30 novembre 2011

Il gaglioppo e il Cirò

Angelo Peretti
La Calabria è, per me, un mistero immensamente vago. Mai stato. Pochi i vini bevuti. Sono peraltro, quando m'è possibile reperire quella buona, calabro-dipendente per via della 'nduja, quel pirotecnico, morbido salume calabrese fatto con le parti più grasse del maiale e col peperoncino che là è piccante assai e saporitissimo.
Da più di un anno, a proposito della Calabria enoica, leggo delle polemiche scaturite dalla decisione di modificare il disciplinare del Cirò, aprendo le porte ai vitigni internazionali, cabernet in primis. Pensare che la cabernettizzazione del Cirò sia la soluzione ai tanti problemi della viticoltura locale è, a parer mio, un'idea sbagliatissima. Un'illusione coltivata in tante parti d'Italia tra la seconda metà degli anni Novanta e l'inizio del secolo nuovo. Un'idea fallimentare. Ora, con vent'anni di ritardo, ecco che riaffiora in Calabria, generando tardive fallaci illusioni. Sono convinto che anzi che produrrà danni ulteriori ad un comparto che non mi pare stia vivendo momenti di grazia, e che la grazia probabilmente non l'ha mai vissuta, coi contadini che non sanno più a che santo votarsi. Ma votarsi al santo cabernet è errato, e se ne sono già accorti i vignaioli di tant'altre parti d'Italia, prima dei calabresi.
Di recente ad una manifestazione di settore ho avuto modo di tastare una serie di rossi calabri nei quali le uve autoctone erano mischiate, appunto, col cabernet, e il risultato è stato deludentissimo. Vini enologocamente corretti, certo, ma concettualmente vecchi almeno - appunto - di vent'anni e per di più senz'anima, senza personalità, o meglio, portatori di quell'anonimo carattere che connota i vini internazionali, e dunque irrimediabilmente perdenti, ché se si fa vino uguale identico a quello di mezzo mondo, alla fine per venderlo hai una soluzione soltanto: sbracare sul prezzo, riducendo il viticoltore ad ulteriore miseria.
Eppure la Calabria del Cirò avrebbe avuto - ed ha - una strepitosa carta da giocare, ed è il gaglioppo, l'uva locale. Penso che, se han deciso di cabernetizzarla, da quelle parti ci credano poco. Però ho paura che il problema è che, oltre a non crederci, su quell'uva ci abbiano investito poco, ché invece, quand'è ben gestita, offre vini di fantastico carattere, modernamente antichi.
Lo dico perché di recente ho avuto modo d'assaggiare due volte - ed in entrambi i casi altro che assaggiare: me lo son bevuto - il Cirò Rosso Classico Superiore 2009 di un'azienda che si chiama 'A Vita e che usa solo e soltanto gaglioppo e che fa agricoltura biologica e che alla Calabria e alle sue autoctonie mi pare ci creda. Ed è, questo loro Cirò, un vino avvincente, coinvolgente, intrigante, affascinante. Austero e bevibilissimo, nobile e popolano insieme. Colore scarico. Naso che rimanda alla buccia dell'arancia, al cedro, alla spezia (tanta), al fruttino macerato. Bocca succosa e tesa. Bel tannino, epperò per nulla aggressivo. Si beve che è un piacere. Si beve e si ribeve.
La strada giusta è questa qui.
Cirò Rosso Classico Superiore 2009 'A Vita
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

29 novembre 2011

Macle, leggi Chateau Chalon

Angelo Peretti
Ecco, una delle differenze tra l'Italia e la Francia del vino è questa: di là dalle Alpi i produttori non fanno fatica a consigliarti altri vignaioli, ed anzi ci tengono a farlo. Ad Arbois, Jura, terra dei Vin Jaune che amo, quando dicevo che volevo fare un salto a provare i vini gemelli di Château Chalon, a pochi chilometri da lì, non c'era uno fra i vigneron che non mi dicesse che dovevo assolutamente passare da Macle. Così ci sono passato. Mi ha ricevuto Elyane Macle, che s'è scusata e riscusata perché il suo Jean non poteva esser lì ad accogliere il visitatore, sebbene io fossi visitatore sconosciuto, turista per caso.
M'ha fatto tastare i vini del domaine, fatti, come tradizione vuole, sous voile, sotto cioè quel velo di microrganismi che da noi chiamano fioretta ed è vista, da noi, generalmente male. Mi ha spiegato che lì da loro i lieviti per la voile non occorre inocularli, perché la cantina ne è piena e dunque si attivano naturalmente.
Dico che il Côtes du Jura è fatto per l'ottantacinque per cento di chardonnay e il quindici savagnin, entrambi sous voile e assemblati solo quando il vino va in bottiglia. Lo Château Chalon è tutto savagnin che sta in legno pressappoco sette anni. Il Macvin è quella strana, fascinosa cosa che si fa con una mistella di mosto e di marc, la grappa del Jura, ottenuta dagli acini.
Côtes du Jura 2008 Jean Macle
Naso "da Jura", con quei tipici toni di lieviti, di noci, di spezie. In bocca s'espande: da mangiare, da masticare. Alcol un po' sopra le righe.
Due lieti faccini :-) :-)
Côtes du Jura 2007 Jean Macle
Elegantissimo bianco di carattere. Floreale, perfino. Ed ha tracce di fieno secco e le classiche memorie di noce. Lunghissimo e croccante.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Château Chalon 2004 Jean Macle
Tanto, tanto fieno secco, un pizzico di curry, la nocciola. Delicato, elegante. C'è bisogno di aspettarlo un bel po' d'anni ancora prima di berlo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Château Chalon 2003 Jean Macle
Si sente l'annata calda, eccome. Se ne avverte il calore quasi bruciante. Eppure l'interpretazione è comunque degna di nota, ed è lunghissimo.
Un faccino e quasi due :-)
Macvin du Jura 2006
Quanta mandorla che trovi subito al naso e poi in bocca. E poi ancora il mirto e il frutto succoso. E il tono del marc. Morbido, avvolgente.
Due lieti faccini :-) :-)

28 novembre 2011

Mazzon e il pinot nero

Angelo Peretti
Ecco, sì, magari il titolo era un pelino pretenzioso, però quegli Stati Generali del Pinot Nero che si sono tenuti, per iniziativa del consorzio dei vini dell'Oltrepò Pavese, presso il - altro titolone - Centro di Ricerca, Formazione e Servizi della Vite e del Vino Riccagioia a Torrazza Coste, be' devo dire che sono stati davvero interessanti. Un bel confronto fra produttori pinoneristi di mezz'Italia su questo vitigno così difficile e sfidante e avvincente. Per di più, Massimo Zanichelli, che coordinava i lavori, ci ha messo la sua parte, stuzzicando con le domande giuste i vignaioli sul palco e quelli in sala. Mica male.
Tra le sessioni degli Stati Generali ce n'era anche una affidata a Michela Carlotto, giovane enologa dell'azienda di famiglia, che fa, appunto, Pinot Nero in uno dei più grandi terroir pinoneristi italiani, quello di Mazzon, proprio sopra Egna, all'inizio dell'Alto Adige, se lo si guarda da sud, e che in tutto è fatto di ottanta ettari quasi ai piedi del monte Corno, dove il sole arriva tardi, e dunque di mattina resta a lungo la frescura della notte, e poi va giù molto più tardi che sul fondovalle. Ancorché nata solo nel 2000, l'aziendina di papà Ferruccio Carlotto - appena due ettari e mezzo, di cui uno e mezzo a pinot nero a Mazzon, e il resto è lagrein - si è già ricavata la sua bella visibilità, e l'ha fatto giocando tutte o quasi le carte sul terroir.
Ha insistito, la Carlotto, sulle escursioni termiche, fondamentali per il pinot nero, e sulla necessità della completa e lunga maturazione di quest'uva, e ha detto chiaro e tondo alla platea che è vano il tentativo che certuni fanno di compensare gli effetti della latitudine della Borgogna con l'altitudine dei vigneti nostrani, perché "il pinot nero così non matura e invece deve maturare". Sembra ovvio, ma non lo è affatto. Eppoi, certo, "ogni viticoltore ha il proprio stile, ma l'importante è il rispetto del vitigno nella sua zona vocata ed evitare il protagonismo aziendale, che mette davanti al vitigno le scelte del mercato" (sono parole della giovin donna). Magari arrivando per questa via a far sì che un giorno lo stile del Pinot Nero di Mazzon sia così netto e preciso che in etichetta si possa scrivere solo Mazzon, senza citare il nome del vitigno. Perché il vino che viene da Mazzon è "fruttato, salato e saporito", per usare i tre aggettivi adoperati da Michela Carlotto. Eppoi, lei ancora ha spiegato che il Pinot Nero di Mazzon ha da avere un colore scarico, con sfumature aranciate, "delle quali non bisogna assolutamente vergognarsi", e son parole che sottoscrivo in toto. E Massimo Zanichelli ha aggiunto che il vino di Mazzon "è più rarefatto, più stilizzato di altri nella regione". Verissimo.
Ora, qualche parola mia sull'ultima uscita del Pinot Nero di Mazzon firmato Carlotto, il 2009. Ha colore scarico e brillante e cristallino, affascinante, elegante. Il naso, ancora velato dal legno - ma l'esperienza mi dice che si aprirà, basta pazientare -, ha fruttino e spezia. In bocca è piacevolmente fruttato e croccante e c'è tannino saldo, ma che non aggredisce il frutto.
Alto Adige Pinot Nero Filari di Mazzon 2009 Carlotto
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

