28 febbraio 2010

Barrique anticiccia

Angelo Peretti
Sia benedetta la barrique supertostata, in stile americaneggiante anni Novanta, che c'ha la sua ragion d'essere - dietetica - e leggete qui di seguito per capire.
Prendete me. Ultimamente ho fatto il birichino e sì, insomma, ho messo su un po' di ciccia in più, che dovrò smaltire a suon di jogging mattutino e astensioni dolciarie e alcoliche. Mica facile. Però stavolta ci son riuscito alla grande. E il segreto è nella tostatura della barrique.
La faccenda è questa: pranzo al ristorante. Carne cruda, primo alle verdure: come calorie ci siamo. Quel che ti frega, da queste parti, di solito è il vino. Solo che stavolta han portato in tavola - sono ospite - un bianco e un rosso extra-regione. Roba di due aziende di quelle pluripremiate dalle guide. Tutt'e due fatti col passaggio in barrique.
La tostatura-vanigliatura internazionaleggiante che t'esce fuori dal bicchiere, ecco, fa il miracolo: riesco a non berne neanche uno. Lasciati lì, maledicendo il giorno in cui ci si era infatuati del rovere francese tostato - ché il vino ne risulta artificioso - e nel contempo benedicendolo - ché almeno per stavolta sono sfuggito dalle calorie alcoliche.
Il girovita ringrazia, il gusto decisamente meno.

7 marzo 2010: Anteprima Bardolino a Lazise (Verona)

L’annata 2009 del Bardolino e della sua versione rosata, il Chiaretto, si presenta alla Dogana Veneta di Lazise, sulla costa veronese del lago di Garda, domenica 7 marzo, dalle 10 alle 18: settanta aziende presenti (sette in più rispetto all’edizione dello scorso anno), centocinquanta vini in anteprima (questa volta c’è anche il Chiaretto Spumante) e in più la possibilità offerta da molti produttori di comparare la nuova annata con quella del 2008, portando a quasi duecento i vini offerti complessivamente in assaggio. Il tutto ad ingresso libero. Una possibilità straordinaria per chi voglia conoscere da vicino una delle denominazioni storiche del territorio veneto (la doc è stata fra le prime d’Italia, nel 1968), ma anche per avvicinare una realtà che non risente affatto della crisi economica globale.
Al banco d’assaggio allestito domenica 7 marzo nello storico edificio veneziano della Dogana di Lazise (l’iniziativa, organizzata dal Consorzio di tutela del Bardolino, si avvale del supporto del Comune di Lazise, della Regione Veneto e della Provincia di Verona) saranno gli stessi produttori a servire e presentare al pubblico i loro vini, affiancati dai sommelier della delegazione Ais di Verona. All’esterno, sul lungolago, uno spazio food allestito da Provincia di Verona Turismo per conto dell’Assessorato provinciale alle politiche per l’agricoltura: la risotteria sfornerà a ritmo continuo il classico risotto all’isolana realizzato con il riso Vialone Nano Veronese igp, mentre una serie di stand proporrà alcuni dei gioielli dell’agroalimentare scaligero, in.primis il formaggio Monte Veronese dop, che ha più volte affiancato il Bardolino nelle campagne di promozione realizzate nell’ultimo anno.
Info www.ilbardolino.com

27 febbraio 2010

Südtirol St. Magdalener Häusler 2006 Kellerei Tramin

Angelo Peretti
Sì, mi piace la Schiava, mi piace il vinino degli altoatesini, ché quand'è fatto bene, be', ti offre una beva che è frutto e spezia e freschezza e soddisfazione, e se poi ci hai anche un pezzo di speck, per non dire qualche altra pietanza sudtirolese, allora è tripudio.
Avevo però il dubbio che le Schiave potessero durar pochetto in bottiglia, e allora qualcheduna l'ho messa da parte, come questa della Cantina di Termeno: un Santa Maddalena del 2006, tastato adesso. E devo dire con soddisfazione piena. Durano, sì, durano il giusto.
Ora, il colore era tipicamente scarichino, da Schiava, appunto.
Ed altrettanto varietale ecco che l'ho trovato questo vino al naso, con quelle intriganti memorie di arancia rossa che ti mettono in crisi sapendo che hai nel calice un vino dell'Alto Adige e ci ritrovi profumi che sanno di Sicilia. In più, un che di verde quasi erbaceo, e anche questa è tipicità. E poi una speziatura elegante.
In bocca, perfetta continuità. E buona beva. Succosa.
Un 2006 ancora piuttosto giovani. Ripeto: dubbio risolto, ché ce la fanno, le buone Schiave, a reggere qualche anno con nonchalance.
Due lieti faccini :-) :-)

