31 ottobre 2010

27-29 novembre 2010: SemplicementeUva a Milano con i vini "naturali"

Angelo Peretti
Naturale? Sì, no, forse. Ma quanto discutere che si fa sui vini bio.qualcosa da qualche tempo a questa parte! Ed è certamente un bene, a mio avviso, che questo avvenga, per il mondo enoico. Ci si interroga una volta tanto concretamente sul tema della sostenibilità in agricoltura, proponendo concrete ipotesi applicative, talvolta anche fascinose. Mica sempre magari le ciambelle riescono col buco, ma tutto questo "fermento" è positivo, almeno secondo il mio punto di vista.
Unica pecca: molto spesso i vini dei vigneron "naturali" sono difficili da reperire sul mercato: piccoli numeri, distribuzione a macchia di leopardo (poco maculato, peraltro). E dunque ben vengano le occasioni per avvicinarle, queste bottiglie. Soprattutto nei centri metropolitani, in modo da avvicinarli al numero più ampio possibile di potenziali interessati.
Mi piace segnalare in particolare un'iniziativa nata da una delle più belle firme del panorama gastro-giornalistico italiano, Davide Paolini. L'iniziativa ha per titolo SemplicementeUva - sottotitolo: La rassegna del vino “cosiddetto” naturale - e si terrà a Milano dal 27 al 29 novembre, in via Ventura 15, "all'interno di una suggestiva location in Lambrate - spiegano gli organizzatori, ossia Piaceri d'Italia - , zona che è stata sottoposta ad un lavoro di riqualificazione importante e che oggi si presenta come una delle aree architettonicamente e artisticamente più interessanti della città".
SrmplicementeUva, si spiega sul sito internet della kermesse, "è la manifestazione che intende dar voce alle principali associazioni, consorzi, gruppi nazionali e internazionali, alle più importanti etichette indipendenti e ai maggiori esponenti del vino 'naturale'". I prodotti presenti in fiera saranno autocertificati dai vignaioli, che dovranno assicurare il rispetto di tre condizioni fondamentali nell’attività di produzione, ossia l'esclusione dell’uso di concimi chimici, diserbanti e trattamenti antiparassitari sistemici in vigna, l'esclusione dell’uso di sostanze chimiche in cantina e l'uso di lieviti indigeni.
Altre notizie sul sito www.semplicementeuva.it

30 ottobre 2010

Montepulciano d'Abruzzo Capestrano 2008 Peperoncino

Angelo Peretti
Un rosso non impegnativo e che non costi un occhio? Oh, in Italia se ne può trovare. Per esempio - com'è il caso di questa recensione - in Abruzzo, nella denominazione del Montepulciano. Che contiene magari di tutto e di più (in una recente convention in hotel me n'è capitato in tavola uno che era insopportabilmente acetico), ma che, cercando bene, e senza per forza andare a caccia delle bottiglie dei nomi più famosi, può offrire buone soddisfazioni.
Un'azienda da tenere bene sott'occhio è Peperoncino, di cui ho bevuto il Capestrano del 2008. Vino che mi pare giochi tutte le sue carte sulla semplicità, senza però assolutamente cadere nella banalità.
Rubino violaceo nel colore, mi si è presentato con un bel bouquet di rose, di mirtillo soprattutto, di chiodo di garofano.
In bocca ho trovato una tannicità di tutto rispetto, ancorché mai sopra le righe, intrisa di qualche vena verde che in qualche modo rendeva più "fresca" la beva. E ancora il mirtillo e il fruttino - alla lunga, una bella fragola matura -, seppure un po' meno in evidenza rispetto all'olfatto.
Si beve volentieri.
Un faccino e quasi due :-)

29 ottobre 2010

Rias Baixas Albariño Dona Rosa 2006 Bodegas Martinez Serantes

Mario Plazio
Non capita spesso di bere vini spagnoli e tanto meno bianchi fermi. L’immaginario del vino spagnolo si orienta piuttosto verso rossi corposi, legnosi e caldi. In realtà la zona della Rias Baixas presenta un clima estremamente fresco e ventilato per le influenze del vicino oceano. Anzi, le uve faticano a maturare in certi anni.
Posso testimoniare per esperienza personale che ad agosto del 2007 c’erano temperature di 11/12 ° con massime di poco sopra ai 20!
Un ristoratore del luogo ci ha consigliato questo Albariño che si è rivelato ben fatto, anche se fin troppo tecnico e scolastico.
I profumi sono bloccati da una solforosa in eccesso, tanto che si sono aperti solo il giorno dopo.
In bocca si viene subito colpiti dalla tipica (questa volta il termine non è abusato) acidità della tipologia.
Non ha certo una straordinaria complessità, ma si abbina alla perfezione a una cucina marinara anche ricca come si usa da quelle parti, dove si usano peperoni e altre verdure con pesci di carattere, baccalà o molluschi (eccezionali le cozze allevate nelle insenature locali).
Un faccino :-)

28 ottobre 2010

Barbaresco Basarin 2006 Marco e Vittorio Adriano

Angelo Peretti
Ordunque, metti che per tutto il giorno di sia capitato di degustare Barolo. Cosa ti vien voglia di bere la sera, stando in Langa? A me, trovandomi nella fattispecie di cui sopra, e avendo voglia di restare in tema nebbiolista, m'è venuta voglia d'un Barbaresco, e ho scelto un 2006 degli Adriano, il Basarin.
Ordunque, questo Basarin del 2006 l'ho trovato di considerevole piacevolezza di beva, ed è bella cosa, ed è soprattutto caratteristica che appunto mi piace rintracciare nel Barbaresco (mentre se bevo rossi barolisti ricerco magari maggior complessità). Al punto che talvolta stappo un Barbaresco perfino coi pesci di mare, quando siano di pezzatura consistente.
Il frutto è nitido, succoso, ben delineato, rotondo senz'essere eccessivamente polputo, croccante.
Il tannino è di già ben integrato. E è levigato.
C'è buona freschezza, che bene accompagna la tavola.
E il bicchiere ne chiama un altro, che non è cosa da poco.
Due lieti faccini :-) :-)

27 ottobre 2010

I cattivi maestri

Mario Plazio
Come direbbe il buon Pappalardo: e lasciami sfogare. Oppure il compianto Cossiga: fatemi togliere qualche sassolino dalle scarpe.
Non sono uno di quelli che incontrate su blog o riviste semiclandestine e che brandiscono la spada a destra e a manca. Voglio dire: anche se è da qualche anno che mastico vino, credo di non dover pontificare o insegnare niente a nessuno. Ho una passione che mi fa capire che più so, e più so di non sapere. Per questo credo di avere il diritto di incavolarmi quando vedo gente che si erge a giudice supremo e che lancia giudizi lapidari a qualche povero disgraziato che ha la sfortuna di non essere in linea con il pensiero con la P maiuscola.
Categoria davvero originale è poi quella dei pionieri. Quelli per intenderci che hanno bevuto quel tal vino prima che se ne accorgesse la critica, prima che il mercato tributasse il meritato premio, prima che i prezzi andassero alle stelle. Per loro il massimo è quel vignaiolo che produce 200 bottiglie all’anno di un vino introvabile. Che poi un qualsiasi Château Margaux metta sul mercato 200.000 bottiglie a quel livello, non significa nulla. Sono quelli che il Sassicaia una volta sì che era buono, oggi non vale più niente.
La tipologia che più mi fa arrabbiare è però quella dei cattivi maestri. Quelli che sputano nel piatto in cui hanno mangiato fino a ieri. Quelli che oggi decidono che è buono solo quello che dico io. Ma anche (come direbbe il buon Veltroni) quelli che sono afflitti da bastiancontrarite acuta.
Faccio un esempio che ho trovato recentemente su internet, nel sito di una nota rivista. Sappiamo che certa critica ha provato negli ultimi anni ad ampliare il lessico del vino, andando oltre le semplici descrizioni e cercando di trovare nuovi stili ed interpretazioni più profonde. Tra le caratteristiche che più sono amate e controverse tra i degustatori ci sono la mineralità e la sapidità, indicati sempre più spesso come fattori di qualità. Che talvolta questi termini vengano usati a sproposito lo posso anche ammettere. Vedere però che il solito saccente o qualche suo accolito bacchetti quanti usano questa terminologia, quando fino a ieri era lui a farlo e a bearsene, mi sembra puro snobismo. Come quel bambino a cui hanno rubato il giocattolo con il quale voleva giocare solo lui. Un po’ radical-chic. E molto stupido.

