30 giugno 2010

Cronaca di un viaggio in Borgogna: #1 Vincent Dauvissat

Mario Plazio
La Borgogna e i suoi vini sono una delle mete ultime di qualsiasi appassionato di vino giunto allo “stadio terminale”. Bottiglie mitiche, cantine segrete ed impraticabili ai comuni mortali, discrezione, tutto gioca intorno al concetto di esclusività e alla difficoltà di accesso. L’occasione di unirsi ad un gruppetto di amici francesi era particolarmente ghiotta. Degustare in compagnia di gente fidata e ottenere le chiavi per aprire gli scrigni più reconditi delle muffose cantine borgognone: il richiamo era troppo ghiotto. Oltre all’amico e grande appassionato Emmanuel e al compagno di bevute Gilbert, ho potuto godere della grande capacità di discernimento e del palato proverbiale di quel Philippe Foreau produttore faro della denominazione Vouvray e autore di alcuni tra i vini più fini e coerenti di tutta la Loira.
In questo reportage in più puntate illustro le note degli assaggi effettuati in due (purtroppo) brevi giorni di spedizione in Borgogna, anche perché, va detto, ormai il portafoglio era prosciugato oltre il lecito.
Comincio con Vincent Dauvissat (Chablis).
Dauvissat è la referenza a Chablis. Stile cristallino, austero, profondamente ancorato al terroir e lontano da qualsiasi modernismo. Vincent pratica una viticoltura biodinamica senza però nessun esoterismo, adattandolo alle esigenze della pianta. Ha visto notevoli progressi dopo l’introduzione delle pratiche biodinamiche, con le viti che hanno attecchito in profondità donando dei grappoli più maturi e più impregnati di mineralità. Inoltre ha potuto ridurre gradualmente le dosi di solforosa, con notevoli benefici per la bevibilità dei vini. I vini sono fermentati ed elevati in legno (barriques in gran parte vecchie) e inox per il Petit Chablis per 9/12 mesi. I suoi 2008 hanno vissuto una maturazione difficile con una malolattica lunghissima, mentre i 2009 hanno al contrario beneficiato di condizioni molto facili. Tutti i vini evolvono prodigiosamente e necessitano di almeno 5/6 di riposo in cantina (10 per i grand cru).
Petit Chablis 2008
Suolo di calcare molto duro. Una buonissima entrata nell’universo Dauvissat. Associa note verdoline a fiori (glicine) e pesca gialla. Bocca svelta e incisiva con finale salato tipico del terroir.
Un faccino e mezzo :-)
Chablis 2008
Qui e per tutti i prossimi vini il terreno è quello tipico di Chablis: marne e calcare argilloso del Kimmeridge che contengono le famose conchiglie a forma di virgola (exogyra virgula). Fa capolino la sfumatura di selce accanto alla nocciola verde e al limone. La bocca è tesa, fine e molto acida. Deve ancora trovare la sua armonia.
Due faccini :-) :-)
Chablis Premier Cru Sechet 2008 (3 mesi di bottiglia)
Molto chiuso, percezione di legno che sparisce quasi subito. SI respira una maggiore maturità e complessità. Pesca matura, burro, polline e frutta secca compongono una bella paletta aromatica. La stoffa si rivela al palato, dove il vino ha una progressione notevole e termina su ricordi di mandorla.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Chablis Premier Cru Vaillons 2008
Cru che comincia solo ora a dare i risultati attesi dal perfezionista Dauvissat. Il naso oscilla tra il terroso e il fumé con in aggiunta fiori di arancio e una nota verde pronunciata. La bocca è al tempo stesso più sferica del precedente ma dominata dall’allungo conferito da una formidabile acidità. Lunghissimo e sapido il finale.
Tre faccini :-) :-) :-)
Chablis Premier Cru La Forest 2008 (imbottigliato da 1 giorno)
Per Dauvissat è a livello di un grand cru. Nonostante il recentissimo imbottigliamento il vino ha meritato la qualifica di elettrico ed energetico in virtù di una profondità e di una vitalità irrefrenabili. In attesa di richiudersi per un lungo periodo, il vino porge note fumé e marine, è speziato e pepato, setoso e profondo nelle sensazioni già chiaramente minerali.
Tre faccini :-) :-) :-)
Chablis Grand Cru Les Preuses 2008
È considerato il più accessibile tra i grand cru. Uno dei più chiusi, tutto minerale e burro, e ancora polline e caramello salato. Il 15% di legno nuovo emerge per poi sparire del tutto. E’ il più femminile per quella sua sensualità e la sensazione di dolcezza del frutto. Nel finale emerge dal nulla un bellissimo aroma di sasso caldo. Da attendere
Tre faccini :-) :-) :-)
Chablis Grand Cru Le Clos 2008 (1 giorno di bottiglia)
24 ettari di estensione fanno del Clos il grand cru più esteso. Quello di Dauvissat è un vino che bisogna provare una volta nella vita, anche perché non costa cifre irraggiungibili. I compagni di degustazione l’hanno definito “forza tranquilla”! La sensazione è che a questo vino non manchi nulla, che tutto sia al suo posto e che non serva altro. Nel turbinio di aromi si associano la ovvia nota minerale a una vena iodata e speziata (non da legno). Aristocratico e geniale è setoso, lunghissimo e salino come pochi. Una grande bottiglia e forse uno dei migliori bianchi al mondo.
Tre faccini :-) :-) :-)
Chablis Grand Cru Le Clos 2000
Una piccola delusione rispetto alle attese. Certo è buonissimo, associa fiori a mandorla, miele, cannella e frangipane. Manca però a confronto del precedente di energia, sembra accontentarsi di essere buono.
Due faccini :-) :-)
Chablis Premier Cru La Forest 1988
Bottiglia ancora giovane e di grande classe, solare e rotondo. L’acidità parte a metà bocca in maniera quasi sorprendente e non finisce mai. Amarognolo, burroso e speziato (curry). Assolutamente sontuoso.
Tre faccini (quasi quattro…) :-) :-) :-)
Chablis Grand Cru Le Clos 1993
Una buona annata anche se sottovalutata. Bottiglia incredibilmente ancora non del tutto espressa, sorniona. Coi minuti escono il minerale, le spezie (pane alle spezie alsaziano), il polline, la mandorla e la pietra focaia molto netta. Anche qui la bocca è grandiosa, di una precisione micidiale che allinea acidità a morbidezza (c’erano zuccheri residui). La pioggia prima della vendemmia ha portato acidità tartrica che ha riequlibrato gli elementi più morbidi.
Tre faccini molto abbondanti :-) :-) :-)
Chablis Grand Cru Les Preuses 1994
Pare più evoluto del precedente. Miele di tiglio, vervena, fiori e sassi accanto ad un idrocarburo che rimanda per un attimo ad un riesling. E’ etereo e terraneo, meno incisivo per una maggiore dolcezza del frutto. Finisce sul miele di castagno.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Prossima puntata: Domaine Maume (Gevrey-Chambertin).