26 febbraio 2010

Dal primo marzo si gioca on line con WineSurf

Angelo Peretti
Lo so, sono in palese conflitto di interesse. Ma l'idea di Carlo Macchi e del team di WineSurf (avete visto la nuova veste grafica?) mi è proprio piaciuta, e allora mi permetto di rilanciarla anche su InternetGourmet: un gioco interattivo on line per eno-appasionati.
Dove sta il conflitto d'interesse? Sta che - molti lo sanno - m'occupo del Consorzio del Bardolino, e ci ho messo un minuto a decidere d'aderire quand'ho visto la mail con la quale Carlo proponeva l'idea. Troppo bella, simpatica, friendly. Così, la prima organizzazione a mettere a disposizione un premio per il gioco: 48 bottiglie e un fine settimana sul lago di Garda per venire a ritirarle.
Come funziona la faccenda lo spiega WineSurf sulle sue pagine.
Cerco di riassumere, sperando di non sbagliare. Occorre andare a cercare sul wine magazine alcune pagine che parlano del vino o della denominazione che collabora col gioco (in questo caso, appunto, il Consorzio del Bardolino, ma poi ne seguiranno altri, a cominciare dal Consorzio del Soave). Lì ci sarà un banner da cliccare per andare a una pagina del sito consortile. Il primo che individuerà le pagine di WineSurf e le corrispondenti pagine del sito consortile si aggiudicherà il regalo.
Semplice, ma finora non ci aveva pensato nessuno. O almeno credo. Ed è una novità per il mondo dei web magazine e dei wine blog.
E scusate l'invasione di campo.

Ma le doc coi vitigni internazionali resisteranno allo scossone ocm?

Angelo Peretti
Nei giorni scorsi son tornato sulla faccenda della nuova ocm del vino, che di fatto ha accresciuto per i produttori l'appetibilità della categoria dei vini da tavola, quasi in contrapposizione con i vini a denominazione o ad indicazione (i doc e i docg son diventati di fatto entrambi dop, gli igt ora sono assimilati agli igp). Insomma: se a fare vini a denominazione ti trovi legato da lacci e laccioli e ti tocca tirar fuori un sacco di quattrini per le certificazioni, perché mai - soprattutto nel caso tu abbia un marchio abbastanza conosciuto - non dovresti passare a fare un vino da tavola, ora poi che è consentito scrivere anche l'annata in etichetta? Certo, non puoi scriverci i nomi dei vitigni utilizzati, a meno che quei vitigni siano gl'internazionali, come lo chardonnay o il cabernet. E a questo proposito credo che una riflessione dovrebbero farla soprattutto coloro che regolano le (tante) denominazioni che prevedono i vini varietali di stampo, appunto, internazionale. Tutte quelle doc, insomma, che sono nate fra gli anni Ottanta e i Novanta - sull'onda della travolgente infatuazione per lo stile americano - che son gonfie, appunto, di cabernet o di merlot. E magari in zona anche - come si suol dire - vocate, perché no. Ma poco importa.
A costoro domando, in primis: si sarà in grado di resistere alla fatale attrazione del vino da tavola?
E ridomando: perché mai a un produttore d'un attuale cabernet doc non dovrebbe saltare in mente di fare in futuro lo stesso cabernet "da tavola" se questo gli evita un sacco di spese e di carte?
Credo - temo - ci sia una sola chance per "salvare" quelle doc: investire in comunicazione sulla denominazione a tal punto da farla diventare "irrinunciabile", perché capace di conferire un reale, tangibile plusvalore commerciale al vino e al suo produttore. Ma credo - temo - che qui il cane si morda la coda: se la denominazione è piccoletta ed ha poco blasone e poca storia, perché mai i produttori del posto dovrebbero tassarsi per investire sulla denominazione se con gli stessi soldini, più quelli risparmiati con la mancata certificazione, possono farsi promozione per conto loro, focalizzando la spesa sul proprio marchio?
Tempi duri per le doc.
Photo: www.freefoto.com