27 novembre 2011

Peperone in salsa di noci

Il fatto che nessuno mangi l'ultimo peperone di un vassoio si verifica generalmente quando la gente non vuole mostrarsi golosa e sebbene abbia una gran voglia di divorarlo non ne trova il coraggio. Ed è così che si rinuncia a un peperone ripieno che contiene tutti i sapori possibili, la dolcezza del cedro candito, il piccante del peperoncino, la delicatezza della salsa di noci, la freschezza della melagrana, un meraviglioso peperone in salsa di noci! Che racchiude dentro di sé tutti i segreti dell'amore, ma che per pudore nessuno mai scoprirà.
Maledetto pudore! Maledetto manuale di galateo del Carreño! Per colpa sua il corpo di Tita era destinato ad avvizzire a poco a poco, inesorabilmente. E maledetto Pedro così perbene, così corretto, così virile, così... così amato!
Laura Esquivel, "Dolce come il cioccolato", Garzanti 1996

26 novembre 2011

Vini e cornici

Angelo Peretti
La frase è di Emil Cioran: "Di molte persone si può affermare quanto vale per certi dipinti, cioè che la parte più preziosa è la cornice". Ne sono venuto a conoscenza dalla citazione che ne ha fatto monsignor Gianfranco Ravasi su un'edizione agostana della Domenica del Sole 24 Ore. Leggendola, m'è venuto immediatamente alla mente il parallelo con certi vini e certi produttori.
Nel nome del marketing esasperato, dell'ossessiva ricerca dell'affermazione sul mercato internazionale, a partire dalla fine degli anni Ottanta, e poi per tutti e due i decenni successivi, ed ancora adesso, un'orda di parvenue ha assalito il mondo del vino, portandovi stili di vita e comportamenti aziendali che col lavoro della terra non hanno a che fare. E tanti vignaioli li hanno imitati, cercando il successo immediato, il profitto che arricchisce con rapidità, e ti permette di costruire la cantina nuova finto antica, coi dipinti sui muri e i mattoni che sembrano vecchi, e di comprarti il macchinone e di vestire griffato da vigneron radical chic. Ci si vende per poco, alla fin fine, se l'apparenza è quel che conta. Ma ecco, questa gente somiglia oramai a un dipinto la cui parte più preziosa è la cornice, e dentro c'è il vuoto dei valori della terra o una loro copia malamente artefatta.
Così è per i vini stessi. Consulenti di grido, tecnologia ostentata, lieviti selezionati, etichette d'autore, bottiglie pesanti quanto mai: tutto questo è cornice e tanto spesso conta molto, molto più del vino che sta nella bottiglia, costruito in fotocopia perché si venda in America o chissà dove o perché piaccia alle guide, fregandosene dell'identità, del territorio, del terroir. Vini cornice, perché è così che si vuole il vino da parte di chi ha in mente solo il guadagno. Ci mancherebbe: guadagnare è bene, è necessario. Ma se si tradiscono i valori della terra e della vigna poi non si abbia anche l'ardire di definirsi vignaioli.

25 novembre 2011

Prima rosso, poi bianco

Angelo Peretti
Charles Elmé Francatelli era un cuoco importante. Così importante che venne chiamato al servizio della regina Vittoria, in Inghilterra. Il cognome è italiano, ma lui è nato a Londra nel 1805 ed è cresciuto in Francia. Nel 1861 diede alle stampe un libro dal titolo "The Cook’s Guide", mai tradotto, che io sappia, in italiano.
Nel libro Francatelli scrisse anche di vino, e c'è una frase che ho letto e riletto. Questa: "It is generally admitted by real gourmets that red wines should precede the introduction of white wines". E cioè, per chi non mastica l'inglese: "Viene generalmente ammesso da parte veri veri buongustai che i vini rossi dovrebbero precedere l'introduzione dei vini bianchi". Esattamente il contrario di quanto c'insegnino oggi i sacri testi dell'abbinamento cibo-vino.
Ora, non voglio dire che l'ammonimento del Francatelli sia da prendere come oro colato, epperò una riflessione ci va fatta. La riflessione che ci faccio è questa: durante un pranzo o una cena nel corso dei quali si servano vini che vi piacciano, non formalizzatevi e bevete tranquillamente un bianco dopo esservi goduto un rosso. Ovvio, mica qualunque bianco, mica qualunque rosso. Ma chi l'ha detto che un burroso Chablis di qualche bell'anno non possa stare dopo, chessò, un giovane Barbaresco? Chi l'ha detto che un Lugana decenne, di quando ancora il Lugana sapeva esattamente di Lugana, e dunque di frutto e idrocarburi, non possa star benone dopo un Valpolicella? Chi l'ha detto che il piacere debba essere per forza codificato, ingabbiato dentro norme rigide, annichilito da dogmi inviolabili?
Oh, be' sì, a dire il vero qualcheduno l'ha detto, ma credo si possa tranquillamente trasgredire a certi precetti. Io trasgredisco, e mi stappo quel che ho voglia di bere in quel momento, con quel preciso piatto. E me n'infischio di quel che ho stappato subito prima.

24 novembre 2011

Piccinin, è nata una stella

Angelo Peretti
Non ho il piacere di conoscere personalmente, per ora, Daniele Piccinin, proprietario viticoltore come scrive lui (piccolo, cinque ettari, suppergiù diecimila bottiglie in tutto) in San Giovanni Ilarione, nell'est veronese, e seguace di Angiolino Maule, con tanto di dedica al maestro sulle controetichette dei vini. Non ho il piacere di conoscerlo, ma chi lo conosce me ne parla un gran bene. E siccome è seguace di Maule, è ovvio che conduca le vigne in biodinamica. Non ho il piacere di conoscerlo, dicevo, ma posso dire una cosa: è bravo, accidenti se è bravo. Sissignori, è nata una stella, credetemi.
Leggo che è giovane, un trentenne, e che prima di darsi alla vita del vigneron ha gestito un ristorante. Chi è stato a vedere la vigna mi dice che è protetta dal bosco, e che lui la biodinamica l'ha abbracciata come una scelta di vita, mica per una strategia di business. Leggo e sento questo, ma in fondo non me n'importa più di tanto di leggere e sentire 'ste cose, perché io mi fido solo dei vini e se mi piacciono mi piacciono e sennò niente. Ma dopo che ho tastato i vini, ebbene sì, sono convinto, e su questo nome mi ci gioco quella poca reputazione che ho.
Certo, i rossi hanno le riduzione dei rossi in biodinamica e i bianchi hanno la doratura dei bianchi in biodinamica: però dategli il tempo di aprirsi e vanno giù un bicchiere dietro l'altro. A proposito: naturalmente, non sono mica filtrati. E sui prezzi non se la tira come fa invece qualche altro bio-qualcosa, e anche questo è bello. Poco belle, invece, e decisamente, le etichette: Daniele, si può far meglio, accidenti.
Adesso, due righe sui vini. Nell'ordine in cui, in date diverse, li ho bevuti.
Rosso dei Muni 2009 Daniele Piccinin
Cabernet e merlot. Il naso subito è chiuso e s'apre pian piano ed ecco il frutto rosso, maturo. In bocca è fruttato (fragola, marasca) e fresco e financo acidulo, epperò è anche vibrante e ricco e selvatico e sul finale perfino floreale.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Pinot Nero 2009 Daniele Piccinin
Uva ostica. Il vino ha grande freschezza, e dinamicità e slancio. Ovvio, occorre aspettare che s'apra, ma quando s'apre ha beva succosa e freschissima e fruttatissima (la fragolona matura), restando comunque a tratti selvaggio.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Montemagro 2009 Daniele Piccinin
Bianco dorato da uve autoctone di durella. Secco, teso, tagliente. Ha carattere e freschezza acida ch'è tipica del vitigno e vene minerali che parlano del territorio. Direi che mira a raccontare la terra e la vigna, più che a piacere per forza.
Un faccino e quasi due :-)
Bianco dei Muni 2009 Daniele Piccinin
La durella incontra lo chardonnay. Bianco dorato. Della prima uva c'è la tesissima freschezza, dell'altra il frutto giallo maturo. Il finale è asciuttissimo, perfino tannico. Il frutto è croccante, la vena officinale avvincente. Gran lunghezza.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

