13 luglio 2008

Il Chiaretto e il tappo a vite

Angelo Peretti
Di dubbi non ne avrei neanche uno: vedessi sullo stesso scaffale il medesimo vino bianco imbottigliato in sughero e in tappo a vite, prenderei senz’esitazione alcuna quello con la vite. Ormai n’ho provati così tanti - soprattutto neozelandesi (oh, i grandi Sauvignon Blanc!) e austriaci (i Grüner Veltliner), ma anche tedeschi (i favolosi Riesling) e francesi - che non mi faccio più alcuna remora. E anzi mi son fatto convinto che il tappo a vite di nuova generazione, lo screwcap, o lo Stelvin (che è nome di una ditta, ma scommetto che finirà per diventare accezione comune, come lo Scotch per identificare il nastro adesivo trasparente o la Bic per la penna a sfera) è la soluzione ideale per il bianco. E per il rosato, ovviamente, e qui di seguito parlerò proprio di rosè - di Chiaretto, anzi - sotto Stelvin. Sui rossi magari ci vorrà qualche riflessione in più, ma se il vino dovesse invecchiare a lungo, perché no?
Che io stia dalla parte del tappo a vite l’ho già detto apertamente in passato su questo web magazine. E l’esperimento che s’è fatto qualche giorno fa da Matilde Poggi - leggi azienda agricola Le Fraghe, a Cavaion Veronese, due passi dal casello autostradale di Affi - me n’ha dato rinnovata convinzione.
Che cos’ha avuto di speciale questo test cavaionese? Ha avuto che s’è potuto confrontare l’identico vino - il Bardolino Chiaretto Ròdon del 2007 - messo in bottiglia con le due chiusure. La stessa vasca, Matilde l’ha imbottigliata nello stesso giorno un po’ col sughero e un po’ con lo Stelvin. E adesso, qualche mese dopo l’imbottigliamento, ha voluto chiamare a raccolta un drappello di giornalisti per far la verifica di come fossero andate le cose. Il risultato lo dico subito ed è scontato: Stelvin batte sughero, alla grande.
Non che il Chiaretto in sughero fosse male. Ed anzi, appena stappata la bottiglia, c’era fra i colleghi chi l’apprezzava più dell’altro: frutto più evoluto, più immediato, più corposetto, con un pelo di speziatura in più. Mentre il Ròdon in tappo a vite sembrava dapprima uscire con una certa ritrosia, soprattutto dal lato olfattivo, e in bocca era più verde. Ma passati un paio di minuti non c’era più storia: il Chiaretto in sughero se ne restava lì dov’era, ed anzi tendeva un po’ ad accucciarsi, mentre quell’altro in tappo a vite esplodeva di giovanile fragranza floreale e fruttata ed anzi andava crescendo di momento in momento, e gratificava per la salinità, per la succosità del fruttino. Talché i bicchieri del rosato in chiusura tradizionale son rimasti mezzi pieni, mentre gli altri si son presto svuotati: bevuti, altroché degustati! E gli stessi che avevano dapprima preferito il Ròdon in sughero si sono ampiamente ricreduti.
Ora, gli è che il sughero fa passare un po’ d’aria, portando a micro-ossigenare il vino, e quindi ad evolverlo, mentre lo Stelvin produce riduzione, e dunque di fatto quasi congela il vino così com’è al momento dell’imbottigliamento. Va da sé che appena versato il primo sorso, l’uno si mostra maturo e l’altro no. Ma, ripeto, è questione di attimi, e l’esuberanza del vino tenuto in tappo a vite ripaga ampiamente della brevissima attesa. Figurarsi poi se la bottiglia la si apre per metterla in tavola: nella durata d’una cena la bottiglia tappata con lo Stelvin sarebbe di gran lunga la più appagante, consentendo di godere appieno del vino nella sua durevole giovinezza.
Detto questo, due considerazioni sul caso in sé.
La prima: Matilde ha avuto coraggio. Mica facile per un produttore di qualità mettersi a imbottigliare in Stelvin. Di solito, il vino lo si mette in tappo a vite solo per il mercato internazionale, soprattutto quello inglese (a proposito: Decanter, il celebre wine magazine britannico, ha pubblicato di recente un pezzo intitolato «50 reasons to love screwcaps» - 50 ragioni per amare il tappo a vite - dicendo che, in particolare per i bianchi, il tappo a vite non è affatto un’alternativa economica e scadente, ma la scelta più indicata per mantenere intatti aromi e sapori). E s’usa poi dire che i ristoratori e gli enotecari d’Italia lo rifiutano. Lei ha deciso di provare lo stesso, e il vino l’ha venduto ugualmente tutto. E sotto vite ha messo anche, sperimentalmente, un po’ della sua Garganega Camporengo e un pochetto del suo Bardolino. Di obiezioni ne ha avute poche, di rifiuti netti uno, da parte di un ristoratore veneziano. Dunque, che aspettano gli altri vigneron? Avanti con la vite, che non dà problemi di bottiglie da buttare perché sanno di tappo e che invece consente di richiudersi la boccia e di berla più avanti se si è in casa, o di portarsela via comodamente se si è al ristorante. D’accordo, non c’è la ritualità della stappatura canonica, ma l’integrità del vino è garantita, e non è cosa da poco.
Seconda considerazione: occorrerà riflettere e fare esperienza su come vinificare il vino destinato al tappo a vite e come prepararlo per l’imbottigliamento. È vero che in Stelvin il vino si conserva (quasi) tal quale, e dunque giovanilissimo. È altrettanto vero che certe note evolutive possono piacere. Sul Chiaretto, in particolare, io amo trovarci il fiore che vira nella clorofilla, e poi il fruttino - la fragolina, il lampone, la ciliegia croccante e un po’ acerba - e poi però voglio anche la spezia ch’è tipica, in parte veronese del Garda, della Corvina (e in parte bresciana del Groppello). Ma quella speziatura esce generalmente col tempo. E dunque occorrerà anticiparne la presenza, se la si vuol far meglio percepire e si utilizza il tappo a vite. Come, non so: mica faccio vino, mica sono enologo. Io i vini li bevo e ne scrivo. Ma son certo che il bandolo della matassa è lì, pronto a farsi trovare. Per chi cocciutamente lo vorrà cercare. Eppoi un’ipotesi su chi andrà avanti nella ricerca io ce l’avrei: Matilde cocciuta il giusto lo è...

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