29 luglio 2011

Vini da boutique?

Angelo Peretti
Stavolta giuro che non ho capito. Colpa mia, sicuro, ma non ho capito, e questo un po' mi rode. Mi riferisco all'intervento che il professor Attilio Scienza ha tenuto nel convegno svoltosi presso la Bolla, in Valpolicella, sul tema delle viticoltura di qualità (ne ho già parlato nei giorni scorsi). In particolare, c'è un passaggio che mi ha fatto pensare, ma al quale non ho trovato soluzione.
Dunque, Scienza, dopo un excursus su quant'è accaduto nel mondo del vino negli ultimi decenni, si è posto una domanda - cerco di citare abbastanza puntualmente - che è questa: "Cosa devono fare i piccoli produttori?" E si è risposto che devono non perdere la sana abitudine di produrre vini "di nicchia" (virgoletto perché sono parole sue, e a me 'sta definizione della nicchia non piace), vini "di boutique". "In questi anni - ha aggiunto - i puccoli sono scesi a molti compromessi col mercato per svuotare le cantine, ma sono usciti perdenti", e fin qui condivido.
Poi, ha continuato con la proposta di "creare vini con una forte identità, fare ciò che non possono fare gli altri, cercando finezza e nobiltà". E la finezza e la nobiltà del vino vengono dalla sintesi tra uomo e vitigno e territorio e dunque "non possono farle le multinazionalu", e anche qui concordo.
Ma è il passaggio successivo che non riesco a linkare con questi due. Scienza ha cercato di dare la "parola d'ordine dei prossimi anni" e ha suggerito questo slogan: "Dall'origine arrivare all'originalità". Insomma, il professore pensa ad un "produttore stilista" che faccia dei "vini su misura". Insomma, "dobbiamo fare come il sarto che fa vestiti su misura, scontrandosi con l'industria che ha vestiti standard". Certo, capisco, ma è quel che un piccolo produttore avrebbe sempre dovuto fare, mica altro. Ed è quel che i piccoli produttori di successo hanno effettivamente fatto. Epperò io penso che l'origine resti vitale. Interpretandola originalmente, certo, ma resta essenziale, ché il rischio è l'omologazione, la standardizzazione.
Forse sono troppo pessimista, ma il rischio è quello che Alessandro Masnaghetti ha scritto a proposito degli assaggi dei Bordeaux del 2010 - che molti definisco strepitosi - e che ho già citato in un altro mio intervento: "Poi ci sono i vini, che è impossibile non giudicare importanti, ma che in fondo - e al di là delle distinzioni che pure ci sono e avremo modo di fare nell'articolo - sono accomunati da una sensazione di uniformità, di troppo bello, di troppo perfetto (tant'è che più di una volta mi sono chiesto: che cosa ha di particolare questo 2010 che altre annate non hanno, quale è il segno distintivo che in degustazione te lo fa riconoscere - penso al 1982 o al 1996 - ... be', proprio non saprei, mi sono risposto... forse la struttura). E mi raccomando: non tiriamo in ballo storie parkeriane già masticate sui guru che manipolano il mercato e balle varie. Piuttosto pare una deriva inconscia, o se vogliamo un'ossessione, che porta a quell'eccesso di perfezione/selezione che alla lunga finisce col togliere l'anima anche ai vini più dotati. Non la barrique, non le troppe estrazioni. Solo un ecceso di cura e di attenzioni".
Scienza pensa ad una viticoltura "di precisione" che renda più efficiente la pianta. Da altre relazioni del convegno mi pare d'aver avvertito che questa viticoltura "di precisione" è di fatto un'evoluzione - o un'implementazione - dei progetti di zonazione attuati negli ultimi anni. Con le zonazioni abbiamo mappato i terreni, con le tecniche della viticoltura "di precisione" dovremmo ora conoscere le singole caratteristiche delle singole parcelle di vigneto. E dunque, lodevolmente, tarare i trattamenti nel vigneto a seconda delle specifiche interazioni pianta-suolo che esistono metro per metro. La tecnologia lo permette, e questo può voler dire - tra l'altro - meno fitofarmaci e minori costi e minore spreco di acqua, il che è positivo. Ma temo che questo voglia dire anche smussare le differenze tra un pezzo di vigna e un altro, portando tutto a maturazione nello stesso momento e con le stesse caratteristiche. Ho paura che voglia dire avere uva tutt'uguale. E che dunque vengano a mancare quelle "imperfezioni" che rendono magici i vini "di terroir". Ecco: è questo che non capisco. La produzione "da boutique" è esclusiva perché non è omologabile, non è replicabile. Altrimenti è prêt-à-porter, magari molto bello e a buon prezzo, ma non "da boutique". Dobbiamo dunque pensare ad un vino prêt-à-porter?
Ci rifletto. Butto lì un'eresia: probabilmente, dobbiamo pensare all'uno e all'altro. Forse dobbiamo fare in modo che il piccolo produttore continui a far vino "da boutique" con una viticoltura "imprecisa" e che il grosso produttore faccia vino prêt-à-porter con una viticoltura "precisa". Entrambi con la cifra stilistica dell'origine. In fondo, il made in Italy ha avuto successo così. Ma sono idee mie, magari un po' eretiche, che però mi sento, appunto, di buttar lì.