23 novembre 2011

Nec Plus Ultra

Angelo Peretti
Allora, se non ricordo male, Ercole raggiunse la fine del mondo, prese una montagna, la spezzò in due e sopra ci scrisse "nec plus ultra", e cioè, di là non c'è nulla, perché si è arrivati al limite estremo. Ora, che un produttore di vino metta in etichetta la frase scolpita sulle colonne d'Ercole potrebbe sembrare un po' azzardato, ma se il produttore è uno champagnista come Bruno Paillard, che è uno che con le bollicine ci sa fare davvero, be', allora bisogna prestarci attenzione. Fortuna vuole che il Nec Plus Ultra 1996 io possa averlo assaggiato, e posso dire che la sentenza ci sta: siamo proprio agli estremi, e sarebbe meglio dire ai vertici, del piacere del mondo con le bolle.
Ordunque, mi si dice che con questo suo Nec Plus Ultra il suo facitore Paillard abbia voluto provare a realizzare il più grande Champagne che gli sia possibile fare, e per questo occorra attendere che stiano assieme parecchie congiunture favorevoli. Insomma, ci dev'essere un'annata di quelle perfette. La prima fu il '90, poi venne il '95 ed ora ecco uscito il '96.
Metà chardonnay, metà pinot noir, uve prese da quattro dei diciassette villaggi classificati come grand cru. Dodici anni sui lieviti, poi altri tre di riposo dopo la sboccatura (Paillard ci tiene all'affinamento post dégorgement, e sulle bottiglie la data della ritappatura ce la mette sempre). Dosaggio basso basso.
Nel bicchiere ci trovi i fiori essiccati, il fieno, le noci, il frutto disidratato, un che di iodato, di aria di mare. Una cremosità assoluta, che lo rende dapprima quasi impalpabile, e ti viene da pensare alla seta, al cachemire, e ti coccola. Eppoi invece ecco che prende slancio, che corre, che diventa affilato. Sì, raramente si trova una dinamicità di genere in un vino.
È un gran vino, insomma, e come tutti i grandi vini va mica bevuto freddo: meglio tenerlo a temperatura di cantina e poi metterlo in un secchiello con acqua e ghiaccio, che si rinfreschi senza raffreddare.
Ora, però, devo dare un'avvertenza a chi volesse prender su e andare a comprarselo e a berselo, 'sto Champagne delle meraviglie: attenti, ché non costa poco. Cuzziol, il distributore, dice che viene intorno ai centottanta euro più iva, che fa qualcosa come duecentoventi euro, che non sono pochi. Il prezzo della bellezza.
Champagne Brut N.P.U. Nec Plus Ultra 1996 Bruno Paillard
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

22 novembre 2011

Trentinità e discese ardite

Angelo Peretti
Ha fatto discutere, qui e anche altrove, un mio intervento di qualche giorno fa sulla trentinità del vino. In estrema sintesi, dicevo che la mia impressione è che i vignaioli trentini, pur avversando le scelte massive della cooperazione locale, ne abbiano in realtà di fatto sposato la linea filosofica, che è più fondata sulla qualità enologica - che è oggettivamente alta - che non sulla ricerca identitaria, che non sulla trentinità, appunto. Solo un'impressione, sia chiaro, ma mi pareva giusto esprimerla, e mi pare che, come ho detto, se ne sia parlato.
Ora, dovrei invece dire cos'è che vorrei trovarci in un vino trentino per poterlo riconoscere come tale. La risposta è che non ho una risposta. Nel senso che prima dovrei meglio approfondire, e magari passare qualche frequente e bella ora intorno a un tavolo stappando bottiglie - mica solo trentine - coi vignaioli tridentini, parlando e conversando - e parlando mica solo di vino, ché la cultura del terroir non è, appunto, solo vinicola ed enologica, ma è prima di tutto umanistica e umana - e chissà che non ci sia occasione di cominciare a confrontarsi davanti a una serie di bicchieri.
Detto questo, però, e rischiando per passare per velleitario e forse anche per visionario, butto lì che in un vino trentino mi piacerebbe trovarci quella frase che cantava Lucio Battisti. La canzone era "Io vorrei... Non vorrei... Ma se vuoi..." e mi strapiace quando evoca "le discese ardite e le risalite ". Ecco, è così che me l'immagino un vino trentino ideale, e cioè fatto di discese ardite e di risalite e anche di "verdi terre", che è un'altra citazione della stessa canzone. Perché il Trentino è così: ha montagne e cime e valli e fiumi e verde. Dunque, il vino trentino vorrei che gli somigliasse, in qualche modo, e che dunque portasse dentro alla bottiglia una qualche idea della dinamicità geografica del territorio di cui è figlio. Ma questa dinamicità dovrebbe non essere "solo" quella di una vallata o di un tal territorio o di un certo vitigno, ma piuttosto la sognerei come qualche cosa di comune e trasversale a tutte le zone e a tutti i vitigni della provincia. Prescindendo anzi dalla zona e dal vitigno. Un filo conduttore che mi faccia immediatamente percepire che quello che ho nel bicchiere è un vino trentino e può essere solo un vino trentino.
Detto così so che è criptico. E me li vedo quelli che scuotono la testa. Allora faccio un esempio, e magari più avanti ne farò altri, proponendo vini che questa dinamica del Trentino me l'abbiano evocata.
Il primo esempio è un rosso del 2008, un Merlot, il Rocol di Borgo dei Posseri. Ecco, questo qui è a mio avviso un vino che "sa" di trentinità, o almeno di quella parvenza di idea di trentinità vinicola che vado cercando. Un vino dinamico. Il vino dell'annata precedente, quella del 2007, era descritto da Slow Wine come "un Merlot atipico". Vero, verissimo, se lo prendiamo come Merlot e lo confrontiamo con gli altri Merlot italici, densi di frutto concentrato e morbidi come il velluto, questo è un Merlot atipico. Ma se lo vediamo invece come un rosso trentino (a prescindere che sia fatto col merlot), be', allora per me è proprio tipico. Perché ha dinamicità ed è anzi un continuo e intrigante saliscendi di frutto mai saturo e di spezia e di freschezza. Ha discese ardite e risalite, insomma. Ed è trentino, dunque, almeno per me.
Vigneti delle Dolomiti Merlot Rocolo 2008 Borgo dei Posseri
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