26 ottobre 2010

Associazione italiana sommelier: le elezioni sono 2.0

Angelo Peretti
Nutro considerevole stima per l'Ais, l'Associazione italiana sommelier. Mi ci sono anche iscritto, come socio sostenitore o qualcosa del genere: insomma, non ho frequentato i tre corsi canonici, e mi limito a pagare una quota (e a ricevere e leggere con interesse le pubblicazioni che mi vengono inviate). Adesso scopro anche che il sistema di democraticità dell'associazione pare fra i più alti che si trovino in circolazione nell'italico mondo associativo, se addirittura il dibattito programmatico in vista dell'imminente rinnovo (si vota mercoledì 27 ottobre) degli organismi nazionali si svolge on line, sui blog e sui siti tematici, ma anche sui social network.
A me, per esempio, è pervenuta una mail di Marco Aldegheri, sommelier veneto (veronese), ragazzo che stimo parecchio (è lui nella foto qui accanto), candidato nella lista Noi per Ais. Mi ha fatto pervenire il programma del suo gruppo, ma mi ha anche fornito le coordinate dell'altra lista, quella guidata da Antonello Maietta, il cui progetto non è difficile comunque trovare on line, illustrato ad esempio da Franco Ziliani sul suo Vino al Vino. Addirittura, Aldegheri le linee programmatiche in base alle quali chiede il voto le illustra in video su un blog enoico, nonché su pagine aperte su Facebook e Twitter. Mai visto un grado di trasparenza del genere in un sodalizio.
Certo, da uomo che di congressi ne ha visti e vissuti tanti e un po' d'ogni genere, non penso che anche nel caso dell'Ais non vi sia quel fittissimo scambio di telefonate, colloqui, proposte, mediazioni che caratterizzano qualunque rinnovo elettivo, financo per le riunioni condominiali. Epperò che l'Ais, dopo aver dato slancio al sito associativo, sia ormai entrata nell'orbita della comunicazione 2.0, dell'utilizzo dinamico del web, mi sembra una constatazione che accolgo molto favorevolmente. Così come accolgo con notevole favore almeno un punto programmatico sul quale la lista Noi per Ais si distingue dall'altra: il riferimento ad un rinnovamento delle logiche redazionali di Duemilavini, la guida vinicola dei sommelier italiani. Guida che acquisto da sempre, e che da sempre mi trova in disaccordo, perché propone una visione dell'eccellenza enologica che non condivido, basata nella sostanza - pur con le dovute eccezioni - sul concetto di materia, di concentrazione, per cui - generalizzando - un rosso non è "importante" se non è polposo e fitto e un bianco non è degno d'encomio se non è passato in legno. No, questo non è lo stile di vino che mi piaccia. Adesso, Noi per Ais propone il "coinvolgimento di tutte le associazioni regionali nella guida ufficiale Ais valorizzando la capillare presenza sul territorio delle nostre associazioni", dove il "nostre" sta evidentemente per le varie sezioni dell'Ais. E il coinvolgimento attivo delle realtà regionali potrebbe essere una buona soluzione, capace di evidenziare al meglio le particolarità delle singole, variegate realtà vinicole italiane. In favore dei lettori. E dunque, mi si permetta di esprimere - come si farebbe su Facebook - un pubblico "mi piace" a quest'idea di Aldegheri e colleghi.
Chiudo con un "in bocca al lupo" a tutti i candidati, il cui elenco completo potete trovare sul sito dell'associazione, cliccando qui, e anticipando un augurio di buon lavoro alla nuova dirigenza che uscirà da questo rinnovo congressuale.

Che cosa sta succedendo nel mondo del vino veronese?

Angelo Peretti
Verona è una specie di portaerei del vino. Prima provincia italiana per produzione a denominazione d’origine. E fra le denominazioni ce ne sono alcune che hanno fatto la storia dell’enologia italiana.
Verona è anche una specie di laboratorio del post Ocm vino. Perché nel Veronese, dopo la riforma della normativa europea sul vino, ci si è organizzati con un’autonoma “società terza” - Siquria - che gestisce i controlli. E perché sono emerse le prime asperità nel percorso che dovrebbe portare al cambio di pelle dei consorzi di tutela.
In Valpolicella è nata un’associazione, quella delle Famiglie dell’Amarone d’Arte, che riunisce una serie di celebri marchi del panorama amaronista. L’orientamento è quello di attuare autonome politiche di comunicazione. Tra i soci delle Famiglie, chi era nel consorzio c’è rimasto, chi era fuori continua per la propria strada.
In terra soavese s’è costituita l’associazione dei Vignaioli indipendenti del Soave, affiliata alla Fivi, la Federazione italiana, appunto, dei vignaioli indipendenti. Ne fanno parte una dozzina di nomi celebri o emergenti del panorama soavista. E c’è una clausola che prevede la non adesione al consorzio: di fatto, a parte chi era già fuori, gli altri si apprestano ad uscirne.
In entrambe le strutture militano produttori che stimo, e che fanno vini che ritengo in alcuni casi assolutamente esemplari.
Una constatazione, come dire, semantica, mi pare accomuni i due club: entrambi, pur annunciando che le scelte effettuate puntano a valorizzare quella che ritengono essere la miglior espressione della denominazione (i primi parlano d’Amarone, i secondo di Soave), in realtà sembrano mettere la denominazione - almeno, ripeto, semanticamente - in secondo piano. I primi sono infatti “Le Famiglie” (dell’Amarone) e gli altri i “Vignaioli indipendenti” (del Soave). Il che suona molto diverso dal parlare “dell’Amarone” (delle Famiglie) e “del Soave” (dei Vignaioli indipendenti).
Insomma: ad accomunare i produttori dell’uno e dell’altro team, di fatto, è prima di tutto l’appartenenza ad una medesima classe produttiva, famigliare o contadina a seconda del caso, e solo dopo la comune tipologia del vino. Ad esser posto in luce dai rispettivi termini associativi, dunque, non è in primis il brand della denominazione (la doc) e neppure quello della singola azienda (la “marca”), bensì il layout del sodalizio: le “Famiglie”, col loro marchio, e i “Vignaioli”, pure con marchio a sé.
La mia sembrerà una sottigliezza, un voler cercare il pelo nell’uovo. Non è così. Di fatto, mi sembra di trovarmi di fronte all’ennesima concretizzazione – pur secondo modelli organizzativi diversi - di un “difetto” tipico del mondo vinicolo italiano: ritenere che il brand da valorizzare non debba necessariamente essere quello della denominazione di pertinenza.
Si parla tanto di terroir, ma poi a finire che in Italia è relegato quasi costantemente in secondo piano proprio l’elemento accomunante del terroir: l’appellation. Nei due casi in parola, ad esempio, esponendo di fatto la convinzione – coscientemente o no, non è importante saperlo – che a creare valore per ciascun attore dell’iniziativa debba essere il marchio associativo, piuttosto che il brand della doc.
Certo, ci sarebbe molto da discutere se e come e quanto sin qui si sia davvero lavorato – ovunque, mica solo nel Veronese – per trasformare effettivamente il nome di una denominazione in un brand spendibile sul mercato. E temo che il bilancio sarebbe oltremodo negativo, se non avvilente. Penso che forse gli unici ad averlo realizzato, quest’obiettivo – e non so neppure se sia avvenuto consapevolmente – siano stati i produttori del Prosecco, che oggi infatti, nel bene o nel male, è vino che si vende da sé, quasi prescindendo dalla “marca” del singolo produttore. Come avviene per il Parmigiano o per il prosciutto di Parma: alzi la mano chi sa il nome anche di un solo produttore.
Si obietterà che questa riconoscibilità indistinta del prodotto non è per forza positiva, perché rischia di appiattire, di livellare, impedendo ai migliori di emergere. Ed è vero. Ma qui occorrerebbe aprire un ulteriore elemento di dibattito sul come far sì che la doc diventi brand e che sul brand si innestino politiche di valorizzazione delle singole “marche” (ossia dei singoli produttori). E non è su questo che voglio ora focalizzarmi.
Quel che voglio dire è che a mio avviso il prerequisito no può che restare uno: che il nome dell’appellation abbia valore. Altrimenti è inutile illudersi: non c’è salvezza per nessuno, né per i piccoli, né per i grandi.
La nuova normativa sul vino, il ruolo di gestire la denominazione, anche in termini di approccio al mercato - l’affiderebbe (uso il condizionale non a caso) ai consorzi di tutela, che sono chiamati (e qui non uso il condizionale, non a caso) ad attrezzarsi – culturalmente in primis – per tentare quest’impresa. Un’impresa epocale per il vino italiano: dal primo di agosto dell'anno passato, con l'avvio della nuova normativa europea, è cambiato tutto per il mondo del vino, ma ancora pochi sembrano essersene resi conto (o forse fa comodo far la finta che nulla sia cambiato). Non so quanti ce la faranno, ma ci si deve provare. Mettendo insieme – se si è capaci di farlo – esperienze, competenze, passioni. O almeno, questa è la mia opinione. Che, come tutte le opinioni, è opinabile fin che si vuole.

25 ottobre 2010

Champagne Grand Cru Brut Intégral François Secondé

Angelo Peretti
Avviso ai naviganti: trattasi - questa - di indicazione champagnista esclusivamente indirizzata a chi è alla ricerca di bolle che non ammettono smancerie o mediazioni. Niente roba da aperitivo leggero, dunque. Niente sdolcinature, neppure.
Pienotto, denso di frutto, croissant all'albicocca, spezia, fiori secchi, ma soprattutto salatissimo.
Ecco: la sensazione che ti propone questo Champagne è proprio quella dal sale. E ti fa salivare a lungo.
Eppi c'è il corpo, che è - dicevo - pieno, quasi grasso.
La bollicina è calibratissima, e ingentilisce la struttura.
Insomma: bolla comunque da piatti anche impegnativi, ché è capace d'adattarsi con nonchalance alla tavola. Vorrei averlo provato in un test magari impegnativo: per esempio su qualche bel salume cotto in pignatta (cotechino, salama da sugo et similia). Se vi capitasse...
Fatto per l'ottanta per cento col pinot noir (il resto è chardonnay) e non dosato: roba da gente che ama lo Champagne di carattere.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