29 giugno 2010

Et voilà: uno Champagne che ti spiega le cose

Angelo Peretti
Questa qui accanto è la nuova retroetichetta "home made" dello Champagne Extra Brut Les Murgiers di Francis Boulard. Il titolare della maison l'ha pubblicata domenica su Facebook, ed è una novità che, in qualche modo, un produttore sottoponga a una sorta di test on line le sue decisioni. Ma non la riprendo semplicemente per questo motivo.
La questione è un'altra: si tratta d'una retro ricca di dati, e questa è la vera sottolineatura in un mondo, quello dello Champagne, normalmente avarissimo di informazioni sulla bottiglia.
Si obietterà: tutto il mondo è paese. Vero: i vigneron non sono avvezzi a informare. Ma nello Champagne si superano: neppure la data di sboccatura scrivono, di solito, i francesi. E per me, che le bolle in genere le preferisco non lontanissime dalla sboccatura - ma neppure troppo vicine - è invece una notizia importante.
Su questa retroetichetta champagnosa comparsa su Facebook, invece, di info ce ne sono un bel po'.
Riporta in primo luogo la percentuale delle uve utilizzate, cosa non frequente fra gli champagnisti: in questo caso c'è un 70% di pinot meunier e il resto pinot noir.
Dice com'è composta la cuvée: vino della vendemmia del 2007 più un 30% di riserve del 2005 e del 2006, ed anche questa è cosa che dichiarano in pochi.
Il terreno: argilla e calcare nella riva destra della valle della Marna.
Età dei vigneti: trent'anni.
Di chi è il vigneto: Raimond Boulard e figli.
La vinificazione: per metà in botti di rovere e botte grande.
Il vino non è stato chiarificato: è scritto pure questo.
La fermentazione malolattica è stata svolta.
C'è poi la data di passaggio in bottiglia: in questo caso, il 22 aprile del 2008.
La data di sboccatura: è il 21 maggio scorso.
Dosaggio: 5 grammi per litro (chi lo dichiara mai?).
Seguono gli abbinamenti consigliati (ma questa non è una novità).
Si chiude con la temperatura di servizio (ed anche questo è uno standard).
Bene.
O meglio, male: dove lo trovo 'sto Champagne per berne una bottiglia?

28 giugno 2010

Ma se una doc affonda, annega tutta la filiera

Angelo Peretti
Scambio di battute con un vigneron, sabato. Sostengo che la mia opinione è che quando una denominazione è grande dimensionalmente, o si salva tutta, o muore tutta.
Il contesto dell'affermazione? Una chiacchierata sulla crisi di rigetto che qui e là si avverte in giro per l'Italia verso alcuni consorzi di tutela del vino. Con la nascita di gruppi, associazioni, marchi di produttori che intenderebbero uscire dagli enti consortili a promuoversi per conto proprio.
Dico subito: che i produttori comincino a mettersi insieme credo davvero sia cosa buona e giusta. Ma pensare che si possa far da sé quando si porta in etichetta il nome d'una denominazione e si vuol concorrere al grande gioco del mercato globale, be', quello lo ritengo quanto meno velleitario.
Secondo me, non c'è niente da fare: se tu produci il vino d'una certa doc e quella doc va in crisi di reputazione, allora prima o poi cominci ad affondare anche tu. Anche se sei bravo a far vino. E quando affondi è dura risalire. Fatte le debite eccezioni ovviamente, ché il genio esiste. Ma allora non è la denominazione a salvarlo, bensì la sua genialità, e dunque non si berranno le sue bottiglie perché appartengono a quella certa denominazione, ma esclusivamente perché le ha fatte lui: in casi del genere, chi se n'importa se quel bianco o quel rosso son doc oppure igt oppure vini da tavola? Ma di geni, ricordiamocelo, al mondo ce ne son pochi.
Capisco l'obiezione: ma se il consorzio d'appartenenza non promuove politiche di promozione sufficienti, e magari sembra far solo l'interesse di questo o quel big, che cosa resta da fare al piccolo produttore se non uscirne?
Mi permetto di dire la mia. Di dire cosa farei io, rischiando a mia volta di peccare di velleitarismo. Credo che la prima cosa da fare sia un salto di mentalità, da parte di tutti, a cominciare proprio dai piccoli e bravi: è necessario allenarsi a pensare ed agire in modo che la denominazione venga considerata non più come un orpello da scrivere in etichetta, bensì come una vera e propria marca da valorizzare. Insomma: occorre far politica di branding non solo sul proprio nome (ricordiamocelo: per affermare un marchio servono tempo, tanto, e quattrini, tanti), ma prima ancora, e soprattutto, sulla doc trasformata di fatto in una marca. Ché se cresce in reputazione la doc tutt'intera, allora cresci anche tu, ma se precipita, affoghi al pari degli altri, prima o poi.
Possibile che se l'obiettivo è questo non si trovi un accordo dentro alla filiera? Secondo me sì: se l'obiettivo è questo, l'accordo si può trovare. A una condizione.
La condizione è che se la doc - come ho detto - diventa essa stessa marca, allora le politiche comunicazionali e promozionali che interessano la denominazione siano coerenti. Abbiano una coerenza interna, intendo. Ma allora va considerato anche che una marca la si deve promuovere su tanti mercati, uno diverso dall'altro. E dunque servono azioni ben diversificate, ancorché dentro un piano comune e condiviso.
Questo è il nodo: valutare i diversi target di clientela, capire come "aggredirli" ed affidare mission diverse ai diversi attori della filiera produttiva, all'interno di un progetto coordinato. Insomma: l'industriale avrà i propri obiettivi, la cooperazione altri, i piccoli-medi vigneron altri ancora, ma se i piani d'azione saranno diversificati all'interno di un piano strategico comune, allora i risultati potranno arrivare un po' per tutti. Altrimenti sarà farsi la guerra tra poveri, in attesa del naufragio.
E qui sì che l'associarsi da parte dei piccoli e medi in una sorta di lobby può giovare. E può giovare a tutti se la lobby è dentro al consorzio ed ha chiari gli obiettivi per un'azione sui target di riferimento.
Intendo che mettendosi assieme, la percezione dimensionale dei piccoli si accrescerà dentro alla filiera. Anche se tutti assieme i piccoli pesassero meno di uno solo dei grandi. Non importa: se i piccoli saranno percepiti come un'entità accomunata da obiettivi condivisi, sarà comunque più facile portare a sintesi i singoli piani operativi che interessano la denominazione nel suo complesso. E nel contempo sarà più facile utilizzare appropriatamente le leve di cofinanziamento pubblico, che sono ancora abbastanza interessanti. Un conto è ripartire i flussi finanziari consortili fra tre soggetti: industria, cooperazione, vigneron associati. Un altro è avere una fila di questuanti fuori dalla porta che chiedono ciascuno un po' d'elemosina. L'elemosina non fa crescere nessuno. Fa sopravvivere un attimo, ma niente di più.
Dunque, ci si potranno spartire ruoli, obiettivi e piani d'azione: l'industria darà l'assalto a quel target, la cooperazione a quell'altro, i piccoli associati a un altro ancora.
In un'affiatata compagnia teatrale, se ciascun attore recita bene la propria parte, l'applauso alla fine ci sarà per tutti, e così pure l'incasso al botteghino, cosa che, scusatemi, conta di più ancora dell'applauso, se si vuol campare.
Vaneggio?