21 novembre 2011

A Piacenza coi Vignaioli

Angelo Peretti
Non dite che esagero: l'appuntamento potrebbe essere di quelli che segnano un'epoca nella storia del vino italiano. Sabato 3 e domenica 4 dicembre 2011 a Piacenza c'è il primo Mercato dei Vini della Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti. I soci sono attorno a quota mille, quelli che hanno aderito all'iniziativa piacentina sono un paio di centinaia, e non è davvero poco, perché questa è una manifestazione voluta e organizzata non da istituzioni o enti o consorzi, bensì da un'associazione che riunisce solo produttori di vino. O meglio, da vignaioli che fanno vino con le uve delle loro vigne e che il vino se lo fanno direttamente e se lo commercializzano anche. Sì, è questo il primo aspetto che fa del Mercato dei Vini dell'Expo di Piacenza un evento: la Fivi è fatta da vignaioli di tutt'Italia e la rassegna se l'è organizzato da sé. Il secondo fattore di svolta è che quest'è la prima "vera" uscita pubblica della federazione (qualcosa s'era già fatto per la questione dell'etilometro, con un incontro a Milano), il che vuol dire che si son rotti gli indugi, e d'ora in poi la Fivi deve saper camminare spedita con le proprie gambe, parlando al mondo dei consumatori e degli operatori, e dunque non limitandosi - il che comunque non è poca cosa - a fare lobbying per gli associati nei confronti degli organi istituzionali del comparto agricolo. Ecco, queste sono già di per sé buone ragioni per dire che quella in programma a Piacenza ai primi di dicembre potrebbe non essere solo la solita rassegna dove c'è gente che fa assaggiare vino accanto a una fila di tavolini o dentro a degli stand. Potrebbe essere di più, l'avvio di una piccola rivoluzione.
Il Mercato dei Vini, poi, si chiama così perché i vini saranno anche in vendita: si potrà comprare direttamente dai vignaioli, così come succede nei vari saloni nazionali allestiti periodicamente dai potenti Vigneron indépendant francesi, ai quali la Fivi s'ispira sin dalla costituzione. Ed anche questo è importante, perché credo che il rapporto diretto vignaiolo-bevitore sia un valore. Da parte dei piccoli, più si disintermedia, meglio è, e qualunque segnale vada in questa direzione lo vedo positivamente.
Poi, come in tutte le cose del mondo, c'è da capire che qualche inciampo ci sia stato e ci sia nel muovere i primi passi, però ci sta che in avvio ci sia da rodare una macchina fatta solo di vignaioli volontari e mi piace invece, e parecchio, la serenità e la trasparenza del presidente della Fivi, un grande del vino come Costantino Charrère, quando, in uno scambio epistolare che abbiamo avuto, mi dice: "Non le nego le difficoltà operative che la Fivi ha in Italia. Paese in cui l'associazionismo di filiera significa ancora pagare (quando ce lo ricordiamo) una quota di iscrizione, delegare 'ad altri' le politiche di settore senza dare contributi personali attivi, e alla fine criticare con sufficienza. In questo orizzonte, oggi più di ieri, la Fivi ha ragione di esistere e di operare, in Italia e in Europa. Il Mercato dei Vini dei Vignaioli di Piacenza, organizzato dalla Fivi con pochissime risorse finanziarie e tanto volontariato, riuscirà comunque a portare circa duecento vignaioli italiani, in una allocazione volutamente periferica, a proporre e vendere, senza mediazioni, direttamente al consumatore  il proprio 'terroir'. E questo è già  un bel risultato di aggregazione di filiera e di comunicazione di intenti". Sì, sono parole che condivido, che mi piacciono, e dunque in bocca al lupo alla Fivi e al suo Mercato, ed anzi dico che mi auguro sia un successo, perché il mondo del vino italiano ha bisogno della Fivi.
Annoto, per finire, che il mercato è aperto sabato 3 dicembre dalle 13 alle 21 e domenica 4 dalle 10 alle 18, che l'ingresso costa 10 euro e che nella mattinata di sabato, alle 10, c'è una tavola rotonda sul tema "Identità e ruolo del Vignaiolo nello scenario della globalizzazione". Tema impegnativo.

20 novembre 2011

Mangi noci

Avevamo davanti il formaggio, mele dalla buccia rugosa, castagne e noci.
"Mangi noci, aiutano l'ultimo bicchiere", aveva detto l'uomo.
Aveva scostato la sedia dal tavolo e teneva le gambe di traverso. Con due dita prese delicatamente una delle mie sigarette.
"Fumo poco", disse: "Ma una ogni tanto non dispiace". La donna sparecchiava, lasciò il vino e le noci. Andava e veniva senza più guardarci, smettendo di canticchiare il suo sordo motivo non appena oltrepassava la soglia della stanzina.
Giovanni Arpino, "La suora giovane", Dalai editore 2011

19 novembre 2011

Haiku e Barolo

Angelo Peretti
Dopo lo Champagne e il Chiaretto, eccomi a sperimentare di nuovo la forma dell'haiku con un grande rosso come il Barolo, e qui occorre scoprirsi il capo deferenti. Soprattutto col primo dei du vini, che ha un bel po' d'anni sulle spalle e rappresenta la nobiltà assoluta della terra barolista ed è stato per me, occasionale e fortunato bevitore, una rivelazione, un'epifania, che serbo dentro al cuore e alla mente. L'altro è ben più giovane, e l'ho apprezzato imberbe e di più l'apprezzo ora che ha un paio d'anni di più e l'attendo ancora, confidente, nell'evoluzione e intanto lo bevo assai volentieri e sono lieto d'essermene fatta una discreta scorta. Provo dunque a parlarne in pochi versi, cercando di rendere lo stupore che m'hanno generato al sorso.

la nebbia si squarcia,
appare improvviso un sole
che inneggia alla vita

Barolo Riserva Monfortino 1978 Giacomo Conterno

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nella torbiera
fiorisce una viola,
è tempo di amare

Barolo Ravera 2004 Elvio Cogno

18 novembre 2011

Maso Palt, bolla rosa eretica

Angelo Peretti
Questo pezzo avrei dovuto scriverlo quando faceva caldo, ma ero in pausa di riflessione, e dunque niente. Ma voglio comunque parlarne adesso del rosé con le bolle che ha fatto Longariva, azienda trentina di Rovereto, perché è stata una sorpresa dell’estate e perché, credetemi, può esserlo anche per le feste di Natale: mica male mettersene in casa qualche bottiglia un aperitivo fuori dagli schemi. Ordunque: in vino si chiama Maso Palt Rosé, è uno spumante rosato fatto con uve di pinot nero (e basta) ed è elaborato col metodo Martinotti, quello italiano, in autoclave. Il che pare un’eresia nella patria del Trentodoc portabandiera del metodo classico.
“La spumantizzazione con fermentazione in bottiglia in Trentino è oramai diventata quasi una scelta obbligata per i vignaioli che possiedono produzioni proprie di pinot e chardonnay” mi ha raccontato il patron di Longariva, Marco Manica, ma “tale viatico non ci ha mai completamente convinti, né ci ha entusiasmato, né tantomeno contaminato, sin dall’inizio di questa escalation che da qualche anno a questa parte sembra inarrestabile. Aggiungere alla nostra gamma uno spumante metodo classico, dai tempi più o meno lunghi, con moltissime incertezze e oneri, lento nell’esecuzione, seguendo percorsi affollati e scontati, non ha mai rappresentato per noi una scelta convincente e innovativa per il mercato in continua mutazione. La nostra scelta in controtendenza ci ha trovati entusiasti e vogliosi di iniziare un percorso diverso per la nostra provincia tanto vocata alla spumantizzazione. Questo metodo permette tempistica più flessibile di preparazione, sintonia dei tempi, approccio spumantistico meno impegnativo, gioventù e freschezza nel prodotto finito, completamente gestibile e controllabile lungo tutto il suo processo”. Dichiarazioni impegnative, forse perfino di rottura nella terra di altre bollicine.
Ora, due parole sul vino in sé. Bel rosa corallino. Naso di fragolina di bosco e ciliegia marasca, bocca in perfetta corrispondenza, bolla ben gestita, morbidezza suadente. Insomma, col caldo si strabeveva, ma sono convinto possa andar bene anche nell’inverno che viene.
Pinot Rosé Brut Maso Palt Metodo Martinotti Longariva
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

17 novembre 2011

La parrocchia del vino

Angelo Peretti
Ecco, una delle differenze - enormi - tra la Francia e l'Italia del vino è che i francesi fanno sì che il vino assuma nelle zone di produzione un valore pressoché universale, e dunque quando sei in una cittadina che vive di vino te n'accorgi immediatamente. Ma mica solo perché ci sono le frecce che indicano le cantine, oppure i percorsi del vino i depliant, ché quelli ci sono anche da noi. Quel che fa la differenza è che nelle terre del vino francesi un po' tutto parla del vino. Mentre da noi non succede. Non è una differenza da poco.
Quando dico che là in Francia nei villaggi del vino tutto parla di vino, intendo che ne trovi traccia anche dove meno te l'aspetti. Prendiamo Arbois, nel Jura. Ci si fanno i magnifici e complessi e difficili - lo ammetto - vin jaune che a me piacciono parecchio. Tra i simboli di cui va fiera la gente del posto c'è la chiesa di Saint-Just, col suo monumentale campanile citato dalle guide. Andando ad Arbois non potevo non farci una visita, alla chiesa. Di fuori, accanto alle mura in pietra, ho trovato foto - belle - di vigneti. Dentro, alle massicce colonne ecco appesi dei pannelli che invitano a un percorso culturale tutto giocato sui riferimenti biblici al vino.
"Vino dell'ebbrezza, vino della saggezza", s'intitola la mostra, che unisce valori religiosi e tradizione agricola, interpretazioni teologiche e usanze vitivinicole del territorio. Poche parole, titoli snelli che leggi in un attimo, immagini che parlano da sole. Un gioiellino, che vorrei vedere anche da noi, in qualcheduna delle tante splendide chiese dei nostri paesi del vino.
Credo sia giusto citare gli autori dei quest'iniziativa: a renderla possibile per la parrocchia di Notre-Dame de l'Hermitage di Arbois sono stati - ho letto all'ingresso - Marie-Élisabeth Camuset per la concezione del progetto, per i testi Martine Chaussy, per l'introduzione Fabrice Hadiaid, per la realizzazione grafica Alain Tournier. Bravi tutti.
Parroci delle terre del vino d'Italia, copiatela, 'sta mostra!

