dare, talvolta, un assaggio di gioia. Ed è della natura (e della vita) l’avere questi momenti di formidabile disequilibrio. Non credo alla favole del «meraviglioso equilibrio della natura». È invece il suo disequilibrio a fare un’annata diversa dall’altra, a permetterci di trovare ogni anno diverso il medesimo vino, ad offrirci l’esaltante attesa della scoperta.
Quanto al libro, alla tristezza del titolo, fa parte pur’essa del vivere, certo. «Ma chi ha detto - osserva Faciolince - che è proibito essere tristi? In realtà, molte volte, non c’è nulla di più sensato che essere tristi; quotidianamente succedono cose, agli altri o a noi, per cui non c’è rimedio, o per meglio dire, per cui c’è quell’unico e antico rimedio di sentirsi tristi». E questo non è l’infelicitarsi, ma semplicemente il prender atto che la melanconia fa parte dei nostri giorni. E di rimedio non ve n’è che uno: l’aspettativa della felicità.
Prometto: la volta prossima torno a parlar di vino e basta.

16 marzo 2008

Ma quant’è trendy fare il salutista in etichetta

Angelo Peretti
Ma il vino è un alimento sì o no? Possiamo filosofeggiarci sopra fin che si vuole, ma la risposta non può che essere affermativa: sì, è un alimento. E che alimento! E allora c’è chi solleva un problemuccio mica da niente: perché il vino può permettersi il lusso di non scrivere in etichetta i propri ingredienti? Questione di trasparenza, si dice, ma anche di tutela del consumatore e di salvaguardia della salute: miseria, quante intolleranze alimentari, quante allergie che ci sono in giro! E per fare il vino si usano anche prodotti potenzialmente delicati, come l’albumina o, che so, la caseina, o la colla di pesce.
Insomma: sta crescendo il partito di chi vorrebbe le etichette con dettaglio d’informazione. E già si è cominciato con lo scrivere «contiene solfiti». Eppoi chissà cosa verrà dopo. O meglio: lo si sa. Perché c’è chi ha già iniziato. Anche da noi. O in America, il che, senza offese per i nostrani, è ancora più significativo. Perché se la moda, o la tendenza, o l’esigenza – chiamatela come volete - si affermasse in terra americana, possiamo stare certi che poi farà breccia davvero anche da noi. Oh, sì sì.
Leggo adesso su Wine Spectator - che certo non è una rivistina, coi suoi due milioni e trecentomila lettori, spanna più, spanna meno - che in California la Bonny Doon Winery -fondata da Randall Grahm, un mito del vino a stelle e strisce (e il suo vino più mitico mi pare sia Le Cigar Volante) - da questo mese di marzo prenderà a mettere in etichetta la lista degli ingredienti. Per esempio sul The Albariño Monterey County Cà del Solo Vineyard 2007, ci sarà scritto che si fa uso di uve da agricoltura biodinamica e di anidride solforosa, ma anche che nelle varie fasi di cantina sono stati impiegati lieviti indigeni, scorze di lievito organico e bentonite.
Oh, già, la sento adesso l’obiezione: è un’operazione di marketing. In fondo, credo che l’obiezione possa essere fondata: c’è anche del marketing, dietro a quest’annuncio, che è riuscito a sfondare anche sulle colonne di Wine Spectator, proprio sotto a un altro articolo che dice che «alcuni vini rossi aiutano a uccidere i batteri nel cibo», e sapete quanto gli americani siano attenti a questo genere di cose igienico-salutistiche, salvo poi essere la patria di McDondald’s, Burger King e altre cose del genere.
Però... Però se la faccenda funzionasse, potrebbe far da traino ad altri produttori. E una volta che i piccoli avessero preso questa china, seguirebbero a ruota le industrie vinicole. E quelle son così grosse e hanno agganci così ampi in mezzo mondo, Italia compresa (giusto per dire: vi siete mai chiesti dov’è che va a finire tutto il pinot grigio che si produce nelle Venezie?), che il contagio, se così lo possiamo chiamare, potrebbe propagarsi rapidamente. E allora se ne vedrebbero delle belle. Mica scherzi.
Sicuro: una rondine non fa primavera (a proposito: arriva ‘sta benedetta primavera? non ne posso più delle costipazioni di fine inverno), e dunque il caso Bonny Doon non è tale da imporsi come fenomeno globale, epperò ricordatevi che l’ha scritto in bell’evidenza Wine Spectator, che coi suoi due milioni e passa di lettori, eccetera... Insomma: se notizie del genere trovano eco in questa maniera sul wine magazine più diffuso al mondo, vuol dire che l’argomento interessa. Un editore d’una rivista che si legge così tanto (e che dunque fa un fatturato mica da poco) non rischia una notiziola inutilmente. Soprattutto negli States, dove il business è tutto.
Dunque, prepariamoci all’attacco. Nel nome della trasparenza, del salutismo e anche di quel bel po’ di proibizionismo che si sta diffondendo anche da noi, dove bere vino è peccato mortale e invece farsi magari di certe polverine bianche è solo veniale, perché quello è più snob.
Anch’io sono per le etichette trasparenti, certo: mi piacerebbe che ci fosse scritta la provenienza - vera - delle uve. E che qualcuno me lo certificasse perfino, pensate un po’, che quelle uve vengono proprio da quella terra. Ma so che questa è una chimera. Più facile accettare di dire che c’è la bentonite, o che si sono adoperate chiara d’uovo o proteine del latte. Fa figo, essere salutisti. Tanto poi...