27 giugno 2010

Mosel-Saar-Ruwer Blauschiefer Riesling Trocken 2001 Dr. Loosen

Mario Plazio
Ecco un Riesling che riuscirà a mettere d’accordo il partito degli aficionados della Mosella con quello più avvezzo ad affrontare il cugino alsaziano.
Il Blauschiefer ha un alcol a 12° ma conserva la leggerezza inimitabile che solo i grandi della Mosella possono vantare.
Prende il nome dalle terrazze caratterizzate da un suolo di scisti blu.
È una buona introduzione al mondo dei vini di uno dei più rinomati produttori di questo settore, il celebre Dr. Loosen.
Il naso propone pesca, kiwi, acqua di sorgente e una vena minerale che non rinvia tanto al petrolio ma piuttosto al sasso bagnato.
La beva è piacevolissima, il liquido incide senza pesare come solo i vini di questa regione riescono fare. Il residuo zuccherino non è quasi percettibile, il che lo rende adatto a svariati abbinamenti.
Non ambisce all’eccellenza, cosa che invece raggiungono i tanti cru di Dr. Loosen, in particolare nelle versioni più mature. Si fa invece bere con una piacevolezza estrema e questo a me basta e avanza.
Due faccini :-) :-)

26 giugno 2010

Dicono che va di moda il vino leggero, ma sarà vero?

Angelo Peretti
L'altro ieri, conversando in due momenti diversi con due diversi produttori ho ricevuto un identico parere: c'è una tendenza di mercato che premia i vini più leggeri e bevibili. Quelli che io chiamo i vinini, insomma, e che adoro. Epperò questa mia adorazione non è importante: quel che conta è altro. Ossia: è vero che c'è questa tendenza?
Può essere, ma non ne sono così convinto.
I sostenitori della tesi portano a supporto d'una (presunta) inversione di tendenza dal vinone all'easy to drink fattori quali la crisi economica (i vini meno concentrati hanno prezzi più bassi), la fobia per i controlli alla guida (ci si illude che 12 gradi di alcol abbiano effetti diversi rispetto ai 14, ma alla fin fine è poca cosa), addirittura uno scarto di gusti dei consumatori (oggi non amerebbero più alcol, tannino e concentrazione), oppure il fatto che comunque il consumo di vino si è spostato dal ristorante alla mensa domestica (e pertanto si preferirebbero vini più adatti al cibo quotidiano). Tutto verosimile. Ma - ripeto - non mi convince fino in fondo questa tesi. Della cui veridicità sarei invece ovviamente felice.
Chi mi segue da qualche tempo sa che dei vini della piacevolezza e della bevibilità e dell'abbinabilità sono un fan scatenato. Ma ho dei dubbi sul fatto che effettivamente siamo in presenza di un'epocale variazione di gusto da parte dei bevitori a livello globale. Non ho dati concreti che lo dimostrino. Fatte alcune debite eccezioni, non mi pare che ci siano questi straordinari trend di crescita dei volumi venduti da parte delle denominazioni più "beverine". Anzi: qualcuna è proprio impiantata, con volumi in stallo e prezzi in caduta libera.
Non ho numeri, statistiche, cifre che confortino la tesi d'una nuova supremazia commerciale del vino leggero. Da quel che leggo, dovrebb'esser vero che, per esempio, negli Stati Uniti si bevono meno top wines, ma il consumo mi pare si sia spostato verso rossi che costano meno, ma sono comunque concentrati: i Malbec argentini, per esempio. Dunque, rimarrebbe la tendenza verso la muscolarità del vino. Altro che vinino.
E poi c'è la faccenda di Bordeaux: perché mai, se la tendenza fosse all'incontrario, si esalterebbe, come invece si sta facendo a colpi di copertine, in America e nel Regno Unito, un'annata come quella del 2009, che ha come tratti distintivi appunto concentrazione, tannino e alcol? Per carità: ci sarà anche equilibrio, ci sarà anche armonia in quei Bordeaux - non discuto - ma siamo nella direzione del vinone. Che dunque ancora impera. E impererà, se le potenti macchine da guerra della stampa internazionale si muovono così nettamente e decisamente in quella direzione. A meno che si sbaglino. Ma allora saremmo alla vigilia dell'estinzione dei dinosauri. E mi par difficile crederlo.

25 giugno 2010

Bordeaux 2009: grande anche per Wine Spectator, ma...

Angelo Peretti
Aspettavo l'uscita del nuovo numero di Wine Spectator per vedere cosa la rivistona a stell'e strisce dicesse dei Bordeaux del 2009, dopo le entusiastiche recensioni del magazine britannico Decanter. Per gl'inglesi, l'ultima vendemmia è stata "la migliore di sempre". Ed è affermazione impegnativa. E per gli americani, dunque?
Gli americani il giudizio l'hanno affidato a James Suckling (è lui nella foto qui accanto). E il titolo del suo amplissimo servizio parla chiaro: "Bordeaux trionfa ancora". Occhiello: "Il 2009 è la quarta grande annata del decennio".
C'è concordanza fra britannici e americani.
Dice Suckling: "Dopo aver passato in rassegna circa 700 vini del 2009, ne concludo che Bordeaux ha vendemmiato un'annata eccezionale lo scorso anno. È raro trovare dei rossi giovani con una simile concentrazione di frutto maturo e tannini potenti, ma anche così splendidamente in equilibrio. I produttori spesso mi hanno parlato dei livelli elevati di concentrazione di tannini dei loro rossi. Qualcuno dice che i 2009 sono i suoi vini più tannici di sempre. Ma i tannini, l'alcol e l'acidità sono in armonia".
Insomma, più concentrazione, più alcol, più tannino, ma anche equilibrio, secondo il wine writer statunitense che - si sa - è di casa in Italia. "Amo quella maniera - spiega - con la quale i vini mostrano un frutto così opulente supportato da tannini potenti. Eppure i tannini sono rotondi e puliti nei vini top. In più, i rossi sono freschi e vibranti. Questi giovani rossi muscolari mantengono un inconfondibile carattere bordolese".
Insomma: promossi su tutta la linea.
Il problema, per gente come me che dei rossi bordolesi ama la bevibilità, può però venire proprio da quei tratti distintivi: concentrazione, alcol, tannino. L'alcol, in particolare, è attorno ai 14 gradi, e anche di più in certi casi, e a me piacciono i Bordeaux da 12 e mezzo. Ma Suckling sostiene che quell'alcolicità non è un problema, e che anzi anche alcune annate memorabili del passato, come il '59 0 il '50 o il '47 o il '45 o il '29 avevano alti livelli di alcol. Lo Cheval Blanc del '47, uno dei vini più famosi di quelle vendemmie, ne aveva 14,2. "Così - dice - non sono preoccupato per i livelli di alcol nei top del 2009; i vini hanno bisogno dell'alta alcolicità per bilanciare quei loro livelli di tannini così elevati".
Così la pensa Wine Spectator, e dunque - dicevo - c'è un sostanziale allineamento con Decanter. Le due più influenti testate al mondo sono d'accordo: i Bordeaux del 2009 sono grandissimi. E concentrati.
Per quel che mi riguarda, non avendo assaggiato, ovvio che non mi esprimo. Mi limito a riportare di nuovo il dubbio di Alessandro Masnaghetti: "Potrebbe invece essere - ha scritto sulla sua Enogea - l'eterna confusione che c'è fra il tanto e il buono e tra l'annata 'grande' e l'annata 'grossa'. Se il 2009 sarà un'annata 'grande', solo il tempo potrà dirlo, che sia spesso un'annata 'grossa', almeno per i miei parametri, credo che sia un dato incontestabile".
Vedremo.