16 novembre 2011

Prosecco e veleni

Angelo Peretti
Accidenti, terzo giorno di fila che mi occupo di Prosecco. Ma il depliant che ho ricevuto via email mi ha lasciato stupefatto, e dunque ecco che ne parlo. Ordunque, trattasi di depliant di un ente pubblico d'area prosecchista, ossia il Comune di Vidor, nel Trevigiano, con logo altresì della Provincia di Treviso. Reclamizza un percorso storico naturalistico lodevolmente delineato nella zona. Bell'idea. Magari è un po' meno indovinato il titolo, che fa "Dal sacro al pro... secco" (a me i puntini è noto che in genere piacciono poco). Si spiega che "la variabilità del paesaggio attribuisce al territorio del Comune di Vidor una valenza naturalistica esclusiva" e che la sua particolarità è il succedersi a breve distanza di ambienti molto diversi: partendo dal Piave, il fiume, la passeggiata procede verso scenari prima golenali e poi pianeggianti e agricoli, "per arrivare all'area del Prosecco docg". Molto bene.
Il problema è che si dice anche che per un'ampia parte dell'anno è meglio che quel percorso non lo si faccia. Anzi, che è proprio vietato farlo. Perché i campi sono avvelenati. Sissignori, fra le "norme comportamemantali", citate anche sul sito del Comune di Vidor, si scrive così: "Il transito nel percorso non è consentito nel periodo compreso tra il mese di aprile ed il mese di agosto compresi di ogni anno, a causa dei trattamenti fito-sanitari alle coltivazioni". Oh, voglio dire, tra aprile e agosto, quando la gente va a fare passeggiate, ché credo difficile ci si rechino in febbraio, col freddo che fa.
Il "Regolamento per la circolazione sul percorso storico naturalistico" è ancora più chiaro: "Nelle aree di proprietà privata del percorso il transito non è consentito - si legge - nel periodo compreso tra il mese di aprile ed il mese di agosto compresi di ogni anno, attesa la necessità dei proprietari dei fondi di eseguire i normali trattamenti fito-sanitari alle coltivazioni e ciò al fine di non creare pericolo per le persone in transito ed intralcio ai proprietari".
Insomma: non ci si può passare - non è consentito! - per tutti quei mesi nei quali tra i vigneti prosecchisti si trattano le vigne. Perché c'è, udite udite, "pericolo per le persone". E il pericolo non mi si venga a dire che è viabilistico perché legato all'uso dei trattori o degli altti macchinari, perché altrimenti andrebbe vietato il passaggio anche e soprattutto in vendemmia. Nossignori: il pericolo, a leggere quel che si scrive a Vidor, sono i trattamenti. Ohibò, ma se lo sventurato camminatore ha rischio di finire avvelenato sul percorso, che ne sarà di tutti i vidoresi perennemente esposti a quei profluvi di fattori nocivi? Tutti malati, avvelenati, spacciati?
Ora, non sarà certo io a minimizzare i problemi dei trattamenti chimici in agricoltura: so benissimo che l'attività agricola inquina l'ambiente e anche chi nell'ambiente ci vive, e che un graduale, razionale, meditato passaggio a pratiche meno invasive è bene che si faccia e che se non lo si è già fatto lo si inizi da subito. Così pure, so bene che quelle cose che s'irrorano ripetutamente in vigna non sono il massimo della goduria, nossignori. Aggiungo per di più e per inciso che sarebbe bene che si ragionasse pure sugli sprechi idrici che avvengono in troppe campagne e in troppe vigne: l'acqua è un bene limitato, e dunque non va sprecata. Ma che si crei un percorso che conduce alle vigne del Prosecco docg e che poi si dica che su quel percorso c'è "pericolo per le persone" quando si fanno i trattamenti in vigna, be', mi pare un po' paradossale. Delle due l'una: se c'è pericolo, meglio evitare del tutto di tracciare percorsi "a tempo", spendendo pubblici quattrini, e pensare invece a tutelare la salute della gente, a partire dai vignaioli, ma se invece si ritiene che la salute sia tutelata, perché vietare?

15 novembre 2011

Australian Prosecco

Angelo Peretti
Proprio ieri, commentando quanto affermato da Gianluca Bisol, ossia che entro venticinque anni la domanda di Prosecco supererà il miliardo di bottiglie, scrivevo - mi autocito - che "se davvero ci si aspetta che il fenomeno Prosecco abbia un trend esponenziale, nei paesi extra-Ue, dove le regole europee non sono applicate, potrebbe esserci la fortissima tentazione di piantare glera (il nome nuovo dell'uva del Prosecco) per produrre un Prosecco 'made in qualche altra parte del mondo', col risultato che i prezzi sul mercato globale subirebbero un'ulteriore contrazione".
Orbene, ho voluto fare una prova, e su Google.com ho semplicemente scritto queste paroline: Australian Prosecco. Al primo posto m'è uscita una pagina del portale Vino Diversity dedicato, per l'appunto, alla Prosecco white wine variety. Attenti, alla varietà d'uva da vino bianco prosecco, mica all'uva glera. Vi si dice che il prosecco è un vitigno coltivato nel Nordest d'Italia e che è adoperato per fare spumanti a basso tenore alcolico, ma anche occasionalmente vini fermi. E vabbé. Poi però, più avanti, s'informa anche, dopo aver indicato gli abbinamenti ideali del Prosecco, che i produttori australiani (di Prosecco, appunto) includono Bogie Man Wines (nella zona di Strathbogie Ranges), Box Grove (Nagambie Lakes), Chrismont (King Valley), Dal Zotto Wines (King Valley) e Mount Towrong (Macedon Ranges). Sissignori, ben cinque aziende che laggiù, nella terra dei canguri, fanno Prosecco. Di una, Dal Zotto, e del suo Prosecco, avevo già scritto qualche po' di tempo fa. Prima avevo scritto anche di un altro prosecchista australiano, la Brown Brothers, nella King Valley (e nell'elenco di Vino Diversity non lo vedo citato, il che mi fa pensare che ce ne siano altri). Ma qui adesso il gioco sembra farsi duro, se avanza un'armata prosecchista in Australia.
Sono dunque andato alla ricerca di questi "nuovi" nomi del Prosecco made in Australia. In ordine di elenco, ovviamente. Di Bogie Man ho trovato on line poco o nulla, e dunque non so dire se davvero faccia 'sto Prosecco dell'altra parte del mondo. Box Grove ha il suo sito, ma (salvo mia svista) non c'è traccia di Prosecco, neppure nel modulo d'ordinazione dei vini. Vuoi vedere, mi son detto, che non è vero che ci sono altri produttori di Prosecco in Australia? E invece.
Invece ecco che vedo il sito di Chrismont e scopro che fa un La Zona Prosecco (nome italianissimo), "a great aperitivo". Eppoi Mount Towrong anche lui ha il suo Prosecco, e spiega che "il Prosecco è tradizionalmente prodotto nelle montagne della regione del veneto, nel nord Italia", e a leggere così pare non vi pare che la bottiglia che compare in foto venga dai monti trevigiani?
Ora, mi sa che ho sbagliato e devo correggermi: no, nei paesi extra-Ue non piantano glera. Là piantano prosecco, pari pari. E fanno vini che si chiamano Prosecco, pari pari. Vaglielo a spiegare che il Prosecco "vero" è quello nordestino. Se si va avanti così, il rischio è che in giro per il mondo di Prosecco ne scorra a fiumi, ma mica per forza originario delle plaghe venetico-friulane.