23 ottobre 2010

Condannati alla fascetta

Angelo Peretti
La normativa italiana direbbe che è obbligatorio che tutte le bottiglie di vino "a denominazione" riportino il contrassegno di stato. La fascetta, intendo. Quella fettuccia di carta filigranata, insomma, che sta appiccicata alla capsula. Solo che di solito la fascetta la vedete solo sui vini a denominazione controllata e garantita, i docg. Raramente si scorge anche sulle bottiglie "solo" a denominazione controllata, quelle dei vini doc. Perché la legge ammette una deroga, per i doc. Dice che al posto del contrassegno si può scrivere in etichetta il lotto di provenienza del vino imbottigliato. E, figurarsi, un po' tutti hanno messo la fascetta nel dimenticatoio: più semplice e più economico - e magari anche più qualcosaltro - scrivere solo il lotto.
Cos'è il qualcosaltro? Quel che non dovrebbe esserci: il taroccamento. O meglio, l'imbottigliamento truffaldino di più partite con lo stesso lotto. Che poi per chi vuole imbrogliare a volte è sufficiente disporre delle "carte" giuste: quel che va a finir dentro la bottiglia sembra la cosa meno importante, e senza fascetta puoi tentare di farla franca (e puoi anche riuscirci), ma con la fascetta molto, molto meno.
Ergo, gli onesti dovrebbero spingere perché la fascetta venga impiegata di più, perché sia resa obbligatoria, senza deroghe. Però, ammettiamolo, per gli onesti il contrassegno statale rischia comunque di costituire una bella rottura di scatole. Ed anche un costo. Bisogna comprare le fascette (mica te le regalano), custodirle con cura e gestirle con tanto di registri (vengono dalla Zecca, come le banconote), acquistare la macchinetta per appiccicarle (o in alternativa provvedere a mano), disegnare un packaging compatibile per la capsula e la bottiglia. Mica sciocchezze.
Epperò sempre più consorzi di tutela stanno valutando di adottarle comunque, ché è l'unica maniera per cercare davvero di scongiurare l'azione dei furbacchioni di turno: le fascette sono contate, con tanto di numero, e dunque il vino lo imbottigli una volta sola. E se le falsifichi incorri in sanzioni serie.
Ora, non sto a discutere se sia un bene o un male obbligare alla fascetta. O meglio, mi sembra chiaro che soprattutto per chi è a rischio di speculazioni pataccare, la fascetta è un bene. Discuto invece del fatto che si debba per forza usare la costosa ed antiestetica (a me proprio non piace) fascetta, invece che trovare altre soluzioni.
Mi risulterebbe che a giorni del tema del contrassegno si discuta al Ministero per le politiche agricole. E (purtroppo) non mi pare che si abbia intenzione di prevedere ipotesi alternative: si confermerebbe il solo contrassegno filigranato da appiccicare al collo della bottiglia in maniera tale che lo si debba per forza strappare durante l'apertura, onde evitare riutilizzi.
Quale potrebbe essere la soluzione alternativa? Ma, vivaddìo, quello che fanno già in Francia e in Austria: la capsula con il contrassegno di stato in testa. Certo, costa anche quella, ma almeno utilizzi un solo ciclo di lavorazione e una sola macchina: la capsula la si mette comunque, sopra al tappo. E poi è esteticamente anche più bella. E a bottiglia coricata dà subito la percezione della provenienza nazionale del vino. In Francia c'è impressa la Marianne, in Austria c'è la bandiera rosso-bianco-rossa. Perché da noi no? Perché dobbiamo essere tanto macchinosi e burocratici?
Avanti, Mipaf, un atto di coraggio, e adeguamoci alle migliori pratiche europee!
Ps: il Mipaf è il Ministero per le politiche agricole alimentari e forestali, ed ha a capo un uomo che so appassionato della cultura del buon bere; credo dunque abbia perfetta conoscenza delle best practices francesi, e lo esorto, per quel che conta la mia esortazione (quasi nulla), a volerle attuare anche in Italia.

22 ottobre 2010

Au revoir, Monsieur Lapierre

Mario Plazio
Una e-mail come tante. Dal Domaine Marcel Lapierre. Saranno notizie sulla vendemmia mi dico. La apro dopo cena, e scopro che è la famiglia che annuncia la morte di Marcel. Una notizia inattesa e sconfortante.
Marcel era prima di tutto una grande persona. È considerato, a ragione, il padre dei vini naturali in Francia (chiamiamoli così per comodità).
Ho ancora perfettamente nitido il ricordo del primo Morgon bevuto ormai 15 anni fa da quel grande ristoratore ed innovatore che è Michele Alesiani, creatore dell’Osteria dell’Arancio a Grottammare e oggi alle redini di Cibo a San Benedetto del Tronto. A quel tempo quei vini si trovavano solo lì o quasi. Un vino a parte, così diverso da tutti gli altri. Irriverente, spontaneo, iconoclasta. Fragile, delizioso. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di bottiglie.
I vini di Marcel si bevono. All’opposto di tutti quegli snob da degustazione, che sputi e non mandi mai giù, che devi spaccare in quattro per capire se hanno l’aroma di pelo di cavallo del Sudafrica o della Nuova Guinea.
Quando Marcel ti accoglieva nella sua cantina, era difficile cavarsela in poco tempo. Dopo l’assaggio delle barriques (tutte molto vecchie, attenzione) delle varie vigne, faceva seguito l’apertura di vecchie annate, il tutto con accompagnamento obbligatorio di formaggi e salumi. Nel frattempo arrivavano, amici, clienti, sommeliers. I bicchieri erano sempre piuttosto pieni, e il vino andava giù che era un piacere. E ti accorgevi che era tremendamente tardi…
Questa giovialità e disponibilità dell’uomo Lapierre non deve far dimenticare l’enorme contributo che il vigneron ha dato a tutto il Beaujolais e ai vini naturali in generale. Giunto all’azienda famigliare nel 1973, Lapierre conosce Jules Chauvet nel 1981 e riflette sulla deriva dei vini della regione. Vino novello, grandi produzioni, basse gradazione (fino a 8°!), che dovevano essere corrette da montagne di zucchero, fermentazioni con dosi massicce di lieviti, enzimi ed altre diavolerie, solforosa a spianare il tutto. Non fu semplice decidere di tagliare di netto con tutto questo. Solo dopo molti anni gli è stato riconosciuto il merito dovuto, ma se devo giudicare dalle guide e dalla critica d’Oltralpe, devo ammettere che il suo metodo non è ancora del tutto accettato dalla ortodossia del “sistema vino” francese. Fonda poi la famigerata “Banda dei quattro”, che poi diventano molti di più. Sono tutti quelli che hanno da lui tratto ispirazione e si sono dannati l’anima per riuscire a produrre vini di terroir, senza prodotti chimici in vigna e senza o con pochissima SO2.
Poi non importa se gli allievi hanno superato il maestro, il Morgon di Lapierre è di una bontà assoluta e ti regala emozioni vere, immediate. È un vino da amici. E questo credo sia uno dei migliori complimenti che si possa fare ad un vignaiolo, almeno per quanto mi riguarda, e se teniamo al valore dell’amicizia.
Ringrazio la sorte che mi ha indegnamente permesso di approfittare dell’amicizia di Marcel, e ricordo divertito i momenti di autentica festa vissuti nella sua cantina.
Un pensiero alla famiglia e a Mathieu, il figlio che ha il pesante fardello di continuare l’opera del padre.

21 ottobre 2010

Fiano di Avellino Radici 2002 Mastroberardino

Mario Plazio
Semplicemente uno dei più grandi bianchi italiani.
E proviene dal sud, così come altri Fiano o vini dell’Etna come il Pietramarina di Benanti. Come se l’uva, posta in condizioni estreme, tirasse fuori istintivamente le sue migliori qualità. Certo non tutti i vini sono come questo Radici…
L’annata 2002 è in forma smagliante.
Le note di miele e macchia mediterranea sono mirabilmente fuse in un insieme cangiante, ma di grande purezza.
Il naso è poi dominato da note minerali di petrolio (meno fini tuttavia di quelle di un riesling tedesco), di tabacco e di torba.
Il frutto è di una grande dolcezza, ma su tutto emerge la sensazione di rara finezza ed eleganza.
Luminoso il finale, di esemplare persistenza. Una grande lezione di stile.
Speriamo invece che le ultime annate siano a questo livello, vista la tendenza a “modernizzare” in atto anche presso la pur eccellente cantina di Atripalda. Sembra che il Taurasi abbia già subito un restyling che tiene conto delle nuove “esigenze” del mercato. Vedremo nel tempo la sua evoluzione. Per quanto mi riguarda rimango scettico.
Tre faccini :-) :-) :-)

20 ottobre 2010

Palette Rosé 2009 Château Simone

Angelo Peretti
Questa è una domanda da esame finale del terz’anno del corso per sommelier: “Mi parli della denominazione di origine Palette”. E chi ne ha mai sentito parlare?
Ora, per chi non lo sapesse, Palette è un’aoc, un’appellation francese, della Provenza, dalle parti di Aix-en-Provence. Il nome viene da una località del comune di Le Tholonet, o così credo. Mica è una novità: se ne parla da subito dopo la guerra, di questa denominazione. Solo che è roba per pochi, tant’è piccola e semisconosciuta e limitata a – credo – pochissimi produttori. La star è in ogni caso Château Simone, che fa vini ricercati dagli appassionati come una sorta di oggetti di culto bacchico.
Ho potuto bere, di Château Simone, il rosé del 2009 (l’appellation è tricolorata: bianco, rosso, rosé). Ed è un vino che non solo non ti lascia indifferente, ma anzi proprio t’impressiona.
Il colore è un bordeaux chiaro, brillante.
Il naso è, come spesso – quasi sempre - accade in Provenza, sottilissimo, giocato soprattutto sulla vena speziata, ma lieve.
Quando passi alla bocca, resti dapprima basito. Se te l’avessero messo in un bicchiere nero – nel quale non vedi il colore – e non t’avessero detto di cosa si tratta, saresti in ambasce: un rosso o un bianco? Del rosso ha la possanza (tra l’altro, quattordici gradi di alcol) e l’ampiezza e il frutto. Del bianco ha la freschezza e la salinità.
Insomma: è vino che si mastica e che – come dire – si dilata al palato, e dire questo lo so che m’espone a qualche azzardo, ma la sensazione è proprio questa. E al primo sconcerto ecco che fa seguito l'ammirazione.
Rosé che non passa inosservato, e che discuti sorso dopo sorso. Ma, a forza di discutere e di assaporarne un sorso dopo l’altro, finisce la bottiglia. E dunque è bel vino.
Ultima nota: che elegante l'etichetta!
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