24 giugno 2010

Troppa burocrazia in cantina: a chi serve?

Angelo Peretti
Stimo Giancarlo Prevarin (è lui nella foto qui accanto), riconfermato presidente dell'Associazione degli enologi e degli enotecnici italiani (congratulazioni), soprattutto perché è persona che non te le manda a dire: se deve farti un'osservazione, te la fa, e questo è un grande pregio. Dunque è facile capire perché mi capiti di leggere sempre con interesse gli editoriali che firma su L'Enologo, la rivista della categoria. Stavolta, sul numero di giugno, che m'è appena arrivato, c'è un titolo esplicito: "Assurdo ma vero: un tecnico dedica il 25% del suo tempo alla burocrazia".
Ecco, sì, questo è uno dei punti nodali d'ogni analisi che si faccia sul sistema-impresa in Italia, e mica solo nel mondo del vino: l'oppressione burocratica. Che nel settore vitivinicolo rischia peraltro d'essere talmente asfissiante da mettere in ginocchio soprattutto - a mio avviso - le piccole e medie realtà.
Ricorda Prevarin che nell'ambito del congresso nazionale dell'Assoenologi tenutosi di recente a Venezia il direttore Giuseppe Martelli "denunciò che le aziende vitivinicole italiane hanno come interfaccia ventuno uffici differenti". E si fa una domanda che resta senza risposta: "Perché?"
Rammenta poi che già nel 2007 la sua associazione "ha fatto un'indagine che ha messo in luce che, mediamente, un tecnico di cantina deve dedicare il 25% del suo tempo ad aspetti burocratici. Un impegno inammissibile, con costi indiretti enormi". E pone la questione così: "E tutto questo a che fine? Possibile che i controlli (e siamo i primi a dire che devono essere fatti in modo trasparente e corretto) non si possano sinergicamente armonizzare? Nell'era in cui con un satellitare si riesce ad individuare quanti operai lavorano in un cantiere stradale, il settore vitivinicolo deve seguire ancora le solite vecchie procedure? È inefficienza o interesse di qualcuno?"
Condivido l'interrogativo. O meglio, gli interrogativi.
Non sono a favore della deregulation selvaggia, sia chiaro: occorre comunque avere delle regole che traccino i contorni da cui non è possibile uscire, nell'interesse di tutti, dal produttore al consumatore. Ma troppe volte ho sentito i politici, negli anni, parlare di semplificazione, di sburocratizzazione, di dematerializzazione, inutilmente. La nuova Organizzazione comune di mercato doveva aprire la strada ad uno snellimento complessivo, e invece non vedo profilarsi, almeno per ora, nulla di concreto, se non un continuo sovrapporsi di ruoli, funzioni, pratiche, incartamenti, controlli, orpelli. Temo che molte piccole aziende rischino di essere vicine al collasso. E ripeto dunque la domanda finale di Prevarin: "È inefficienza o interesse di qualcuno?"
Se fosse inefficienza, è necessario che si faccia presto ad efficientare il sistema, prima che salti. Se fosse interesse, allora urge metterlo in luce, quest'interese, per capirlo, valutarlo, analizzarlo.

20 giugno 2010

Servizio pubblico: mi piace WineWebNews

Angelo Peretti
Il problema è che un'excusatio non petita diventa subito un'accusatio manifesta, e dunque se comincio dicendo che la rubrica mi piace a prescindere dal fatto che abbastanza spesso mi cita, be', può suonar male. Epperò è così: WineWebNews, la rubrica, appunto, che settimanalmente Franco Ziliani cura per il sito internet dell'Associazione italiana sommelier, la ritengo fra le più interessanti che circolino in rete.
Una specie di servizio pubblico gratuito che consente ogni sette giorni di andare a leggere una carrellata di notizie apparse qui e là sulla rete, in Italia ed all'estero: è questa WineWebNews. E ne attendo puntualmente l'uscita per la curiosità di andarmi a leggere che cosa Ziliani abbia scovato scorrazzando in lungo e in largo sulle pagine on line.
Non so quanto tempo dedichi Franco a questo suo lavoro di investigazione informatica. Non lo so e non glielo chiedo. Credo però, conoscendone il piglio, che lo faccia con passione. E anche, almeno talvolta, con piacere. Traspare dalle sintesi che propone delle varie notizie scovate sui web site.
Se fossimo su Facebook, cliccherei subito sul bottone "mi piace".

18 giugno 2010

Chablis 1er cru Vaucoupin 2000 Domaine Grossot

Mario Plazio
Esemplare fin dal naso, con le sue note di miele (davvero in evidenza), di pietra focaia, linfa e fiori di tiglio.
Poi si percepisce un legno molto discreto accanto all’ananas e sempre una mineralità soggiacente.
In bocca sfodera una prestazione strepitosa, l’acidità attacca e non molla mai, sostiene la bella maturità del frutto che termina su ricordi di agrumi e un leggero sentore amarognolo molto gradevole.
Persistenza da fuoriclasse: è un vino buono oggi, ma che ha ancora parecchi anni davanti a sé.
Chablis fino alle ossa.
Tre faccini :-) :-) :-)

17 giugno 2010

Allarme! La pubblicità della Nutella è a rischio

Angelo Peretti
Ieri il grido d'allarme è risuonato a colpi di lanci d'agenzia e di prime pagine dei web site dei grandi quotidiani: la pubblicità della Nutella rischia di esser fuorilegge.
Il nodo della questione starebbe nel "sì" espresso dal parlamento europeo all'obbligo di dettagliare determinati profili nutrizionali sulle etichette dei prodotti alimentari. E questa varrebbe, a quanto ho capito, non solo per le confezioni, ma anche per la pubblicità. Sicché, se non ho compreso male da quel che ho letto sui media, quando un certo prodotto supera alcune soglie di contenuto di grassi o d'altri elementi giudicati "a rischio", il produttore non potrebbe più fargli pubblicità "esaltandone gli aspetti positivi". E, accidenti, la Nutella rischierebbe di finire fra i capri espiatori. Lo ha detto il vicepresidente del Gruppo Ferrero, Francesco Paolo Fulci.
Non so che giudizio trarne. So solo che, dopo tanto tempo, mi son fatto tre cucchiaini di Nutella. Che sia solidarietà?