14 novembre 2011

Il Prosecco a quota un miliardo?

Angelo Peretti
Entro venticinque anni la domanda di Prosecco supererà il miliardo di bottiglie. L'ho letto su WineNews, e l'affermazione l'avrebbe fatta Gianluca Bisol, tra i nomi più noti del movimento prosecchista, al Wine Future di Hong Kong. Vabbé che fra un quarto di secolo chissà dove sarò, epperò lo scenario che si intravede con quest'affermazione è di quelli che fanno pensare.
Ordunque, il Prosecco ha un'accelerazione che lascia senza fiato. Quest'anno pare siamo già intorno ai 270 milioni di bottiglie, con la previsione (i vigneti ci sono) di arrivare a 370 milioni nel 2013. Bene. Ma il problema è il prezzo, e non ho notizie certe sull'andamento del prezzo del Prosecco al dettaglio. Perché se il prezzo deriva effettivamente dall'incrocio tra domanda e offerta, qualora ci trovassimo di fronte a volumi crescenti e prezzi calanti vorrebbe dire che per stimolare la domanda il Prosecco deve per forza muovere (verso il basso) la leva del prezzo. Se fosse il contrario, ossia se la domanda superasse l'offerta, i prezzi salirebbero, ovvio.
Detto questo, provo a buttar giù di getto qualche minima riflessione, in ordine sparso.
Primo: se davvero la domanda attuale e prospettica di Prosecco alimentasse la corsa verso il miliardo di pezzi, dovremmo aspettarci una corsa altrettanto spasmodica per l'accaparramento dei diritti da parte dei buyer internazionali, e questo porterebbe a una dinamica a lungo crescente dei prezzi.
Secondo: se la domanda non fosse invece così sostenuta, ma anzi occorresse sollecitarla muovendo in basso il prezzo al dettaglio, annunciare che i volumi quadruplicheranno potrebbe generare tensioni al ribasso dei prezzi. Di solito, in Borsa il prezzo di un titolo sconta con netto anticipo le conseguenze anche solo ipotetiche di qualunque rumor finanziario. Lo stesso potrebbe avvenire con i rumor sull'andamento della produzione del vino, e dunque i buyer globali, sapendo che i volumi aumenteranno di brutto, potrebbero essere spinti a rinnovare i contratti solo a quotazioni calanti (chi glielo fa fare di rinnovare a prezzi stabili o crescenti se c'è abbondanza di prodotto senza che la domanda abbia già superato l'offerta?).
Terzo: se davvero ci si aspetta che il fenomeno Prosecco abbia un trend esponenziale, nei paesi extra-Ue, dove le regole europee non sono applicate, potrebbe esserci la fortissima tentazione di piantare glera (il nome nuovo dell'uva del Prosecco) per produrre un Prosecco "made in qualche altra parte del mondo", col risultato che i prezzi sul mercato globale subirebbero un'ulteriore contrazione.
Quarto: lo scenario agrario veneto e friulano potrebbe cambiare radicalmente, conducendo ampi tratti del territorio verso una monocultura intensiva di vigne di glera, con buona redditività nel breve e rischi nel medio-lungo.
Detto questo, al prosecchisti auguro le migliori fortune. Ma sono un po' perplesso.

13 novembre 2011

Finì al bar

Se ne andò che il mare era tutto un deposito di sole sotto celesti campiture. Era cominciata la brezza della sera e il mandorlo stormiva. La seguì con lo sguardo finché la vide sparire. Allora uscì di casa. Per le strade del paese cercò di ragionare su ciò che lei rappresentava. L'intimità di quei vicoli, coi suoi tutti morti, gli sembrava vana.
Finì al bar.
Francesco Biamonti, "Attesa sul mare", Einaudi 2001

12 novembre 2011

Haiku e Chiaretto

Angelo Peretti
Qui sono in palese conflitto d'interesse, visto che m'occupo professionalmente della denominazione, ma tra gli haiku vinicoli che mi sono usciti dalla penna (sì, la penna: ho riscoperto il pacere della stilografica nell'epoca dell'iPad) nel periodo della pausa di riflessione dell'estate e del primo autunno ne ho ritrovati due che trattanto del "mio" Chiaretto bardolinese. Piccoli stupori generati da un bicchiere di vino rosato della "mia" riviera gardesana d'oriente. Che mi permetto di presentare qui sotto: da un lato l'eleganza sinuosa d'un Chiaretto d'ispirazione provenzale, dall'altro la rassicurante familiarità d'un Chiaretto tradizionalissimo.


la veste di seta
giace sulla poltrona,
sarà presto l'alba

Bardolino Chiaretto 2010 Giovanna Tantini

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la corriera delle sette,
avremo per cena
minestra di zucca

Bardolino Chiaretto Classico 2010 Campostrini

11 novembre 2011

L'Amarone in Borgogna

Angelo Peretti
Questa non me la sarei aspettata. Esco da Beaune, una delle capitali della Borgogna del vino, e poco prima dell'ingresso dell'autostrada cosa trovo? Trovo L'Amarone. Un ristorante italiano, con tanto di insegna tricolore verde-bianco-rosso e per nome, appunto, L'Amarone.
Per vendere "italiano" nel cuore della Borgogna si affidano al rosso valpolicellese. Mica male, per gli amaronisti: sono nel mito dell'italianità. Dunque, dureranno.
Sono andato a vedere il sito del ristorante. Di Amaroni in carta ne hanno sei: tra i "Galactici" (è la serie dei vini italiani di punta) ho visto Quintarelli '98 e Dal Forno '02, mentre nella lista "delle Venetie" ci sono Corte Giara (seconda linea di Allegrini), Santa Sofia, Santi (è del Gruppo Italiano Vini) e Galtarossa (distribuito dal Giv)
La cucina? Stile italiano: carpaccio, tagliatelle, gnocchi, pizza. Perfino il filetto all'Amarone. Se ho provato? Macché.

10 novembre 2011

Secco della Marca Trevigiana

Angelo Peretti
Novantanove centesimi e avrete la vostra lattina di Secco 2Go. O meglio, duecento millilitri di Marca Trevigiana Secco Frizzante 2Go: così si legge sul metallo, e la scatola che contiene i barattoli informa che è "originale italiano". Accade in Germania. Al supermercato. Peccato che nei cartelli indicatori del prezzo ci sia scritto "Prosecco", ma questa è mica colpa del produttore.
Su internet ho visto che il Secco 2Go è della Biderer St. Ursula Weinkellerei di Monaco di Baviera. Sul sito si legge così: "Lo sapevi che in origine il Prosecco è il nome di un vitigno che viene coltivato principalmente nella zona a nord di Venezia?" E poi si spiega che "una nuova legge" non permette più alle cantine fuori da quella zona di chiamare Prosecco il loro vino frizzante. Dunque, ecco la soluzione: "Abbiamo ribattezzato il nostro Prosecco in quello che è: Secco Frizzante 2Go". Ecco fatto.
Non esprimo giudizi sulla liceità dell'operazione, semmai toccherà a chi vi è preposto. Annoto solo che ormai in Germania il termine Prosecco viene sempre più usato come sinonimo di spumante. Di fatto, per i consumatori tedeschi il Prosecco è tutto quello che ha le bolle e non è Champagne. Annoto anche che la fantasia al servizo del marketing vinicolo non va forte solo in Italia, e che questo Secco Frizzante della Marca Trevigiana è indubbiamente parecchio fantasioso.