19 ottobre 2010

Terre del Volturno Sabbie di Sopra il Bosco 2008 Nanni Copé

Angelo Peretti
Ecco, questo è uno di quei vini che o ti prendono subito o - temo - non ti prenderanno mai. Vino che discrimina. Che va ascoltato. Ché il rischio, bevendolo con superficialità, è quello di non comprenderne non già la sua attuale e già accattivante fisionomia, ma anche quella che potrà, con le prime rughe, dargli quell'austerità che pure - a mio avviso - è lì, latente, e si proporrà - penso che lo farà - col tempo.
Per descrivere il progetto - ché di vino progettuale si tratta - che sta sotto questo rosso campano, rimando all'ampio, convincente, avvincente servizio che Monica Piscitelli ha realizzato per il wine blog di Luciano Pignataro. Dico solo che è vino figlio di vigne, anche vecchissime, di pallagrello, casavecchia (un cinque per cento) e di aglianico (il venti). Allevate, accudite in quota.
Di mio, cerco di metterci quel che ho incontrato nel bicchiere. E concordo con Susy Tezzon, che me n'ha fatto provare una bottiglia al suo Giardino delle Esperidi, a Bardolino: è rosso che in qualche modo richiama il Rodano, con quel frutto e quella spezia a tratti pepata, che giocano a rincorrersi. E, sottesa e netta, già all'olfatto, c'è una vena di sigaro, d'affumicato, e un che di balsamico - appena un cenno - che accentuano la complessità.
L'alcol (tredici e mezzo dice l'etichetta, ma è forse appena un po' di più) quasi neanche l'avverti. E c'è invece freschezza che invita alla beva, ancorché la polpa sia di tutto rispetto. E il tannino vellutato fa da tessuto all'espandersi del fruttino. Ma neppure un attimo v'è cedimento alla smanceria tardo-modaiola di quella vaniglia che in tanti rossi - anche al sud - tende a prevalere ed uccidere la fruttuosità.
Vorrei poterne assaggiare, di questo 2008, prima edizione in commercio, una bottiglia fra qualche anno, quando il tempo avrà aggiunto la sua parte.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

18 ottobre 2010

Soave Classico Le Rive 2005 Suavia

Mario Plazio
I vigneti di Suavia sono tra i più belli del Soave, godono di una splendida esposizione in alta collina e crescono su terreni vulcanici tra i più vocati dell’intero comprensorio.
Il Soave Le Rive non tradisce il legame che lo lega indissolubilmente al territorio. Eppure, nonostante le pur eccellenti caratteristiche, mi ha lasciato un senso di incompiuto.
Certo si conferma maturo, con note di melone, pera e rosmarino. E poi, dopo qualche ora cresce anche una sensazione di mineralità ferrosa di sicuro fascino.
È invece al palato che non mi convince completamente, con una prima parte dolce e morbida che pare bloccare la parte acida più fine, che non riesce ad integrarsi perfettamente con il resto.
Resto dell’opinione che la maturazione in legno non aiuti il vino, che sembra viaggiare a due velocità. Non ritrovo il fascino ad esempio del Monte Carbonare. Detto questo non vorrei dare l’impressione che il vino non sia buono. Manca solo un pizzico di imprevedibilità, non saprei come altro definirla.
Due faccini :-) :-)

16 ottobre 2010

Vin de Pays des Collines Rhodannienses Viognier Les Contours de Deponcins 2007 Francois Villard

Angelo Peretti
So, perché l'ho letto, ma mica perché abbia avuto la buona sorte di provarlo, che Francois Villard è uno dei grandi nomi del Condrieu, vino bianco dell'alto Rodano che dalle nostre parti, in Italia, non è granché conosciuto - anzi, direi che è pressoché sconosciuto - e che però quando ne trovi una bella bottiglia (e, ripeto, mai m'è capitato di provare quelle di Villard, ma d'altri sì), be', ti lascia il segno, l'imprinting, l'impronta.
Ora, il Condrieu è probabilmente - senza probabilmente - la massima espressione del viognier, inteso come vitigno. Ed è un'uva, questa, che sembrava una manciata d'anni fa destinata a far faville, talché s'è cominciato a piantarla un po' dappertutto (so di vigneti in Sicilia). Ma oggi mi pare sia ri-calato il silenzio.
Ora, che Villard sia una sorta di re del viognier lo si può ben capire bevendo se non proprio il suo Condrieu almeno il suo strepitoso Viognier Les Contours de Deponcins, un vin de pays delle Collines Rhodannienses. A me è capitata la fortuna di poterne acquistare qualche bottiglia dell'annata 2007 (17,50 euro on line un annetto fa), ed è bianco che t'emoziona. Pardon, m'emoziona.
Pesca, pesca, pesca: è questo il profumo e il gusto che ti dà un vino a base di viognier. E questo bianco conferma la sensazione, netta, decisa, marcata, pulitissima, avvincente, infinita.
C'è poi grassezza, ma anche freschezza. Ed eleganza e personalità.
Grande bianco.
Appena posso, passo al Condrieu: se tanto mi dà tanto...
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

15 ottobre 2010

Malvasia Campo di Fiori 2006 Vigneto Due Santi

Mario Plazio
Un vino che mantiene quello che promette. La Malvasia dei cugini Zonta è assolutamente particolare per una evidente nota floreale che domina la fase aromatica.
L’uva di origine tende ad essere piuttosto esuberante, e ad eccedere talvolta nella componente alcolica.
Questo 2006 è sicuramente morbido e suadente per il contributo dell’alcol, che però non deborda nella pressione sul palato. Forse con gli anni ha addirittura guadagnato in finezza, accentuando la componente acida agrumata che ne ravviva il finale.
Ricorda molto un sauvignon per le fascinose note vegetali.
Pur presentando qualche segno di evoluzione il vino è ancora giovane.
Due faccini :-) :-)

14 ottobre 2010

Trattoria Da Laura - Sorgà (Verona)

Angelo Peretti
Se avete in mente di portare a cena la persona del cuore per una serata romantica, lasciate perdere: alla trattoria Da Laura ci si va per mangiare (tanto) in maniera molto, molto ruspante. E i piatti sono rusticamente spartani. Grazie al cielo. Sì, grazie al cielo, ché ce ne vorrebbero di posti così, dove la leziosità non si sa cosa sia e neppure l'algida "rivistazione della tradizione". No, qui la tradizione è tradizione, e basta.
Ora, da Sorgà non ci passi per caso, e se ci passi per caso è perché ti sei perso fra le campagne e le risaie della Bassa Veronese, per cui avresti di che preoccuparti sull'affidabilità del tuo navigatore. No, a Sorgà ci devi andare apposta, magari uscendo a Mantova Nord o a Nogarole Rocca sulla Brennero-Modena. Ed avendo l'avvertenza di prenotare, ma mica perché qui se la tirino: semplicemente perché il posto è così poco battuto dal visitatore occasionale che alla Laura non conviene tenere aperto se non ha prenotazioni.
Poi, non fornalizzatevi se le stoviglie e i bicchieri non sono all'ultimo grido e neppure se la cameriera insisterà nel rimettervi sulla tovaglia la forchetta usata che avete lasciato nel piatto: il cambio delle posate non è previsto, accidenti. Sappiate però che, nonostante il coperto (il coperto?) e l'abbuffata, il conto sarà più che popolare, e allora vada.
Che si mangia? Pessìn de fòsso e poi risotto col pessìn d fòsso e poi rane fritte e poi pesce gatto fritto e poi anguilla fritta e poi che il Signore ve la mandi buona con la digestione, con tutto quel fritto. E se non siete pratici, sappiate che il pessìn de fòsso sono gli avannotti di pesce allevati nelle risaie, che vengono fritti fino a farli diventare secchi-croccanti: ve ne portano un vassoio colmo per antipasto. Il risotto col pessìn è semplice: un piatto (abbondante) di riso in bianco, sgranato come fanno in questa zona, e poi, a parte, un altro vassoio (altrettanto abbondante: le mezze misure non sanno cosa sono) di pessìn fritto da mettere sopra al riso.
Pochi vini, ma più che adatti alla cucina (e di qualità apprezzabile, oltretutto).
Provare per credere. Per me è un must, nel Veronese.
Ubicazione: sulla strada principale (principale?) di Sorgà, a due passi dal municipio (che è il palazzotto che compare nella foto qui sopra).
Trattoria Da Laura - Via Cesare Battisti 5 – Sorgà (Verona) - tel. 045 7370222

13 ottobre 2010

Blanc de Morgex et de La Salle Selezione Vini Estremi 2004 Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle

Mario Plazio
Uno di quei vini che non assaggi molto spesso o quasi mai, e tanto meno con qualche annetto di cantina. È quindi con piacere che ho “riscoperto” una delle due bottiglie rimaste del vino emblema tra i bianchi della Val d’Aosta.
Con buona pace di chardonnay e altri vitigni riadattati con lo scopo di rendere più internazionale l’offerta enologica locale (e subito colpevolmente premiati da guide e guidine).
E non sono rimasto per niente deluso da quello che ho bevuto, anzi devo dire che ho ritrovato inattese emozioni che non sempre riscontro in etichette ben più importanti e costose.
Ovviamente il vino gioca tutto attorno ad una vibrante acidità ed ad una materia sottile ma paradossalmente amplificata in lunghezza dal persistere delle sensazioni tattili di acidità e di mineralità.
I sentori di idrocarburi e di agrumi, limone in particolare, lo avvicinano per certi versi ad un riesling tedesco. I paragoni si fermano però qua, non crediate di poterlo sostituire ad un Mosella.
Grande beva e sensazione di salinità ad inizio bocca ne completano il profilo.
Ancora una dimostrazione di quello che possono regalare vini “minori” (minori solo per i saccenti che bevono solo Borgogna o bocce di alto blasone).
Un appunto a qualche ristoratore avveduto: cominciate a prendere questi vini e a metterli in cantina per qualche anno. L’investimento non sarà dei più onerosi, ma potrete offrire grandi emozioni senza svenare il conto corrente dei clienti.
Due faccini :-) :-)