16 giugno 2010

Salento Rosato Five Roses 66° aniversario 2009 Leone de Castris

Angelo Peretti
Oh, vabbé, lo capisco che scrivere che il Fives Roses è un grande rosato è dire un'ovvietà. Ma questa produzione del sessanteseiesimo anniversario del rosé italiano per eccellenza (sissignori, lo imbottigliano dal 1943, mica scherzi), be', m'ha veramente entusiasmato.
Provato e riprovato a Italia in Rosa, la kermesse rosatista che m'è stato dato d'organizzare - pardon co-organizzare - sul lago di Garda ai primi di giugno, m'ha preso con quella sua perentorietà ed insieme quella sua eleganza.
Al naso e in bocca, è un tripudio di fruttini e di fiori. Decisi, marcati, netti. Eppure anche finissimi, mai invadenti: non corrono alcun rischio di finire sopra le righe.
Eppoi al palato ecco una freschezza prorompente. Che allunga la sensazione succosissima del frutto.
Un rosato da bere e ribere.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

15 giugno 2010

Giulio Cesare, il Mamertino e i conti che non tornano

Angelo Peretti
La tentazione è, evidentemente, irresistibile. Di tanto in tanto riaffiora qui e là per l'Italia l'ambizione di dare storicità a questo o quel vino. Dicendo ch'era il nettare (solitamente la parola è questa: nettare) da Tizio, da Caio o da Sempronio, e al posto di Tizio, Caio e Sempronio - che non ho mai capito chi fossero, e non m'interessa capirlo - metteteci il nome di qualche celebrità della storia antica. Celebrità, intendo, dei greci, degli etruschi, dei romani, e poi su su, fino all'età medievale e al rinascimento e all'evo moderno. Gente che in genere c'entra come i cavoli a merenda (ma, anche qui, non ho mai capito bene perché sia tanto disdicevole mangiar cavoli a merenda).
Come se nell'Ottocento non fosse arrivata quella serie di terribili flagelli delle vigne che, di fatto, estinse gran parte del vigneto autoctono, reimpiantato su ceppi americani. Talché non possiamo, oggi, avere la (quasi) minima idea di come fossero davvero i vini non dico dell'epoca augustea, ma nemmeno di duecent'anni fa. Sarà mica che i portinnesti non influiscono? E nemmeno i sistemi di coltivazione? E neppure le tecniche di cantina?
Una delle più recenti fra queste tentazioni riguarda il Mamertino doc. Siciliano. Messinese. Zona di Milazzo. Riconosciuto a denominazione d'origine nel 2004.
In occasione dell'ultimo Vinitaly un'abile - lo ammetto - campagna di comunicazione - si parlava d'un brand piuttosto noto - ha fatto scrivere qui e là: "Un brindisi imperiale: torna il Mamertino, vino preferito di Giulio Cesare!" Nientepopodimeno, si sarebbe detto negli oratori qualche annetto fa.
Ordunque, premesso quel che ho premesso, ossia che la fillossera s'è portata via la gran parte dell'italiche vigne (e dell'europee), mi domandavo allora, nei dì vinitaliani, chi se n'importasse se il Mamertino fosse stato davvero il "vino preferito" di Giulio Cesare. In primis, non basta certo quel lacerto di testo che ricorda che un vino con quel nome venne servito a un banchetto in suo onore. In secundis, non abbiamo la più pallida idea di che razza di vino si trattasse. Eppoi chi lo dice che Giulio Cesare foss'anche esperto di vino, oltre che di guerra e di politica?
Volevo scriverne allora, ma mi son trattenuto e, vabbé, ormai me n'ero fatto una ragione.
Solo che adesso ho visto girare una pagina pubblicitaria di un'azienda sicula (mica quella del comunicato di Vinitaly: un'altra) che, a proposito d'un suo Mamertino, dice: "Il nonno del nonno del nonno di mio nonno lo beveva con Giulio Cesare". Ora, permettete: i conti non tornano. Nossignori. Perché, dunque, io, mio padre e mio nonno rappresentiamo tre generazioni. Il nonno di mio nonno è indietro di altre due generazioni, e fanno cinque. Il nonno del nonno di mio nonno ne aggiunge altre due, e son sette. Poi, col nonno del nonno del nonno di mio nonno arrivo a nove, Ora, per convenzione s'usa dire che il salto di generazione avviene ogni 20-25 anni. Mettiamo 25. Moltiplicando 9 per 25 arrivo a 225 anni. Mettiamo pure che io sia vecchietto e che il primo dei miei progenitori in elenco abbia fatto la sua bevuta ad età venerabile: al massimo arriviamo a 300 anni in tutto, stando larghi. Però se andiamo indietro di trecent'anni ci troviamo intorno al 1710. E Gaio Giulio Cesare venne accoppato nel 44 avanti Cristo, mi pare. Di mezzo ce n'è un bel po'. Altro che brindisi del nonno del nonno del nonno di mio nonno.
Ma, dico io, è mica meglio concentrarsi sul vino? Il vino. E basta.

14 giugno 2010

Barolo Albe 2001 G.D. Vajra

Massimo Zanichelli
Mi rendo conto che parlare bene di un vino di Aldo Vajra è un po’ come scoprire l’acqua calda, ma l’exploit di questo Barolo Albe 2001, per certi versi inaspettato (quantomeno nelle proporzioni), merita più di un appunto.
Quasi cinque anni dopo la sua uscita, questo assemblaggio di vigne del comune di Barolo (Fossati, La Volta e Costa di Vergne) stupisce infatti per l’alto tasso di naturalezza: è fragrante, è fresco/succoso, ha tannino sapido e terroso.
Eloquentemente Barolo.
Niente male davvero per il “fratello minore” del Bricco delle Viole.
Due faccini e mezzo, quasi tre :-) :-)

No, non avete letto male la firma: è quella di Massimo Zanichelli. Per me, uno dei nomi migliori del giornalismo italiano del vino. Ottimo degustatore, eccellente divulgatore. M'ha fatto l'onore di inviarmi un suo pezzo per quest'InternetGourmet. Ne sono lietissimo, ammesso che si possa usare il superlativo di lieto.
Grazie, Massimo. E speriamo ci siano altre occasioni.