9 novembre 2011

Napoli di mare e di terra

Angelo Peretti
Lo stereotipo è quello: il golfo di Napoli col pino in primo piano, dalla collina di Posillipo, e sullo sfondo il Vesuvio. Quante volte l'avevo già vista 'sta immagine? Tante, e tutte le volte mi ero concentrato sul mare, e così per me Napoli è sempre stata una città di mare, e le città di mare sono piane. Invece no, Napoli non è piana per niente. Napoli è in salita. Me ne sono accorto una mattina che facevo jogging in via Toledo: ora presta, strada deserta, e mi sono impressionato a vederla in salita, la strada, ché nelle altre ore, strapiena di gente, non me n'ero accorto. Eppoi ho corso fino a Posillipo, e la salita c'è, e la senti nelle gambe, e mi sono dato dello stupido: se il golfo lo si vede dall'alto, nelle oleografie, allora c'è la collina. Stupidamente, non avevo mai riflettuto che è la terra a plasmare anche la cucina partenopea: che c'azzecca col mare la pizza? La pizza è terragna, altroché. Napoli s'affaccia verso il mare, ma dalla campagna e dal monte e dalla collina, e le case sono a strati, colline di case.
Ci pensavo, ed è stata una rilevazione, cenando a Palazzo Petrucci, ristorante nel cuore della città, a lato della splendida piazza di San Domenico Maggiore, che s'apre su Spaccanapoli. Ci pensavo perché la cucina di Lino Scarallo, lo chef, è così, di terra e di mare, insieme. Fusione, integrazione di prodotti terricoli e marinari. Dico: lasagnette di mozzarella di bufala campana e crudo di gamberi su salsa di fiori di zucca. A far da supporto ai gamberi, fette di mozzarella. Splendido. Oppure: raviolo di lingua di vitello ripieno di gamberi crudi su zuppetta di bucce di limone di Sorrento e sconcigli (sono molluschi). Il raviolo non è "con" la lingua, ma "di" lingua, tagliata sottile sottile e modellata per contenere i gamberi. Piatto che mette insieme la Napoli plebea e quella aristocratica. Ancora: ravioli ripieni di capocollo di maiale alla genovese su guazzetto di vongole, pecorino e mirto. Et voilà, ancora terra e mare, uniti. Eppoi un assaggio d'una proposta che Lino m'ha detto essere ancora in sperimentazione: battuto di seppia, ostriche e lime con tartare di vitello, carciofo e maionese d'astice, e qui ci voleva l'applauso.
Se vi capitasse d'essere a Napoli, andate a provarla la mano di Scarallo a Palazzo Petrucci. Un altro dei luoghi di culto della grande ristorazione campana. Anche il locale è bello: essenziale, silenzioso (a Napoli!), su due piani, cucina al superiore, a vista. Un buon motivo in più.
Ristorante Palazzo Petrucci - Piazza San Domenico Maggiore, 4 - Napoli - tel. 081 5524068

8 novembre 2011

Trentinità vinicola?

Angelo Peretti
Scrivevo ieri della veneticità dei vini rossi e del loro carattere identitario intriso di freschezza e speziatura. Mi è capitato più volte di riflettere, da agosto ad ora, se esista parimenti una trentinità vinicola. Un'appartenenza al Trentino.
Dico da agosto perché è in quel mese che ho avuto modo d'assaggiare parecchie bottiglie alla piccola, bella iniziativa che i Vignaioli del Trentino hanno organizzato al Museo civico di Riva del Garda, dopo che avevano rifiutato di partecipare all'annuale rassegna allestita dall'ente pubblico, mostrando il loro disaccordo sulle politiche vinicole locali, condizionate dalla cooperazione e dalle sue problematicità.
Il pomeriggio a Riva è passato col vino che induceva pensieri e con l'Ora, vento malandrino, che rinfrescava la calura. Ma l'idea che mi sono fatto, in quell'occasione, è che alla fine ad aver vinto è proprio il modello culturale della cooperazione - quello che chiamerei il modello Cavit, ma solo per capirci, e perché Cavit è il colosso cooperativo provinciale -, e che i vignaioli, inconsapevolmente, nell'osteggiarlo hanno finito per replicarlo.
Orbene, la convinzione personale è che il modello cooperativo trentino abbia mirato nel tempo a costruire milioni di ettolitri di vini impeccabili sotto il profilo tecnico e tecnologico: il riferimento d'obbligo va al Pinot Grigio, ma non mi riferisco solo a questo. Vini modellati enologicamente per competere sul mercato globale e dare redditività alla filiera viticola, e non sono - si badi - obiettivi di poco conto. Però sono anche vini che, al di là di quanto raccontano il marketing e la comunicazione aziendale, inevitabilmente finiscono per aver poco di territoriale, perché la rincorsa necessariamente ossessiva alla correttezza tecnica difficilmente si può coniugare con le imperfette asperità del terroir.
I vignaioli potevano dal canto loro percorrere la strada opposta, quella appunto del terroir, per definizione imperfetto. Cercando un'identità territoriale trentina che la cooperazione non poteva inseguire (e forse neppure doveva, essendole stata assegnata una mission diversa). Però così mi pare non sia stato, ed anzi i vignaioli hanno focalizzato l'azione esattamente sullo stesso obiettivo delle cooperative: la ricerca della correttezza e persino della perfezione tecnica.
Ovviamente, quella dei vignaioli è una cura tecnica che ha obiettivi qualitativi ben diversi rispetto a quelli propri delle cantine sociali: i vigneron vogliono l'eccellenza assoluta, le cooperative la miglior qualità possibile per i prezzi spuntati sul mercato. Però la filosofia di fondo è la stessa, e guarda più alla vigna e alla cantina che non al terroir.
Ecco allora che oggi in Trentino si trovano bottiglie davvero ben fatte, e vini impeccabili, e a Riva ne ho tastati tanti. Vini che ristapperei. Ma sono vini che a mio avviso raccontano soprattutto dell'abilità artigiana del produttore. Così finiscono per essere perfetti, ma troppo diversi l'uno dall'altro, senza un filo comune nella narrazione. Trentini per origine, ma non per trentinità, vorrei dire.
La domanda che ci si può fare allora è: ma cos'è 'sta trentinità? Non lo so, e mi piacerebbe scoprirlo. Magari tastando e ritastando vini insieme ai vignaioli.

7 novembre 2011

La veneticità e la freschezza

Angelo Peretti
Veneticità: che strana parola, che strano concetto. L'appartenenza al Veneto. C'è una veneticità culturale? Credo di sì, anche se questo magari non è il posto adatto per discuterne. Credo, peraltro, che esista una veneticità vinicola, un tratto distintivo che accomuna il settore del vino nella regione. O meglio: credo che i tratti distintivi riguardino da un lato il modello vitivinicolo veneto - incomprensibile se non vi si dà una lettura antropologica o sociologica, e prima o poi forse ne scriverò - e dall'altro i vini stessi. E per i vini intendo il loro stile, il loro approccio organolettico.
Ad esempio, la veneticità dei rossi la trovo nella loro freschezza e in una speziatura piuttosto marcata. E questo a prescindere dalla zona o dal vitigno. Un rosso veneto è un rosso fresco e speziato. Vale anche per le migliori espressioni dell'Amarone, quelle più rispettose della storia e del terroir: rossi concentrati, sì, ma certamente anche freschi, dalla spiccata nota acida e dall'intrigante vena speziata. Ecco, questa è veneticità dei vini rossi.
Mi venivano alla mente queste considerazioni bevendo i due rossi dell'azienda agricola Costozza dei Conti da Schio. L'azienda, storica, è a Costozza di Longare, nel Vicentino, Colli Berici. Villa splendida, cantine scavate nella roccia, vetuste.
Ho stappato i due Cabernet del 2007. Quello sotto la doc dei Colli Berici è fatto tutto col cabernet franc. L'altro è un igt del Veneto ed è cabernet sauvignon. Il primo, il doc, fa 13 gradi di alcol, l'altro addirittura 15. Il primo punta di più alla beva, l'altro alla concentrazione, ma senza eccedere. Eppure hanno un tratto distintivo comune: la freschezza, che fa sì che a un bicchiere ne segua un secondo e poi un terzo e che comunque il vino accompagni con nonchalance un pasto intiero. Ecco: due Cabernet intrisi di veneticità. A questo pensavo, godendomeli. Sì, godendomeli.
Un dettaglio mi ha lasciato perplesso: tappi corti, piccoli. Chiusure per vini da bere immediatamente: invece meritano buon affinamento.
Qui sotto qualche nota d'assaggio.
Colli Berici Cabernet 2007 Costozza
Al naso c'è il frutto rosso e c'è una spezia ampia e avvincente e c'è una lieve, rinfrescante vena verde. In bocca è beva e spezia ancora e sale e frutto. Si beve che è un piacere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Cabernet Sauvignon del Veneto 2007 Costozza
Frutto più denso, spezia più pepata. Bocca più tonda, e l'alcol è abbastanza in rilievo, epperò è compensato dalla freschezza, appunto, e la densità non è pesante.
Due lieti faccini :-) :-)