12 ottobre 2010

La Roveglia, il Filo d'Arianna e la nuova via del Lugana

Angelo Peretti
Parecchio che non scrivo di Lugana. Ora di farlo. Perché sono stato alla Tenuta Roveglia a far due parole con Paolo Fabiani - deus ex machina di quest'azienda degli Zweifel Ottone, a Pozzolengo - e a tastare qualche bottiglia e qualche vasca. E, sì, mi pare che si stia delineando quel che sarà il Lugana di domani. Intendo quello che verrà fuori col nuovo disciplinare, che ha aggiunto le tipologie della riserva e della vendemmia tardiva. Che credo potranno cominciare a essere prodotte dalla prossima annata, ché per quest'anno non ritengo sia stato ancora pubblicato il decreto (ma se sbaglio, prego di correggermi).
Ora, chi è della mia stessa opinione, e cioè che il Lugana buono è quello che interpreta il trebbiano luganista delle argille in versione secca il più possibile e acida parimenti - e invece oggidì la morbidezza impera, e il mercato sembra gradirla vieppiù, e il bianco luganista, ad onta della mia personale opinione, ha ottime vendite e prezzi remunerativi -, magari potrebbe avere un fremito a pensare alla vendemmia tardiva. Ché vendage tardive in genere significa zuccheri e dolcezza, e dunque una possibile deriva morbidosa. Be', sì, il rischio ci può essere tutto, ma se la vendemmia tardiva che hanno in mente in Lugana è quella che da una manciata d'anni si sta progettando e mettendo a punto alla Roveglia, be', credo che mi toccherà diventarne un fan, pur continuando a preferire la tipologia più secca & fresca, ovvio (e in questo confido nella tipologia riserva).
Mi riferisco al Filo d'Arianna, che della vendemmia tardiva è un po' un archetipo (oh, se mi piace usare parole come questa: archetipo).
Già con l'annata 2005, che mi era parecchio piaciuta, s'era andati a cercare la tropicalità del frutto e la carnosità della polpa e perfino il miele, ma devo dire anche senza andar sopra le righe, ed anzi facendo uscire dalla lunga sosta in legno grande una gran mole di spezia e un che di gasolio che fa rieslingheggiare il trebbiano della Lugana. Insomma: era un bel bianco. Certo, non facilissimo da mettere in tavola.
Nel 2008 Paolo Fabiani ha spinto la raccolta dell'uve fino a ottobre inoltrato. E l'uva turbiana ha retto benissimo la prova. E s'è sì concentrata, ma ha preservato anche freschezza e messo insieme i primi vaghi sentori d'idrocarburi, che sono - o dovrebbero essere - tipicissimi del trebbiano e delle argille di queste plaghe gardesane. Ebbene, se conosci il 2005 (e anche il 2006), appena porti al naso la nuova annata non hai dubbi: è il Filo d'Arianna. Resinoso, speziato, minerale. Idem in bocca. Polputo di frutto giallo stramaturo, a tratti dolce, grasso ma non grosso, e invece teso, nervoso, direi perfino tannico nel finale lunghissimo e avvincente. Un vino di quelli che s'usano definire estremi per concezione ed esecuzione. E chissà cosa sarà dopo qualche anno di bottiglia, quando il trebbiano tirerà fuori del tutto - e non ho dubbi che lo farà - quei suoi sentori di kerosene.
Ho avuto la buonasorte di poter provare dalla botte anche il 2009, vendemmiato addirittura a novembre, e se il 2008 l'ho appena citato qui sopra come un vino agli estremi, be', non oso pensare cosa verrà fuori dall'annata calda portata a essere raccolta nei giorni freddi, in là nella stagione, fino alle prime brume. Dico solo che ho pregato Paolo Fabiani di tenermene da parte una cassa: prenotazione en primeur, come dicono i francesi, ché chissà quando ci andrà, questo bianco, nella bottiglia. Per ora è lì, nel legno grande, e aspetta. Aspetto anch'io: non vorrei perdermelo, questo Filo. D'Arianna. E pensare che a me piacciono secchi, in Lugana.

11 ottobre 2010

Il Mottolo e i Colli Euganei: non si finisce mai di imparare

Mario Plazio
Della serie non si è mai finito di imparare, ho avuto l’opportunità quest’anno di ampliare i miei orizzonti assaggiando numerosi vini provenienti dai Colli Euganei. Non che non li avessi mai provati, ma mai con tale completezza. E devo dire che, tra luci ed ombre, ho scoperto un territorio dalle potenzialità ancora in gran parte inesplorate.
Il terroir c’è tutto: i terreni che vanno dal vulcanico al calcareo, i climi che sono mediterraneo per la parte che guarda il sud e più continentale e fresco per le esposizioni più a nord. I vitigni includono in gran parte varietà di origine bordolese. Pare che proprio qui siano arrivate le prime barbatelle di cabernet franc da Bordeaux verso il 1850. Poi si scoprì che era carmenère, ma questa è un’altra storia. Fatto sta che il territorio pare perfetto per ottenere dei grandi tagli bordolesi, aggiungendo di suo un carattere specifico che si rivela nelle bottiglie dei migliori produttori.
Altra uva degna di interesse è il moscato. Sia la versione Fior d’Arancio spumante che quella secca hanno grandi prospettive di crescita.
Gli uomini ci sono pure. Molti sono partiti da pochi anni, cambiando le regole del gioco rispetto ai genitori o cominciando ex-novo una attività sulla scorta della passione per il vino. In realtà il quadro non è così idilliaco come potrebbe sembrare. La zona sconta una certa mancanza di identità e fatica ad imporre sul mercato il marchio Colli Euganei. Questo a causa di tante vigne di pianura poco adatte a produrre qualità, ad una abitudine a lavorare per il vino sfuso, che negli anni scorsi ha portato ricchezza ma che oggi non trova grandi sbocchi ed al massimo contribuisce ad arrotondare il reddito.
Il Mottolo, azienda di recente formazione guidata dalla esagerata passione per il vino (francese in primis) di Sergio Fortin, ha costituito per chi scrive una vera rivelazione. Le vigne sono in parte vecchie e in parte sono state completamente rinnovate per lavorare in equilibrio e senza forzature. Questo significa privilegiare la finezza e la eleganza sulla concentrazione, e lavorando su portainnesti, impianti, densità ecc. si arriva ad ottenere in vendemmia uve che non necessitano di alcuna manipolazione in cantina.
Di seguito i miei commenti della degustazione che ho avuto il piacere di effettuare in cantina con Sergio. Una degustazione decisamente interessante per una cantina che andrebbe opportunamente valorizzata e scoperta da amanti del buon bere, enotecari e ristoranti. Soprattutto vini che si possono bere ed abbinare a molti stili di cucina in virtù di una eleganza di fondo che raramente ho sentito così marcata su tutti i prodotti.
Le Contarine 2009
Moscato (secco) quasi in purezza. Ancora molto giovane e varietale nei profumi. La bocca è croccante e fresca, continua e gradevolmente aromatica nel finale di eccellente persistenza. Non ci sono tracce di pesantezza od opulenza che caratterizzano molte altre etichette affini.
Due faccini + :-) :-)
Le Contarine 2008
Millesimo più contrastato, il vino è evoluto ed insiste sulla frutta molto matura, albicocca e pesca. Bocca più grassa ma meno dotata di eleganza. Manca della purezza del precedente.
Un faccino e mezzo :-)
Le Contarine 2006
Introverso e molto chiuso. Comincia ad accennare una sottile mineralità. Ancora più delicato e fine del 2009, non ne ha però la materia. Aromi di uva spina e rosa, vivace e piuttosto lungo.
Due faccini :-) :-)
Le Contarine 2004
Naso strepitoso di frutta esotica, mango, e note minerali sassose affermate. Poi anche cera d’api, fiori secchi, acacia ed agrumi. Elegantissimo al palato, esibisce un prestazione notevole in termini di lunghezza e persistenza aromatica. Credo esistano pochi vini di questa tipologia in grado di tenere testa a questa versione. Tutti i vini portano in dote una grande sapidità, indice di facilità di beva.
Due faccini e mezzo :-) :-)
Colli Euganei Merlot Comezzara 2007
I rossi della casa vengono a lungo affinati. Prova ne è questo merlot base che esce solo ora. Dimenticate i merlot toni tutto frutto e morbidezza. Il Comezzara è quanto più lontano da questo cliché. Si beve che è un piacere, mantenendo la morbidezza e la setosità dei tannini dei merlot maturi, ma tutto in punta di piedi e senza esagerazioni. Se poi lo andiamo a sezionare vediamo che saltano fuori anche aromi prettamente territoriali come l’acciuga (molto Colli Euganei) e la terra. Cosa volete di più?
Due faccini :-) :-)
Colli Euganei Merlot Comezzara 2008
Appena imbottigliato il 2008 è più difficile da giudicare. E’ sicuramente più concentrato, ma mantiene il profilo elegante e una notevole freschezza. Viene venduto a 9,50 € in cantina
Due faccini + :-) :-)
Colli Euganei Cabernet Vigna Maré 2008
Inizio un po’ polveroso, poi si apre. Profondo, frutta nera (cassis) e bocca fresca e dinamica. Leggera nota vegetale di peperone, tannini più abbondanti e solidi.
Due faccini - :-) :-)
Colli Euganei Cabernet Vigna Maré 2007
Versione minore, con legno in evidenza, sensazione di toffee. Privilegiata la concentrazione, ne risente la finezza.
Un faccino e mezzo :-)
Colli Euganei Cabernet Vigna Maré 2006
Naso vorticoso, animale, cuoio, liquirizia e fiori. In bocca la materia è piuttosto delicata, non troppo concentrata. Tannini veraci e bisognosi di tempo per assestarsi, buona lunghezza. Costa 6 euro in cantina
Due faccini :-) :-)
Colli Euganei Rosso Serro 2007
Vino rosso di punta del Mottolo. Concentrazione ed impatto al naso. Bordolese per i sentori di grafite e frutta nera. In bocca è più snello di quanto ti aspetti, o forse non ostenta e si porge austero. Speziato e nobilmente strutturato, ha bisogno di molto tempo per rivelarsi. Eccellente tra qualche anno.
Tre faccini :-) :-) :-)
Colli Euganei Rosso Serro 2006
Anche qui l’impressione è di trovarsi di fronte a un vino a cui serve tempo. Più in eleganza del 2007, offre frutta rossa, lamponi e spezia (dall’uva non da legno) e fiori. Al palato è dotato di grazia e colpisce più per la lunghezza che per la larghezza. Coi minuti escono erbe alpine, ferro e minerali in un compendio di indubbio fascino. Il Serro non deriva da uve appassite, ma perfettamente maturate in pianta. Il legno è generalmente vecchio, salvo sostituzioni di barriques esauste.
Tre faccini - :-) :-) :-)
Colli Euganei Fior d’Arancio passito Vigna del Pozzo 2008
Vino ottenuto come a Sauternes, vale a dire con “tries” (passaggi) successivi. In appassimento ogni acino viene controllato maniacalmente per garantire la massima pulizia. Ne risulta un naso avvolgente di confettura di albicocche, praline e frutto della passione. Il tutto rifinito da una bella botrite. Massima pulizia al palato, frutto ovviamente dolce, ma senza eccessi. Miele e lavanda, notevole freschezza aromatica.
Tre faccini - :-) :-) :-)