3 marzo 2008

Lo strano caso della resa per ettaro

Angelo Peretti
Oh, insomma, non se ne può più di questa storia dei quintali per ettaro! Che i disciplinari italiani del vino siano un po’ astrusi è cosa conosciuta. Che vogliano essere più realisti del re è altrrettanto noto. E stupisce (impensierisce) che ci sia ancora chi, con piglio illuministico-tecnicistico-razionalista, vorrebbe usarli per regolare di tutto e di più, magari anche il colore ammesso per le foglioline apicali del quarto tralcio di ciascun filare partendo da destra alle 8 del mattino del trentesimo giorno di primavera, salvo poi non riuscire neanche a sognare di mettere in piedi un vero sistema di controlli su quel minimo che interessa per davvero: che l’uva venga da quel benedetto territorio. Non è forse «l’origine» che le doc dovrebbero «controllare»? Denominazione di origine controllata, mi par che significhi, quella sigletta.
Ma dentro ai disciplinari la storia dei quintali d’uva per ettaro è la più incredibile.
Intanto, visto che la faccenda piace ai tecnocrati, parlar di quintale è fuori luogo. La misurazione del peso in quintali non è più accettata dal sistema internazionale di unità di misura. Bisognerebbe usare i chili. Un quintale è 100 kg (senza punto, mi raccomando!). O tutt’al più si potrebbe optare per il Mg (megagrammo, pure non puntato, ma con la M maiuscola: è l’unità di misura che ha sostituito la tonnellata, abolita anch’essa, e dunque il vecchio quintale corrisponde a 0,1 Mg). Dunque, se un certo tal disciolinare parla di rese di 100 quintali per ettaro, sarebbe corretto scrivere invece 10000 kg, oppure 10 Mg. Ma, tant’è: in Italia il quintale è ancora utilizzato in lungo e in largo. Anche dai burocrati.
A parte questo, quanti quintali d’uva si facciano su un ettaro di vigneto non è onestamente una grand’informazione. È vero, son d’accordo: bisogna evitare la sovraproduzioni, che sono state (e ahimé ancora in certi casi sono) uno dei grandi problemi dell’italica viticoltura. Ma è bene o male che la resa per ettaro sia bassa? «È bene!» s’affrettanno a dire in molti, quando gli fai ‘sta domanda. Ma la risposta corretta sarebbe: «Dipende».
Già, dipende, e da almeno un paio di fattori.
Il primo è anche il più ovvio: dipende da quante vigne ci sono su quel dato ettaro di terra. Già: mica uguale che in un campo ci siano 4mila o 8mila vigne. Se il disciplinare dice che posso produrre, che so, 130 quintali d’uva per ettaro (pardon, 13 Mg oppure 13000 kg), ed è credo la misura più frequente nei disciplinari italioti, allora vuol dire che nel primo caso posso spingere ciascuna pianta a produrre più di tre chili d’uva, mentre nell’altro caso mi limito a fargliene maturare poco più di un chilo e mezzo. E non è certamente la stessa cosa se guardo alla qualità finale del vino. E insomma: bisognerebbe semmai parlar di resa per pianta, di quanti chili d’uva sia bene che ogni vigna produca di suo. Ammesso che si possa: far le cose semplici è sempre d’un complicato... Oppure si potrebbe comunque correlare la resa per ettaro al numero di ceppi. Ma i quintali per ettaro no, per favore.
Altra questione: dipende dal vitigno e dalla zona. Non ho certezza scientifica su quel che sto per scrivere, ma non sono affatto convinto che sempre e comunque far rendere poco la vigna sia un bene. Ci sono dei limiti in alto, così come in basso. È come per l’alimentazione: se mangio troppo, rischio le conseguenze dell’obesità, e se invece metto in pancia troppo poco, ecco che scivolo nei problemi di denutrizione. Non so se il paragone ci stia compiutamente, ma quel che voglio dire è che la vigna rischia d’andare in stress (anzi, ci va proprio) sia che le si faccia fare troppa uva, sia che gliene si faccia tener troppo poca. E questo dipende, appunto, sia dal tipo di pianta, sia dalle condizioni ambientali. Che so: una corvina d’alta collina in Valpolicella non la posso considerare allo stesso modo d’una corvina delle basse colline moreniche del lago di Garda. Pena perdere in freschezza, in armonia, in finezza. Pena perdere i caratteri del vino. E del terroir.
E così pure, visto che ci sono, mi vien voglia di sparlare della mania del Guyot, del filare. Sì, certo, in genere il filare è meglio: non discuto. Ma mica sempre e comunque. Oh, che grandi bianchi che ci dà ancora la pergoletta sulle colline di Soave! E come preservano acidità. E come salvano dalle scottature estive e dai grani di grandine. E insomma: basta avere il coraggio di diradare, e anche la pergoletta serve. Mica sempre, mica comunque. Anche qui dipende. Anche qui è questione di testa, di discernimento, di pensiero. E di terroir. Che è vigna e clima e terra e umanità.
Oh, sì, lo so: non ho detto nulla di nuovo. Ecché, bisogna esser per forza originali?