3 marzo 2008

Lo strano caso della resa per ettaro

Angelo Peretti
Oh, insomma, non se ne può più di questa storia dei quintali per ettaro! Che i disciplinari italiani del vino siano un po’ astrusi è cosa conosciuta. Che vogliano essere più realisti del re è altrrettanto noto. E stupisce (impensierisce) che ci sia ancora chi, con piglio illuministico-tecnicistico-razionalista, vorrebbe usarli per regolare di tutto e di più, magari anche il colore ammesso per le foglioline apicali del quarto tralcio di ciascun filare partendo da destra alle 8 del mattino del trentesimo giorno di primavera, salvo poi non riuscire neanche a sognare di mettere in piedi un vero sistema di controlli su quel minimo che interessa per davvero: che l’uva venga da quel benedetto territorio. Non è forse «l’origine» che le doc dovrebbero «controllare»? Denominazione di origine controllata, mi par che significhi, quella sigletta.
Ma dentro ai disciplinari la storia dei quintali d’uva per ettaro è la più incredibile.
Intanto, visto che la faccenda piace ai tecnocrati, parlar di quintale è fuori luogo. La misurazione del peso in quintali non è più accettata dal sistema internazionale di unità di misura. Bisognerebbe usare i chili. Un quintale è 100 kg (senza punto, mi raccomando!). O tutt’al più si potrebbe optare per il Mg (megagrammo, pure non puntato, ma con la M maiuscola: è l’unità di misura che ha sostituito la tonnellata, abolita anch’essa, e dunque il vecchio quintale corrisponde a 0,1 Mg). Dunque, se un certo tal disciolinare parla di rese di 100 quintali per ettaro, sarebbe corretto scrivere invece 10000 kg, oppure 10 Mg. Ma, tant’è: in Italia il quintale è ancora utilizzato in lungo e in largo. Anche dai burocrati.
A parte questo, quanti quintali d’uva si facciano su un ettaro di vigneto non è onestamente una grand’informazione. È vero, son d’accordo: bisogna evitare la sovraproduzioni, che sono state (e ahimé ancora in certi casi sono) uno dei grandi problemi dell’italica viticoltura. Ma è bene o male che la resa per ettaro sia bassa? «È bene!» s’affrettanno a dire in molti, quando gli fai ‘sta domanda. Ma la risposta corretta sarebbe: «Dipende».
Già, dipende, e da almeno un paio di fattori.
Il primo è anche il più ovvio: dipende da quante vigne ci sono su quel dato ettaro di terra. Già: mica uguale che in un campo ci siano 4mila o 8mila vigne. Se il disciplinare dice che posso produrre, che so, 130 quintali d’uva per ettaro (pardon, 13 Mg oppure 13000 kg), ed è credo la misura più frequente nei disciplinari italioti, allora vuol dire che nel primo caso posso spingere ciascuna pianta a produrre più di tre chili d’uva, mentre nell’altro caso mi limito a fargliene maturare poco più di un chilo e mezzo. E non è certamente la stessa cosa se guardo alla qualità finale del vino. E insomma: bisognerebbe semmai parlar di resa per pianta, di quanti chili d’uva sia bene che ogni vigna produca di suo. Ammesso che si possa: far le cose semplici è sempre d’un complicato... Oppure si potrebbe comunque correlare la resa per ettaro al numero di ceppi. Ma i quintali per ettaro no, per favore.
Altra questione: dipende dal vitigno e dalla zona. Non ho certezza scientifica su quel che sto per scrivere, ma non sono affatto convinto che sempre e comunque far rendere poco la vigna sia un bene. Ci sono dei limiti in alto, così come in basso. È come per l’alimentazione: se mangio troppo, rischio le conseguenze dell’obesità, e se invece metto in pancia troppo poco, ecco che scivolo nei problemi di denutrizione. Non so se il paragone ci stia compiutamente, ma quel che voglio dire è che la vigna rischia d’andare in stress (anzi, ci va proprio) sia che le si faccia fare troppa uva, sia che gliene si faccia tener troppo poca. E questo dipende, appunto, sia dal tipo di pianta, sia dalle condizioni ambientali. Che so: una corvina d’alta collina in Valpolicella non la posso considerare allo stesso modo d’una corvina delle basse colline moreniche del lago di Garda. Pena perdere in freschezza, in armonia, in finezza. Pena perdere i caratteri del vino. E del terroir.
E così pure, visto che ci sono, mi vien voglia di sparlare della mania del Guyot, del filare. Sì, certo, in genere il filare è meglio: non discuto. Ma mica sempre e comunque. Oh, che grandi bianchi che ci dà ancora la pergoletta sulle colline di Soave! E come preservano acidità. E come salvano dalle scottature estive e dai grani di grandine. E insomma: basta avere il coraggio di diradare, e anche la pergoletta serve. Mica sempre, mica comunque. Anche qui dipende. Anche qui è questione di testa, di discernimento, di pensiero. E di terroir. Che è vigna e clima e terra e umanità.
Oh, sì, lo so: non ho detto nulla di nuovo. Ecché, bisogna esser per forza originali?

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