9 ottobre 2010

14 ottobre-14 novembre 2010: San Zeno Castagne, Bardolino & Monte Veronese

Dal 14 ottobre al 14 novembre 2010 a San Zeno di Montagna (Verona), sul monte Baldo, balcone affacciato sul lago di Garda e patria del marrone di San Zeno dop, la cucina autunnale delle castagne incontra il vino del territorio, il Bardolino, e il formaggio Monte Veronese in cinque menù degustazione. La tredicesima edizione di "San Zeno Castagne, Bardolino & Monte Veronese" vede di scena gli chef dei ristoranti Al Cacciatore, Bellavista, Costabella, Sole e Taverna kus, che continuativamente, per un mese intero, propongono piatti fra tradizione e innovazione: dal classico minestrone di castagne alla polenta di farina di castagne con funghi e Monte Veronese mezzano, dai maltagliati di castagne con salamella, zucca e nocciole alla vellutata di castagne con zucca al rosmarino, dal brasato di manzo con castagne e polenta di grano saraceno al baccalà mantecato alle castagne. In tutti i ristoranti è prevista anche una piccola degustazione di Monte Veronese con miele di castagno. Il tutto accompagnato dalla fragranza fruttata e speziata del Bardolino, preabbinato ai menù (presso ciascun ristorante è possibile scegliere fra due diverse etichette, con una bottiglia compresa nel prezzo ogni due persone). I prezzi vanno dai 35 ai 43 euro. E per chi volesse approfittare dell’occasione per un week end alla scoperta dei panorami baldensi e gardesani, quattro dei cinque ristoranti offrono anche la disponibilità di stanze per il soggiorno.
L’iniziativa è organizzata dal Consorzio di tutela del Bardolino, in collaborazione con il Consorzio di tutela del formaggio Monte Veronese e con Slow Food del monte Baldo.
Di seguito i recaiti dei ristoranti aderenti a “San Zeno Castagne, Bardolino & Monte Veronese”.
Ristorante Al Cacciatore - Località Prada - San Zeno di Montagna - tel. 045 7285139
Ristorante Bellavista - Contrada Cà Montagna, 21 - San Zeno di Montagna - tel. 045 7285286
Ristorante Costabella - Via degli Alpini, 1 - San Zeno di Montagna - tel. 045 7285046
Ristorante Sole - Via Cà Schena, 1 - San Zeno di Montagna - tel. 045 7285001
Taverna Kus - Contrada Castello, 14 - San Zeno di Montagna - tel. 045 7285667

8 ottobre 2010

Badia a Coltibuono: il fascino del luogo e del vino

Angelo Peretti
Non ho visto le vigne (vi si pratica l'agricoltura bio). Non ho visto la cantina di vinificazione. Ma sono stato all'abbazia. Alla Badia a Coltibuono, ex monastero benedettino, ora villa che fa accoglienza turistica. Silenziosa. Fra i boschi fitti delle colline chiantigiane, in terra di Gaiole. Il paese è laggiù, dopo i tornanti, cinque chilometri più sotto.
Un posto affascinante, la Badia, di quelli che ti restano nella mente e nel cuore. Un luogo dove puoi stare con te stesso. Ed è gran cosa.
Poche stanze, la mia grandissima, affacciata sul giardino. La chiesuola dalla possente torre-campanile. Il giardinetto all'italiana, su un lato l'orticello. Poltroncine di legno all'aperto, sotto la magnolia, per riposare. Dentro, l'ex refettorio affrescato è luogo ideale per sostare a leggere un libro.
Il refettorio dà su quel che resta del chiostro e da lì, da una porticina, si scende nelle cantine dove stanno i legni per l'affinamento dei rossi: dicono che il primo vano fosse una cripta, ma poi i monaci capirono che era meglio "seppellirci" il vino ad invecchiare il giusto tempo. C'è, là sotto, anche una collezione di vecchie bottiglie cariche di muffa, e mi piacerebbe mi toccasse la sorte di poterne stappare qualcheduna.
Poco fuori dall'abbazia c'è il ristorante. Consiglio chi fosse da quelle parti d'andarci: il cuoco sa davvero il fatto suo, ha misura e creatività. Bravo. Eppoi il servizio è impeccabile, la carta dei vini notevole, il luogo suggestivo.
Mi piacerebbe tornarci, prima o poi. Al ristorante e anche alla Badia.
Ho assaggiato i vini, alla Badia. O meglio, all'enoteca, che è sette-ottocento metri prima dell'abbazia. Dico assaggiati, perché usano calici piccolissimi, ed è un peccato. Ma l'impressione è possibile farsela lo stesso. E la competenza del gestore è notevole. Non ho preso il suo nome: mi dispiace, e comunque lo ringrazio.
Ecco cos'ho trovato. Epperò prima dei vini faccio una nota per un olio dlla Badia, il Campo Corto, un monocultivar della varietà frantoio: ad agosto l'ho trovato d'una integrità spettacolare.
Chianti Classico RS 2008
Al naso il frutto e un'avvincente vena agrumata, come di mandarino. In bocca il frutto è innervato dal tannino. Ha freschezza e succosità. Costa 11 euro.
Due faccini :-) :-)
Chianti Classico 2007
Elegante nei profumi. Possente al palato, eppure anche succoso di frutto rosso dolce. Tannino maschio. Vino ancora in divenire, ma convince. Viene 12,45 euro e per me è un ottimo acquisto.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Chianti Classico Riserva 2006
Da agricoltura bio. Austero, nobile. Frutto rosso denso, quasi sotto spirito. Rabarbaro. Alla lunga, escono sentori di violetta. Gran persistenza. Fascinoso. Costa 22 euro e li vale.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Sangioveto di Toscana 2006
Molto, molto giovane, e dunque dal tannino ruspante. Ci vuol pazienza: occorre saperlo aspettare. Ha bel frutto e freschezza. Incenso, fiore. Costa 34 euro.
Due faccini :-) :-)
Cultus Boni 2004
Tanto tannico. Fruttatone. Un vinone (c'è del merlot): non è il mio vino. Forse aspettandolo ancora un po'... Il prezzo è 19 euro.
Un faccino :-)
Vin Santo 2004
Bell'equilibrio fra dolcezza e vena ossidativa. Complesso, lungo. Fiori essiccati, noce, tabacco da pipa, frutto stramaturo. Non ricordo quanto costa, ma costa un bel po'.
Due faccini :-) :-)

7 ottobre 2010

Côtes de Bourg 2006 Château Martinat

Angelo Peretti
Vi piace il merlot ma siete stufi marci di certi merlottoni densi, scuri, polputi e tannici? Ah, be', vi capisco. Anche a me piace il merlot, ma mica quand'è ridotto a marmellata alcolica. Mi piace che unisca invece eleganza e snellezza, frutto e beva.
Orbene, di recente un rosso bordolese che esalta il lato merlottista che piace a me l'ho trovato. Un Côtes de Bourg, appellation piccolina dell'area di Bordeaux, e dunque ancora a prezzi umani, umanissimi. Ed è però denominazione che sta tirando fuori anno dopo anno cose sempre più interessanti. Grazie al cielo anche cose bevibilissime, di quelle che non ti ci vogliono coltello e forchetta per affrontarle. Un po' sullo stile bordolese d'antan, quand'ancora non imperava la moda parkeriana. E vivaddìo, ancora a prezzi umani, ché nelle denominazioni satellite dei big mica se lo possono permettere di far andare i listini alle stelle, pena lasciare il vino invenduto.
Ebbene, il rosso in questione è il Côtes de Bourg 2006 di Château Martinat. L'ho comprato perché ho visto che aveva ottenuto il coup de coeur dell'appellation sulla Guida Hachette del 2009, e dunque perché non provare? L'ho provato e me ne sono innamorato.
Vien fuori per il 60% da uve appunto di merlot, cui s'aggiunge il cabernet sauvignon per un 30% e il resto è malbec. Ma l'essenza merlottista è quella che prevale nettamente, con quell'impronta varietale che noti da subito sia all'olfatto che al gusto.
Frutto rosso, spezia, un che di vaniglia. Polpa, ma senza eccssi, ed anzi succosa freschezza fruttata.
Maturo oggi, pronto da bere, può invecchiare agevolmente ancora un po' d'anni, credo.
Rosso che t'invita a versare subito un altro bicchiere. E che ti riconcilia con merlot.
Il prezzo, dicevo: comprato on line, arriva a casa a 11 euro e mezzo.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