Angelo Peretti

12 giugno 2010

Grave Sauvignon Blanc Vis Terrae 2008 Vis Terrae

Angelo Peretti
Temo che non potrò mai concorrere al premio del più grande estimatore dei Sauvignon italiani. Amo sì, e parecchio, i Sauvignon Blanc della Loira, oppure quelli della Nuova Zelanda, entrambi floreali e fruttati. Ma faccio fatica ad adattarmi alla vegetalità a volte anche piuttosto aggressiva dei Sauvignon nostrani.
Ora eccomi però qui a scrivere d'un Sauvignon Blanc friulano. Che m'è piaciuto, sissignori.
L'azienda è Antonutti. Nata nel 1921. Da qualche tempo ha deciso un restyling. Ed ha creato una linea che ha chiamato Vis Terrae, la forza della terra.
La zona è quella delle Grave del Friuli. E il vino, oh, il vino parla francese. Sissignori: un Sauvigon Blanc in stile transalpino, con un frutto croccante - la pesca, la mela - ed una bella florealità primaverile. Al naso e in bocca.
Al palato c'è poi anche una bella, convincente freschezza, ed è un 2008, e dunque ha già un bell'affinamento. E in più, il corpo non difetta di certo.
Una sorpresa. Piacevole.
Due lieti faccini :-) :-)

10 giugno 2010

Vin de Savoie Mondeuse Cuvée Guillaume Charles 2004 Domaine G & G Bouvet

Angelo Peretti
Ecco, questo è il vantaggio di far la formichina e ogni tanto prender delle bottiglie e metterle in cantina, dimenticate. Poi una sera hai voglia di stappare qualcosa di particolare, scendi e ti metti a rovistare e tiri fuori una boccia che neppure ti ricordavi d'avere.
Nello specifico, un rosso di Savoia, un Mondeuse dell'aoc Vin de Savoie. Produttore Bouvet, mito della zona, vigneron independant, col marchietto dell'associazione dei vignaioli indipendenti francesi impresso sulla capsula. Annata 2004.
Stappi e t'accorgi d'avere aperta una bella bottiglia, magari non ancora del tutto pronta, ché ancora un pelino d'affinamento le avrebbe fatto bene. Ma comunque un rosso di quelli che lasciano il segno, che non passano inosservati.
Non ne so molto dei vini della Savoia.
So però per certo che se m'avessero fatto tastare questo rosso senza dirmi che cosa fosse o di dove venisse, avrei detto che è un vino di montagna. Con quell'acidità così espressa, con quel tannino così rustico, ancorché in parte levigato dal passaggio in legno (e son sicuro che col tempo il ricordo ultimo del rovere si assorbirà - si sarebbe assorbito: era l'ultima bottiglia - lasciando perfettamente integro il frutto. Eppoi, appunto, quel delizioso fruttino che sa di ciliegie selvatiche prese sui monti, di visciola anche, e di cassis.
Ed ancora ecco affiorare, gradualmente, progressivamente, memorie di erbe balsamiche, di fiori alpestri. E poi quel che di pellame, di tabacco, perfino di rabarbaro e china. Con un quid di pepato in aggiunta.
Bel vino, rusticamente elegante, elegantemente ruspante.
Fatto al cento per cento con l'uva mondeuse, dalla Savoia, appunto.
Rammarico unico, l'ho già detto: avrei potuto o dovuto attendere ancora un pochino prima d'aprire, ed avrei ulteriormente gioito, ritengo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

9 giugno 2010

Teroldego Rotaliano Rosato Assolto 2009 Redondel

Angelo Peretti
Un rosato di teroldego. L'ho provato volentieri quando me l'ha proposto Susy Tezzon, al Giardino delle Esperidi di Bardolino. Ed ho trovato un rosé di sostanza.
Dunque, ho scritto al produttore, Redondel, piccola azienda trentina da Mezzolombardo condotta da Paolo Zanini, chiedendo di saperne di più.
Mi hanno risposto così: "Facendolo esattamente come lo faceva suo papà, Paolo intende ridare dignità a questa versione di Teroldego, andata in disuso. Siamo convinti che le uve di
teroldego, se scelte e coltivate con solo e sano buon senso, trovino nel rosato un'espressione importante e alternativa del territorio. È un rosato di Teroldego (doc) per il quale Paolo ha selezionato le uve di uno solo
dei suoi 'giardini' appositamente per la vinificazione in rosato. La scelta è ricaduta su 'Pradi' (nome dell'appezzamento), perché in quella zona le uve mantengono una spiccata acidità e sono ricche di profumi (tra i suoi terreni è quello più ghiaioso)".
Bene: così mi si è detto, e così riporto, e prendo dunque atto volentieri - molto - che si tratta di un rosato "di concetto". Intendo dire che ne traggo l'opinione che lo si è voluto e concepito esattamente così, selezionando un campo alla bisogna.
Si chiama Assolto, poi, mi si spiega, "perché assolto dalle sue bucce", come si fa di solito con un rosé. Nome bizzarro, come quello degli altri vini della casa: personalmente, preferirei che su un vino di terroir si mettesse in etichetta il nome della vigna, ma mica posso dettar legge, e dunque ciascuno è libero di fare quel che vuole.
Come l'ho trovato?
Un bel colore rosa piuttosto carico.
Un naso che ricorda la fragola e il ribes.
In bocca si aggiunge un che di floreale. Ed una struttura piuttosto importante (e dunque è vino da abbinamento anche di buon spessore). Ed una freschezza che conferisce slancio.
Insomma: un bel rosato. E se il buon giorno si vede dal mattino, vale la pena seguirli questi di Redondel.
Un'ultima nota per l'etichetta: decisamente bella sotto il profilo grafico. Complimenti.
Due lieti faccini :-) :-)

8 giugno 2010

Soave Classico Monte Fiorentine 2006 Cà Rugate

Mario Plazio
Il Monte Fiorentine ha bisogno di tempo. Questo 2006 è in una fase delicata e sembra essersi ripiegato su se stesso.
I profumi sono compressi, anche se si percepisce un bel frutto maturo accanto ad una millimetrica mineralità.
A rivelarne la classe cristallina è la bocca. Qui le cose si rimettono in parte a posto, esce l’eleganza che gli appartiene ed irrompe una generosa vena acida che amplifica la complessità sottostante.
Il finale è profondo e minerale.
Il vino sembra più muscoloso e meno elegante del 2005, ma merita 4 o 5 anni di cantina per capire fin dove può arrivare.
Due lieti faccini (e forse più in futuro) :-) :-)

7 giugno 2010

Santenay 1er cru Clos de la Comme 2002 Françoise et Denis Clair

Mario Plazio
C’è poco da fare. Anche nelle denominazioni meno prestigiose e negli anni più sfigati i pinot nero di Borgogna hanno una marcia diversa. Mi capita spesso anzi di trovare nella fragilità dei vini delle annate cosiddette “intermedie” una freschezza e una spontaneità che non sempre riconosco in quelli dei millesimi top.
Prendo ad esempio il Santenay 2002 dei coniugi Clair. Un vino da esteti fin dal colore per niente forzato. Evoluto ma ancora freschissimo, diviso tra il floreale e il minerale.
Al palato ha solo un pizzico di alcol in evidenza, ma poi si fa amare per la compattezza, la lunghezza che diventa profondità, l’energia che ricorda più un premier cru della Côte de Nuits che non uno del sud della Borgogna. E poi si apre su aromi di rosa canina, lampone, carne e rabarbaro.
Dopo qualche tempo il vino sembra richiudersi in sé stesso, segno che non ha ancora raggiunto l’apice evolutivo, anche se a me va benissimo anche così. Peccato sia l’ultima boccia…
Due faccini, quasi tre :-) :-)