6 novembre 2011

La parola astemio

In tutti i rami della nostra famiglia il significato della parola "astemio" era noto, ma inapplicato. Bevevano i nostri padri e le nostre madri; i nonni e le nonne, bisavoli compresi; i cugini e le cugine; bevevano gli zii di Milano e i Gilibertì di Parigi; bevevano le nostre tate con i loro fidanzati vicini e lontani; e fin da piccoli bevevamo noi ragazzi, seppure pallido vino allungato. Una volta abbiamo dato del lambrusco a uno spinone che si chiamava Tell e dopo andava in giro ubriaco a leccare i muri di casa.
Roberto Barbolini, "Ricette di famiglia", Garzanti 2011

5 novembre 2011

Haiku e Champagne

Angelo Peretti
Nei tre mesi di silenzio della mia pausa di riflessione ho continuato a scrivere, ma senza pubblicare. Ho sperimentato però qualche forma di scrittura del vino. Per esempio lo stile dell'haiku giapponese, ossia piccole composizioni in tre brevissimi versi. Balbettii, certo, perché non conosco l'essenza della filosofia che sta alla base dell'haiku, né credo m'interessi approfondirla. Mi piace tuttavia la sua essenzialità, che si concentra più sullo stupore dell'attimo che non sulla descrizione. Così dunque cerco di fissare in questi microtesti lo stupore, appunto, che talvolta mi regala il primo sorso d'un vino, e non già la sequenza di colore, profumo, gusto.
Mi permetto di riportarne qui di seguito due, nati dall'assaggio d'altrettanti Champagne. Con un tradimento concettuale: l'haiku non ha titolo, mentre io faccio riferimento al nome d'un vino. Siate clementi.

raccolgo le noci
per l'inverno,
è l'ultimo sole

Champagne Grand Millesime 1999 Gosset

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intingo il pane
in un lacerto d'estate,
la notte è infinita

Champagne Réserve Michel Furdyna

4 novembre 2011

Contro la logica del breve

Angelo Peretti
Dicendo ieri della lezione liberale di Luigi Einaudi accennavo alla profonda differenza tra le logiche di breve periodo e i valori che sanno essere durevoli. Ecco, sono contro le logiche del breve, che producono disastri.
Pensiamo alle banche. Un tempo, la loro azione si focalizzava sulle famiglie e sulle imprese e poggiava sullo spirito d'appartenenza dei dipendenti. La raccolta del denaro dai risparmiatori finanziava le imprese produttive, generando valore diffuso, che cresceva nel tempo, progressivamente, in una logica di medio-lungo periodo. Chi amministrava le banche pensava secondo questa logica, mirava a favorire una crescita stabile, guardando più al domani che all'oggi. Poi è arrivata l'ossessione per la creazione di valore per l'azionista, e l'azionista è diventato sempre più uno speculatore che mira a realizzare profitto nel breve e adirittura nel brevissimo periodo. Improvvisamente, il grande manager bancario non era più quello che costruiva solide basi per il futuro, bensì quello che garantiva il maggior ritorno immediato all'investimento di capitale. Per far questo, il sostegno all'economia reale è pasato in secondo piano rispetto all'urgenza della finanza. Il disastro che ne è conseguito ce l'abbiamo di fronte, lo tocchiamo con mano ogni giorno, ogni ora, e non sappiamo come e quando vi possa essere un'uscita dal tunnel nel quale ci siamo infilati.
Ecco, anche per il mondo del vino vale lo stesso principio. La ricerca affannosa del profitto di breve periodo ha condotto e conduce a modellare il vino secondo la logica della commodity, del bene di consumo da collocare massivamente sul mercato, magari con margini reddituali unitari ridottissimi, che generano reddito elevato solo se viene ampliata a dismisura la massa critica. Si è smarrita la saggezza dell'identità del vino, che si costruisce con pazienza, con fedeltà, e dunque con una visione che dev'essere necessariamente almeno di medio periodo, e che quindi genera profitti equilibrati e stabili nel tempo, non nel brevissimo. Invece la logica della prudenza era ed è vista quasi con ripugnanza, ma il suo tradimento, finita la bolla speculativa anche nel mondo del vino, sta costando caro.
Ecco, sono contrario alle logiche del breve. Per me il vero valore del vino è la sua identità. La ricerca e la costruzione dell'identità sono i veri obiettivi, capaci di generare valore durevole ai vignaioli. Così la penso.

3 novembre 2011

La lezione di Einaudi

Angelo Peretti
Cinquant'anni fa, sul finire dell'ottobre del 1961, moriva Luigi Einaudi, uno degli uomini che hanno fatto l'Italia. Il suo pensiero, il pensiero liberale, resta di straordinaria attualità, oggi che quest'Italia pare tristemente tornata nave sanza nocchiere in gran tempesta. Ne ha tracciato uno splendido ritratto Salvatore Carrubba sulla Domenica del Sole 24 Ore, e invito a leggerlo.
Ricorda tra l'altro Carrubba la battaglia che Einaudi ingaggiò contro il valore legale del titolo di studio. "Quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza - scriveva il presidente - valgono meno della carta su cui sono scritti". Se ne trae infatti l'illusione che "il pezzo di carta dia diritto a qualcosa", mentre è in verità il sapere concretamente conseguito grazie alla qualità dell'istruzione ad essere riconosciuto dal mercato ed a garantire l'affermazione personale.
Einaudi era anche produttore di vino, e proprio al vino penso rileggendo quelle parole sugli attestati che valgono meno della carta su cui sono stampati. Penso ai tre bicchieri, ai cinque grappoli, alle corone e a tutti i premi delle guide. Valgono davvero? Oh, sì, avere i tre bicchieri valeva tantissimo in passato e probabilmente per chi esporta è titolo che crea ancora valore. Ma è valore contingente, illusorio, se non vi è continuità qualitativa concreta. Valore che aiuta a generare denaro nel breve periodo, ma non offre prospettive durevoli, se poggia sull'effimero, sulla moda, sul momento. Credopossa essere un esercizio interessante prendere in mano le vecchie edizioni della guida del Gambero e rileggere l'elenco dei vini tribicchierati. Ce n'è qualcuno di cui è scomparso anche il ricordo, ce ne sono altri che non penseremmo più come oggetto d'elogio. Ce ne sono poi che hanno varcato gli anni con sicurezza, e ancora lo faranno, a prescindere dalle guide e dai premi.
Oh, sì, il diploma lo si può assegnare. L'errore è illudersi che sia quello il valore che dura nel tempo.

2 novembre 2011

L'amore per il vino

Angelo Peretti
Eggià, è un bel po' che manco dal web. Dall'8 di agosto, quando mi sono preso la mia pausa di riflessione. Lunga, sì, ma non mi sono neancora schiarito le idee. Però ho deciso di riprendere ugualmente.
Ringrazio tutti quelli che m'hanno contattato in questi mesi: belle parole, fanno piacere. Ringrazio pure l'anonimo autore d'un commento, che voleva esser cattivo, al mio pezzo di commiato. Non so se l'avete visto, ma vi risparmio la fatica: "Sparisci, che è meglio! Ma so che non sarà così... Tra un po' tornerai con la solita spocchia, opsss... scusa... con il rinnovato e mai tramontato amore per il vino! Arrivederci!" Così scriveva l'anonimo, ed ecco, lo ringrazio, perché mi ha fatto pensare.
Per tornare, non posso che ripartire da qui, dal riferimento al "mai tramontato amore per il vino". Ma nossignore, mi dispiace dare una delusione, però dico e ribadisco: non ci può essere amore per il vino.
Torno a citare i commenti, e a citare il mio: "Oh, no, non ci può essere amore per il vino. L'amore è un sentimento che nella vita si può avere talvolta il privilegio di ricevere, oppure la gioia di donare. Non necessariamente il dare e l'avere pareggiano, in questo bilancio. Per taluni, poi, non vi è bilancio, del tutto". Così dicevo.
Ecco, torno a dirlo, non può esserci amore per il vino. Ci può essere curiosità, interesse, coinvolgimento, persino entusiasmo o quant'altro vogliate, ma l'amore, siamo seri, no. Il vino è affascinante, talora avvincente, intrigante, ma resta pur sempre un bene materiale, e il sentimento non può essere per la materia. Invece ecco, sì, l'amore è una sentimento ed è per le persone e va alle persone e viene dalle persone. Il vino non c'entra, non idealizziamolo, o almeno non esageriamo.
Sì, certo, ritorno, o almeno ci provo. Torno a scrivere di vino, ma senz'amore, accidenti.