6 ottobre 2010

Voglar: la via altoatesina al Sauvignon secondo Peter Dipoli

Mario Plazio
Come tutti i vitigni aromatici, il sauvignon tende a dare vita a vini profumati, gradevoli e facilmente riconoscibili. Il rovescio della medaglia è però che spesso e volentieri si ritrovano nel bicchiere vini stereotipati, prevedibili e alla lunga noiosi. Vendemmiato non troppo maturo conserva il carattere “verde” varietale e una spiccata acidità. Sovramaturo diventa troppo alcolico, poco fine e pesante.
È un'uva quella del sauvignon che “sente” più di altre il terroir. Ha bisogno infatti di un clima e di terreni particolarmente propizi per riuscire a sfuggire dalla gabbia che lo avvolge e lo rende così scontato. I più grandi interpreti di questa uva così bizzarra si trovano in Francia, e più precisamente nella Loira. Qui nascono dei grandissimi vini nelle denominazioni Sancerre e Puilly-Fumé, i soli in grado fino all’altro ieri di trasfigurare la grande aromaticità dell’uva per far emergere la grandezza del terroir. Oggi possiamo aggiungere alla lista anche i Sauvignon neozelandesi, in alcuni casi davvero intriganti e caratterizzati da aromi pungenti di asparago, kiwi e frutta tropicale.
E in Italia? Non ho ancora capito se esistono grandi territori per questa uva. Di certo esistono buoni produttori, ma non si può certo parlare di una “via Italiana” al sauvignon…
Personaggio istrionico, grande tecnico e eccellente conoscitore dei vini di tutto il mondo, Peter Dipoli ha iniziato il progetto del Sauvignon Voglar con alcune certezze: voleva ottenere un grande vino bianco di territorio andando ad eliminare tutti quelli che per lui sono i difetti che abbiamo raccontato più sopra. Quindi nessuna vegetalità o facile deriva varietale, ricerca della massima finezza e di aromi maggiormente orientati verso il minerale e gli agrumi, desiderio di aumentare le capacità evolutive nel tempo.
Il Voglar deriva il nome da un vigneto in località Penon, nei pressi di Cortaccia, a circa 500/600 metri di altezza. Il nome è una contrazione di “Fogolar”, focolare in dialetto locale. Peter ha qui identificato il luogo ideale per produrre un grande bianco, grazie alla ideale combinazione di clima, esposizione e suolo di origine calcarea. Il vigneto è stato riconvertito e la densità degli impianti aumentata fino a 7500 ceppi per ettato.
Nel 1990 viene ottenuta la prima piccola produzione di Sauvignon, che nelle ultime vendemmie si è assestata intorno alle 23mila bottiglie. La filosofia è quella di intervenire il meno possibile, di raccogliere l’uva a maturità ottimale e di cercare di preservare il più possibile quanto racchiuso nel grappolo. A questo fine si è scelto di fermentare il mosto in tini di acacia di medie e grandi dimensioni, di non effettuare la malolattica per preservare la freschezza e di elevare lungamente il vino nelle stesse botti sulle fecce più fini.
Ora le annate: una piccola verticale.

2009. Anteprima di botte. Floreale, teso ed elegante. Poco varietale, sentori di anice e pompelmo rosa. Ancora in fasce ma promette molto bene per il futuro.

2008. Ancora molto giovane, i sentori varietali si intuiscono ma stanno evolvendo verso profumi più fini e minerali. Gli aromi abbracciano uno spettro decisamente ampio: inizano con fiori ed erbe, poi anche anice, pompelmo e infine aromi più maturi di ananas e vaniglia. Dopo un paio di giorni si trova un ottimo equilibrio tra note più giovani e maggiormente fruttate. Esce la menta, cui si aggiungono fiori, rosmarino e mandorla amara. La stoffa si percepisce al palato, fine e cesellato, più profondo che largo. Inizia con un frutto molto dolce e finisce con una acidità impressionante. Andrà sicuramente lontano. Ancora una versione eccellente, segno che la “mano” del vigneto comincia a farsi sentire e che l’età delle piante comincia a dare i giusti frutti.
Tre faccini :-) :-) :-)

2007. Naso cristallino. Il vitigno si riconosce ma senza alcuna vegetalità. Profuma di fiori di sambuco, uva spina e asparago (in questo ricorda curiosamente qualche neozelandese). Poi si innesta una briosa vena minerale e ancora esce il kiwi assieme alla linfa. Tutto molto composto e serioso. In bocca è dominato dalla verticalità che conduce a una lunghezza rilevante, scandito da una mineralità imponente con ritorni di mandarino e buccia di limone. Uno dei migliori in assoluto. Da risentire fra qualche anno.
Tre faccini :-) :-) :-)

2006. Annata di notevole maturità e vino di conseguenza più morbido e grasso. Anche i profumi vanno in questa direzione: pesca, pompelmo, infuso di liquirizia e anice. La maturità del frutto attenua la sensazione di acidità, che pure spinge senza però arrivare all’equilibrio perfetto dei vini che seguono o precedono. Finale balsamico e potente.
Due faccini :-) :-)

2005. È quello che più mi ricorda e si avvicina ad un grande Sancerre. Note fresche di agrumi (pompelmo) e di uva spina. Ancora chiuso e dal notevole potenziale. Di che pasta è fatto si intuisce dal palato, lunghissimo, fine e senza alcun cedimento. La acidità conferisce grande equilibrio all’insieme, tanto che non si notano per niente i 3 gr di zucchero residuo. Profumi che nel tempo si aprono sui fiori d’acacia e la mandorla. Affilato e potente, abbina forza ad eleganza. Probabilmente il migliore della serie e forse il più bel sauvignon italiano che mi sia capitato di assaggiare. Esemplare.
Tre faccini :-) :-) :-)

2005 in mezza bottiglia (375 ml). Interessante confronto tra bottiglie di diverse dimensioni. Nel flacone più piccolo viene accentuata la sensazione di maturità. Rimane il côté più austero, ma viene attenuato rispetto alla bottiglia di contenuto doppio. Ha una accelerazione la nota minerale, mentre escono la cera d’api e l’ananas. Al palato si allarga la morbidezza e viene attenuata la rabbiosa acidità del precedente. Il vino è in generale più pronto e morbido, ma rimane intatta l’impressione di una grande bottiglia.
Tre faccini :-) :-) :-)

2004. La bottiglia era purtroppo viziata da un tappo non perfetto. Per quello che si è percepito ci troviamo di fronte ad una annata strana, dove coesistono sensazioni apparentemente discordanti. Alla maturità data dall’ananas, dalla banana e dalla frutta secca, si contrappongono aromi più magri e vegetali. Anche la bocca non chiarisce: il vino è quasi astringente ed evoluto, ma emerge anche una bella mineralità. Da risentire.

2003. Complice l’annata, il vino sembra ritornare sulla terra e abbandonare il suo aspetto più etereo e sottile. E’ il più varietale di tutti, si propone selvatico/verdolino e maturo al tempo stesso. La parte più verde è data dall’ortica e dalle erbe montane come la ruta. Poi escono la liquirizia, un cenno di legno e di frutta secca. Anche in bocca esprime questo dualismo, dove la freschezza viene attenuata da una forte alcolicità, mentre il finale non riesce a distendersi come dovrebbe. Anche la acidità sembra scissa dal resto del liquido.
Un faccino e mezzo :-)

2001. Annata vendemmiata tardivamente ai primi di ottobre caratterizzata da una notevole verticalità e da una maturità al limite. Questo comporta una maggiore presenza di elementi varietali, come l’ortica e una certa vena vegetale. L’insieme però non dispiace affatto, l’equilibrio è ovviamente spostato verso l’acidità e la freschezza, senza però la maturità perfetta del 2005. La struttura è esile ma grintosa, l’acidità recita la parte del leone e viene ravvivata da una piacevole nota salina.
Due faccini :-) :-)

5 ottobre 2010

Da Oio a Casa Mia - Roma

Angelo Peretti
Devo ringraziare l'amico Josef che m'ha fatto una testa così, a me, patito del cacio e pepe, perché andassimo una sera a mangiare Da Oio, zona Piramide, a Roma. Devo ringraziarlo perché i tonnarelli cacio e pepe che ho mangiato lì erano veramente squisiti. La pasta di bella consistenza, il condimento né troppo rappreso, né troppo liquido (e la magia del cacio e pep sta tutta lì), il cacio di buona qualità (mica strasalato come spesso accade). Insomma: valeva la pena.
Valeva la pena anche per la simpatia del gestore, che quando gli ho chiesto di portarmi qualcosa d'altro di romano-romano m'ha chiesto se gli davo il permesso che ci pensasse lui (avete letto bene: m'ha chiesto il permesso, il che fa una grossa, sostanziale differenza col "ce penso io, dottó" di troppi mangifici dell'Urbe dove cercano di rifilarti gli avanzi "della casa"), e alla fine, tra la trippa e la coda alla vaccinara, ha scelto per me un'impeccabile, sontuosa (e untuosa, e quando ce vò ce vò) coda alla vaccinara, del cui sugo ho anche fatto la scarpetta. E m'ha anche consigliato - e poi, vedendo che non seguivo il consiglio, m'ha pure rimbrottato - di mangiarla con le mani, e volete che vi dica? non c'è paragone tra usar la forchetta e rosicchiare. Ha ragione lui.
Il conto è più che umano (ma nelle trattorie di Roma - quelle non turistiche, intendo - non si spende mai molto) e c'è anche una piccola, ma discreta lista di vini.
Se posso, ci torno.
Ristorante Da Oio a Casa Mia - Via Galvani, 43 - Roma - tel. 06 5782680

4 ottobre 2010

Barbera d’Alba 2004 Giuseppe Rinaldi

Mario Plazio
Vi confido un segreto. La Barbera di Rinaldi è uno dei migliori vini d’Italia e costa pochissimo.
Lontanissima da sdolcinature barricose, questa Barbera esibisce una purezza esemplare.
Direi che è più marcata dal territorio che dal vitigno.
Come dice il buon Citrico (soprannome di Beppe Rinaldi), “baroleggia”.
Più che premere sulle sensazioni fruttate e primarie, il vino profuma di erbe, terra e minerali.
Al palato è profondo, sapido e continuo, senza bisogno di buttarla sui muscoli.
Ancora in fasce, saprà evolvere con grazia.
Una bottiglia memorabile.
Tre faccini :-) :-) :-)

2 ottobre 2010

Soave: sta nascendo uno stile Roncà?