6 giugno 2010

Tămâioasă Românească Sec 2009 Prince Ştirbey

Angelo Peretti
Adrian è un amico rumeno. Lavora nel guppo UniCredit, in Romania. È il mio “fornitore ufficiale” di vini della sua terra. Prima o poi dovrò decidermi a farci un salto: chissà. Avevo già avuto modo di scrivere su quest’InternetGourmet di un bianco della Romania, tempo fa. Un basic onesto. Questa volta ecco un altro bianco, ma di tutt’altro spessore. Questo è un signor vino.
È una versione secca del Tămâioasă Românească, il bianco che si trae dall’omonimo vitigno rumeno. Siccome non sono un esperto di vitigni rumeni, ricorro all’utilissima guida tascabile del grande Hugh Johnson, che spiega trattarsi di “uva bianca tradizionale” capace di dare “aroma e gusto esotici”.
Indovinato, in quanto ad esotismo.
Ma direi anche che ricorda molto il moscato: pesca bianca, mela croccante, rose di maggio. Sia al naso che in bocca.
Il produttore è Prince Ştirbey, che – sempre prendendo da Johnson – è una “azienda di 20 ettari” che è “ritornata di proprietà della nobile famiglia austro-rumena Kripp-Costinescu”. Spiega anche, la guida, che proprio con questo vitigno caratteristico, in azienda si fanno “ottimi vini secchi”.
Ecco, confermo: un ottimo vino secco.
Di più, posso anche dire che è vino dalla bella, vivace, nervosa freschezza, capace di conferire snellezza ad un corpo di tutto rispetto (13 gradi e mezzo di alcol).
Se vi capita, provatelo: vale la pena.
Unica attenzione: se avete la fortuna – e trovate una bottiglia ben conservata – provate magari un’annata più vecchia del "mio" 2009, ché sono convinto sia un bianco capace di dare il meglio di sé dopo un affinamento nel vetro d’almeno un annetto.
E con questo credo d'aver stabilito una sorta di piccolo record: non credo siano molti gli altri wine blog italiani presenti sulla rete ad avere una rubrichetta anche sui vini della Romania.
A proposito: grazie, Adrian.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

5 giugno 2010

Brunello di Montalcino Riserva 1990 Poggio Antico

Mario Plazio
Un vino che all’uscita divise i degustatori. E che a distanza di tempo non riesce a convincere come dovrebbe.
Paradossalmente non gli manca nulla. È un Brunello per la mineralità, le note animali e di sangue e di carne. Certo non manca di concentrazione. Solo che questa sembra fine a sé stessa e non in funzione del vino.
Il frutto si perde in una massa di tannini e di acidità che non si incontrano mai.
Ogni elemento sembra andare per una sua strada e rimane un senso di amaro nel finale che gli impedisce di farsi amare.
Manca di eleganza.
1 faccino e mezzo :-)

4 giugno 2010

Boisson Rouge Émile Hérédia

Angelo Peretti
Sissignori, solo in Francia si permettono di fare vini del genere. Fuori dalle regole. Completamente. Orgogliosamente. Vini da tavola che si fanno un baffo di ogni canone. Mica hanno i nostri pregiudizi. E poi c'è chi ha il coraggio di dire che sono loro a tirarsela...
Eccolo qui, il Boisson Rouge, la Bevanda Rossa, che si fa gioco, sberleffo già dall'intitolazione. Bevanda, mica vino. E mette in etichetta - una delle più belle etichette da vino che abbia sin qui visto - un Poisson, un pesce, scherzando dunque col Boisson. Ed è rouge, rosso, anche il pesciolino. Divertente.
Divertente, scherzoso, giocoso t'aspetti dunque anche il vino. E non ti tradisce, assolutamente, dal lato della giocosità.
Viene dal Vendômois, la zona di Vendôme, Loira centrosettentrionale. Fatto con un'uva più tipica del Beaujolais: il gamay.
Un vin rouge pétillant demi-sec, un vino rosso frizzante amabile. Vino da tavola. Tappato - udite, udite! - col tappo a corona. Da noi ci sarebbe chi grida allo scandalo anche solo per questo. Di là non ci si formalizza: si guarda al contenuto.
Autore Émile Hérédia, vigneron. Metodo ancestrale.
Da servire fresco, molto: raccomandano che sia intorno ai dieci gradi. Consiglio di cucina: antipasti all'italiana. Proprio così (e in effetti, coi salumi ne butti giù un bicchiere dietro l'altro).
Com'è? Strano. Curioso. Spiazzante. Posso dirlo? Piacevolmente ruffiano.
Appena versato fa una spuma alta e fittissima, dal color cerasuolo.
Il colore è quello tipico del gamay, un rubino non carichissimo.
Al naso, l'amarena.
In bocca, l'amarena.
Ecco, sì, una bibita all'amarena, questo è il Boisson Rouge. Una bella bibita. Dolcina il giusto, spumosa il giusto, godibile il giusto. Ma con un carattere mica da poco. E fa 12 gradi (qui non scherza).
Direte: un Lambrusco amabile, dunque. Mmh, in qualche maniera ci siete vicini. Ma dovreste provare per sentirne la bevibilissima grazia.
Ecco, ti lascia basito, un vino così. Completamente fuori dai canoni.
Solo in Francia se lo possono permettere. E ne sono orgogliosi, accidenti.
A proposito: tanto orgogliosi che in enoteca lo mettono in vendita intorno ai 13 euro.
Due lieti faccini :-) :-)

3 giugno 2010

Montalcino: il presidente è Ezio Rivella

Angelo Peretti
Riporto qui sotto il comunicato del Consorzio di tutela del Brunello di Montalcino in merito al rinnovo della presidenza. Che vede al vertice Ezio Rivella, nome certamente non da poco. Ribadisco quel che ho scritto stamattina: una bella responsabilità, ed è una responsabilità che indubbiamente supera i confini della zona di produzione, e di molto. Attendo pertanto, come molti, di conoscere le linee programmatiche della presidenza, ed è un peccato che nel comunicato non se ne accenni neppure. Soprattutto c'è attesa di sapere qualcosa in merito a quella non banale questione del vitigno: sangiovese e basta, oppure liberalizzazione? Onestamente, dire "sarò il presidente di tutti" non illumina in proposito: un'affermazione di rito. Vedremo la traduzione concreta quale sarà. Per intanto, buon lavoro.
Ecco il comunicato.
"Il Cavaliere del Lavoro Ezio Rivella, astigiano, 77 anni, è stato eletto Presidente del Consorzio dei produttori del Vino Brunello di Montalcino, dal consiglio direttivo. Sostituisce il Presidente uscente Patrizio Cencioni.
Cavaliere del Lavoro dal 1985, Presidente del Comitato Nazionale Vini Doc, dell'Unione Italiana ed Internazionale degli Enologi, nonché Vicepresidente dell’Office International de la Vigne et du Vin di Parigi. Oggi è produttore a Montalcino dov’è Presidente dell’azienda Pian di Rota. 'Dobbiamo lavorare tutti insieme e riposizionare Montalcino al vertice della vitivinicoltura italiana - afferma Ezio Rivella, neo Presidente del Consorzio del Vino Brunello di Montalcino - Lavorerò per tutti e sarò il presidente di tutti'. Il Consiglio d’Amministrazione del Consorzio del Vino Brunello di Montalcino ha, inoltre, eletto i tre Vicepresidenti: Donatella Cinelli Colombini, Marco Cortonesi e Giancarlo Pacenti".