4 commenti:

  1. Buongiorno Angelo, cerco di dare un mio contributo alle cose interessanti che hai scritto, sulle quali mi trovo in linea di massima d'accordo. A livello globale penso che il mercato del vino abbia ormai assunto tre profili molto diversi l'uno dall'altro: 1) quello dello sfuso, ovvero un prodotto "comodity", tendenzialmente banalizzato, talvolta anche a denominazione d'origine, che si confronta su un'arena competitiva focalizzata soprattutto sul prezzo; 2) quello del vino "taylor made", in gran parte a denominazione d'origine, prodotto per soddisfare specifiche esigenze dei consumatori (e delle catene distributive), soprattutto grazie a quello che sarà un sempre più intenso ricorso non solo a lieviti e additivi geneticamente modificati, ma anche a varietà geneticamente modificate; 3) un "vino del produttore", non necessariamente a denominazione d'origine, che tu definisci "da boutique", e che secondo me si avvicina al concetto ancora piuttosto confuso e generico del "naturale", che potrà assumere una sua più precisa identità anche investendo in ricerca, innovazione e scienza/tecnologia. Sono tre modi diversi di interpretare il vino, con alle spalle tre diverse strategie (enologiche, viticole, commerciali, distributive, etc), ma secondo me non è detto che in futuro la discriminante diventi la dimensione dell'azienda. Un piccolo produttore potrebbe infatti decidere in maniera consapevole di specializzarsi nello sfuso, magari cercando di sfruttare una filiera corta (gruppi d'acquisto, etc). Al contrario un grande gruppo potrebbe invece decidere di garantire la massima autonomia produttiva a una serie di aziende medio/piccole di proprietà, cercando di fare di queste ultime dei produttori con connotati molto vicini a quelli che tu definisci "da boutique". Stabilire un'univoca strategia per i piccoli produttori, dunque, mi sembra un po' una forzatura.

    RispondiElimina
  2. Riflessioni interessanti. E condivido la considerazione che stabilire un'unica strategia per i piccoli produttori sia una forzatura. Unica precisazione: la definizione dei vini "da boutique" non è mia, ma del professor Scienza. E francamente non mi piace molto, perché fa pensare a qualche cosa di elitario. Eccessivamente.

    RispondiElimina
  3. Mah, mi sa che le elucubrazioni di Scienza siano stanche e vecchiotte,
    il sogno ti molti/tutti i piccoli/produttori appassionati della loro
    terra è esprimere il carattere della loro vigna. Questo passa
    chiaramente dalla loro cultura del territorio ed esperienza
    professionale ma vorrebbero secondo me produrre più garage wines che
    boutique wines. Boutique lo sento alieno ed alienante.
    Il problema è diverso secondo me. Saremo capaci nel 2011 di portare
    l'attenzione del consumatore sulla vera differenza che deriva dalla
    personale interpretazione del territorio o dobbiamo per forza
    incanalarci nell'ennesima moda del momento ?
    E ancora esiste ancora spazio per prodotti di qualità fatti in piccole
    quantita senza grandi blasoni che riescano ad essere anche
    remunerativi ?

    RispondiElimina