Angelo Peretti
Quando dici le coincidenze. Stesso giorno: leggo il numero d'ottobre di Decanter e tasto due bianchi che m'ha fatto avere qualche tempo fa un produttore. E mi pongo delle domande. Anzi, me ne pongo una: non è che nella zona del Soave sta nascendo uno "stile Roncà"?
Per chi non fosse pratico della zona, dico che Roncà è un comune dell'Est Veronese, al confine col territorio vicentino, al limite estremo della doc soavista. Ha suoli vulcanici, di collina alta - il colle del vino è il monte Calvarina -, ma è fuori dalla zona classica, che comprende - grosso modo - solo le parti più elevate e appunto vulcaniche dei colli di Soave e Monteforte, e neanche per intiero. Ci si coltivano, a Roncà, soprattutto la garganega, che è madre appunto del Soave, e la durella, che dà vita al Durello, in genere spumantizzato. E ci si fa anche una delle migliori soppressa che si possano trovare in giro per il Veneto: il paradiso dei salumi è nella contada di Brenton.
Detto questo, devo spiegare le coincidennze.
Decanter. L'uscita d'ottobre è quella dei World Wine Awards, la competizione enologica internazionale del magazine britannico. Vengono assegnati vari premi. I più prestigiosi sono gli International Trophies, i trofei internazionali. Quest'anno, per i bianchi sotto le 10 sterline di prezzo, a portarsi a casa il trofeo è stato un Soave di Roncà, il Motto Piane di Fattori del 2008. Che, per quel prezzo, è dunque il miglior bianco del mondo, secondo i giurati di Decanter. Mica poco, accidenti. "Mieloso, leggere note di marzapane, con un che di bella maturità. Note di frutta esotica. Sontuoso e opulente, ma bilanciato da una buona acidità e un'abbondanza di sentori floreali": questa la scheda descrittiva del Motto Piane secondo Decanter.
I vini, adesso, quelli della coincidenza. Proprio prima di leggere Decanter, dalla cantina avevo tirato fuori un paio di bottiglie che m'erano state recapitate un paio di mesi fa e che non avevo ancora tastato. Due Soave di Corte Moschina, aziendina di Roncà di storia recente. L'uno è il base, il Roncathe del 2009. L'altro è I Tarai, una "vendemmia tardiva" (c'è scritto in etichetta) del 2008.
Ora, nel Roncathe ho riconosciuto quella vena sottilmente verde - che a me piace - e un po' floreale e quella freschezza nervosissima - che altrettanto mi fa piacere trovare - che in genere contraddistingue i Soave basic della fascia al confine con la terra vicentina di Gambellara, Nell'altro, I Tarai, ecco che è venuto fuori lo stile che è ben descritto da Decanter - e che già ben conoscevo - per il Motto Piane di Fattori. Ora, non dico che Motto Piane e Tarai si equivalgano, che siano perfettamente sovrapponibili, e del resto sarebbe assurdo solo pensarlo: sennò la bella soggettività d'un vino dove andrebbe a finire? Epperò un che in comune ce l'hanno. Perché entrambi sono figli di vendemmie tardive - che evidentemente in zona ci si può permettere di fare, tirando in là le uve fin tardi - e perché tutt'e due son fatti parte in acciaio e parte in legno, ma senza che il legno sia in sovramisura sul frutto tondo, grasso, polputo. E senza che cotanta ricchezza sia messa sotto, ché l'acidità, la freschezza, c'è tutta.
E allora ti poni la domanda se sia casuale, oppure se lì a Roncà non stia succedendo qualcosa di nuovo, che potrebbe anche far pensare ad un'interpretazione originale dei bianchi soavesi. Ovvio, bisogna aspettare che le rose fioriscano, se son rose, ma gl'indizi mi sembrano interessanti, anche perché non è solo da quest'anno che si manifestano.
Potrei aggiungere un terzo nome da tener presente: Sandro De Bruno. L'azienda ha sede se non sbaglio a Montecchia, ma le vigne di garganega sono a Roncà, pur'esse sulle pendici del monte Calvarina. Non vado oltre con la descrizione perché è più di un anno che non ho l'occasione di provare un Soave di quest'altro vigneron roncadese, ma da come lo ricordo, anche 'sto bianco tende alla grassezza, ma per nulla stucchevole, ed anzi intrisa di freschezza e di vene minerali.
Intanto che Antonio Fattori si lustra, giustamente orgoglioso, il titolo conquistato nel concorso di Decanter, mi permetto dunque di segnalare i bianchi di Maria Patrizia Niero e della sua Corte Moschina e di provare, per chi n'abbia l'occasione, le bottiglie di De Bruno. Invitando il lettore ad annotarsi questo paese: Roncà. Ne sentiremo parlare. Parecchio.

1 ottobre 2010

E Romano Dal Forno disse: "Più che burocrazia, serve del grande Amarone"

Angelo Peretti
La concomitanza è del tutto casuale, giacché i servizi della rivista vengono programmati con larghissimo anticipo. Però è piuttosto interessante che, proprio nel mentre il Consorzio di tutela del Valpolicella e l'associazione delle Famiglie dell'Amarone d'Arte si confrontano a distanza con dei comunicati stampa, sulla faccenda prenda la parola un mostro sacro dell'Amarone come Romano Dal Forno.
Fatta questa prenessa, faccio ora una confessione, che mi serve da seconda premessa. In quest'Italia dell'eterno dualismo - dal Coppi-Bartali al Mazzola-Rivera e via discorrendo fino ai giorni nostri - capita talvolta che tra i fan dell'Amarone ci si divida tra quintarelliani e dalforniani. E che dunque si ponga l'interrogativo se si preferisca il vino di Bepi Quintarelli o quello di Romano Dal Forno. Detto che entrambi fanno grandissimi vini (certamente costosi, ma mai quanto un vino di punta della Francia, e dunque a confronto di tanti transalpini son quasi economici) e che di Quintarelli e di Dal Forno ne servirebbero di più non solo in Valpolicella, ma anche in Italia, detto questo, per togliere di torno ogni ombra di dubbio, affermo che se mi si proponesse di stappare una bottiglia dell'uno o dell'altro, opterei per un Amarone del Bepi. Ordunque, nonostante questo - o forse proprio per questo - reputo interessante riproporre qui quel che Dal Forno ha dichiarato a una rivista mica da scherzi: Wine Spectator. La più letta al mondo, tra le riviste del vino.
Sul numero di metà ottobre, appena arrivato agli abbonati, c'è un amplissimo servizio di Bruce Sanderson sui vini del Nord Est. E dentro al servizio ci sono due approfondimenti: uno dedicato a Romano Dal Forno, appunto (cinque pagine!), e l'altro ad Alois Lageder.
Dentro al pezzo dedicato a Romano, Sanderson scrive così: "La scorsa estate, 10 aziende vinicole di punta, che includono nomi al top come Allegrini, Masi, Tedeschi e Tommasi, hanno annunciato la costituzione di un gruppo chiamato Le Famiglie dell'Amarone d'Arte, che intende proteggere l'immagine dell'Amarone. Si sono legati a regole produttive più restrittive di quelle della denominazione. Dal Forno non appartiene al gruppo. Lui preferisce lasciare che siano i suoi vini a parlare per lui. Lui non è uno di quelli che dicono agli altri produttori come fare il loro mestiere. Lui crede che invece di focalizzarsi sulle regole burocratiche, i vignaioli della zona dovrebbero focalizzarsi sull'aumentare la qualità sia dei loro Amarone che dei loro Valpolicella, in modo da competere con i migliori vini d'Italia e del mondo. Quello, dice lui, è ciò che proteggerà l'immagine dell'Amarone".
Insisto: la coincidenza temporale è del tutto fortuita, ché credo che l'articolo Sanderson l'abbia scritto un bel po' di tempo fa. Però sono parole che ritengo possano servire per una riflessione.
Per quel che mi riguarda, e per quel che conta il mio parere, dico che le regole ci vogliono e che vanno rispettate e fatte rispettare. Però concordo: chi vuol fare un grande vino su quello deve concentrarsi, sul vino (e secondo me anche sulla fedeltà a quello stranordinario mix di fattori naturali ed umani che i francesi chiamano terroir). E se una zona vuol esser considerata terra di grandi vini deve dimostrare che i grandi vini esistono con assoluta continuità, per lungo tempo e con l'impegno di tutti. Di tutti.