Brunello: è questione di prima linea

Angelo Peretti
Su alcuni wine blog italiani ha continuato a tener banco la questione del rinnovo della presidenza del Consorzio di tutela del Brunello di Montalcino. Che è in programma - leggo - per oggi, giovedì 3 giugno.
Personalmente, non ne conosco abbastanza delle faccende ilcinesi - e, ammetto, anche dei vini della zona - per dire la mia. Ma mi son sempre domandato perché mai avrebbe dovuto interessare così tanto - urbi et orbi - la faccenda della nuova presidenza. Ovvero: è chiaramente questione importante e delicata, vista la bufera abbattutasi sul Brunello e sui brunellisti, ed anche perché in fondo quella denominazione è uno dei marcatori dell'immaginario del made in Italy vinoso nel mondo. Ma l'attenzione che ci si pone è ben più alta di quella che sarebbe richiesta da un rinnovo di leadership.
Be', la risposta all'interrogativo l'ho trovata in un post di uno dei migliori wine blog esteri, il Do Bianchi di Jeremy Parzen. Che scrive così: "Perché sono così ossessionato dall'elezione del nuovo presidente del Consorzio del Brunello? La risposta è semplice: perché la denominazione del Brunello è diventata la prima linea della battaglia dei campioni tradizionalisti delle verietà autoctone italiane contro i propositori progressisti dei 'trend moderni' e delle varietà internazionali. Quel che è successo nel corso degli ultimi due anni a MOntalcino e quel che succederà alla vigilia delle prossime elezioni ci informeranno sicuramente sulla direzione, sugli obiettivi e sugli ideali di chi fa vino in Italia per il prossimo decennio".
Ecco, se le cose stanno così, la faccenda del Brunello interessa tutti, ma proprio tutti. E temo stiano proprio così. Dunque, è bene che ci sia stato e ci sia chi ha continuato e continua a tener desta l'attenzione.
Il neoeletto - chiunque egli o ella sia - lo tenga presente che ha una responsabilità che supera i confini di Montalcino. E faccia un buon lavoro.

2 giugno 2010

Recioto: it's such a wonderful wine!

Angelo Peretti
Ecco, queste sono le affermazioni che mi piace sentire da un produttore della Valpolicella. Anche quando sta con l’inviata d’una rivista americana, di quegli States che sono la patria d’elezione dell’Amarone valpolicellese.
Queste qui, di parole: "Recioto is a wine waiting to be discovered. It's sweet, but calling it a dessert wine is limiting. It's such a wonderful wine."
Traduco, per i non anglofoni: “Il Recioto è un vino che aspetta di essere scoperto. È dolce, ma chiamarlo un vino da dessert è limitante. È un vino così meraviglioso”.
Bello, bellissimo. E d’accordissimo, per me che son reciotista da sempre.
Ora, però, dovete immaginarvi questa dichiarazione risuonare in un inglese con un filino d’accento spagnolo. Perché a farla è stata una signora che ha sì il nome che sembra italiano, ma che è in realtà d’origine colombiana. Che ha vissuto per un sacco di anni a Chicago e che in Valpolicella c’è arrivata solo qualche tempo fa insieme col marito, purtroppo scomparso.
La signora è Lucia Raimondi, la titolare di Villa Monteleone, a Gargagnano, Valpolicella Classica. Di lei ho già scritto qualche tempo fa. Ne riscrivo adesso dopo aver letto quella sua splendida ode - posso chiamarla così? - del Recioto in un pezzo pubblicato sul Washington Post del 30 maggio (lo firma Valentina Pasquali).
Il Washington Post, mica scherzi.
E adesso aspetto. Aspetto che anche gli altri valpolicellisti, quelli autoctoni, tirino fuori l’orgoglio per il Recioto. Un vino straordinario: ci voleva una valpolicel-colombian-americana a dire questa sacrosanta verità?
Rinasca la passione per il Recioto. Per un vino che è sempre stato considerato la perla della Valpolicella. Il vino migliore, quello cui erano destinate solo le uve perfette, quelle delle réce, le “orecchie” dei grappoli, dagli acini spargoli. Il vino che era in assoluto il più caro in terra valpolicellese, prima del recente boom amaronista. Torniamo a scoprirlo per quello che è, il Recioto: un grande, grandissimo rosso. Mica da dessert, no, come perfettissimamente dice la signora Lucia. No, è un grande rosso da “ciàcola”, da chiacchiera, da conversazione (ciàcola significa questo in lingua veneta). Uno straordinario rosso da soppressa, il tipico salame veronese. E perfino, invecchiato quel tanto che basta, un compagno perfetto per la selvaggina: provatelo sui cinque anni con una lepre in salmì e mi saprete dire.

1 giugno 2010

Champagne Grand Cru Brut Blanc de Blancs Bonnaire

Angelo Peretti
C'è chi li preferisce freschi, chi invece li ama di più se sono stati a riposare un po' in cantina. Parlo degli Champagne. Ecco, io sono in genere un seguace della prima linea di pensiero: normalmente, li preferisco non troppo lontani dalla sboccatura. Questione di gusti personali.
Ma come ogni regola, anche questa ha l'eccezione. E una delle eccezioni m'è capitato di viverla qualche sera fa. Sceso in cantina a cercare una bottiglia per cena, ho trovato una boccia di Champagne della maison Bonnaire che avevo lasciato lì almeno un annetto fa. Che fare? Ovvio: si apre. E, accidenti, ho trovato un gran bel vino.
Ora mi trovo a doverlo descrivere, questo vino. E la prima cosa che mi viene in mente è che questo Champagne Blanc de Blancs mi ricordava terribilmente - come dire - uno Champagne Blanc de Blancs. Il che, lo ammetto, può sembrare qualunquista, ma indica invece una totale, assoluta corrispondenza all'imprinting di una precisa tipologia.
Insomma: perfetto già all'olfatto con quella crosta di pane, quella frutta secca, quella brioche all'albicocca, quella pasta frolla burrosa appena sfornata. E la bocca in corrispondenza. E una cremosità avvolgente.
Ora, sì, capisco: più che a una recensione, quel che ho scritto somiglia a una pagina di diario. Be', che c'è di male?
Tre lieti faccini :-) :-) :-)