25 febbraio 2010

Olio extravergine di oliva Laghi Lombardi Sebino Alarico 2009 Il Castelletto

Angelo Peretti
Credo di non offendere nessuno se dico che Scanzorosciate, provincia di Bergamo, non è certamente uno dei paesi olivicoli più noti d'Italia o quanto meno di Lombardia. Non è notissimo - me lo perdonino i produttori del posto - neppure il Moscato che fan da quelle parti - quello di Scanzo -, figurasi l'extravergine.
Eppure l'olio che mi son trovato a tastare è d'una microazienda oliandola appunto di Scanzorosciate: si chiama Il Castelletto. Gli ulivi son su due ettari. Altri quattr'ettari all'incirca di terra - l'ho letto su internet - sono dedicati alla vigna, e ci si fa, appunto, il Moscato di Scanzo.
Qui mi occupo dell'extravergine, e vedo che è certificato sotto la dop dei Laghi Lombardi, sottozona del Sebino (leggasi lago d'Iseo, Lombardia).
L'hanno intitolato, l'olio, al re Alarico: storia medievale, per chi vuol approfondire.
Orbene, il 2009 ha colore giallo lievissimamente sfumato nel verde.
Eppoi naso da mandorla dolce, oliva matura, un po' di vaniglia perfino, pomodoro maturo.
La bocca è come te l'aspetti: tendenzialmente dolce, ancorché sul fondo ci sia un piacevole substrato lievemente amaro. Un che di carciofo, accennato.
Stupisce la piccantezza un po' ruvida, che comunque dà slancio a una pasta di delicata impronta.
Emerge il pepe. E il finale è poi ancora dolce, sui toni della nocciola e del mix di frutta secca. Ed è livemente astringente.
Due lieti faccini :-) :-)

24 febbraio 2010

Franz Haas, che vuol fare un Pinot Nero che sa di Pinot Nero

Angelo Peretti
A chi non conosce quella brutta bestia del pinot nero (vitigno) magari può sfuggire la straordinaria sfida che un produttore accetta d’affrontare quando si mette a tirarne fuori il vino, con le maiuscole: il Pinot Nero. Se poi quello ti dice: “Vogliamo fare un Pinot Nero che sia Pinot Nero, che sappia di Pinot Nero”, allora s’è proprio messo in un progetto di quelli da far tremare i polsi. Mica facile, se non stai in Borgogna, la patria del pinot noir, e anche là dipende dalla vigna, dal crû. “Ma non vogliamo scimmiottare la Borgogna”, specifica il vignaiolo in questione, e dunque pensi che deve avere un carattere e una determinazione non da poco, ché i duri, si sa, escono fuori quando il gioco si fa, per l’appunto, duro, e questa è un’impresa di quelle titaniche.
Sta di fatto che lui, Franz Haas, è effettivamente uno di quelli che in Italia il grande azzardo di coltivare il pinot nero se l’è preso. E da vent’anni ci fa vino, lassù a Montagna, Alto Adige. I suoi fan dicono che il suo è un Pinot Nero che riesce a sapere di Pinot Nero, ed è un complimento di quelli che credo lo lascino bello contento, anche se lui taglia corto: “Il vino se è buono è buono, e se non è buono possiamo discutere il perché, ma faccio fatica se si cerca di aggirare il problema”.
L’ho incontrato, insieme ad altri colleghi che scrivono di vino (la foto che qui lo ritrae è stata scattata da Gianpaolo Giacobbo, che ringrazio), nella sua casa altoatesina: sul tavolo otto annate dello Schweizer, il Pinot Nero di vertice di casa Haas. Un assaggio in verticale per fare il punto su vent’anni di confronto-scontro con uno dei vitigni e dei vini più sfidanti che ci siano. Il segreto? “Mettere il vigneto in equilibrio”, azzardo. Lui sorride e conferma: m’è andata bene.
“Con il 2007, l'ultima annata uscita – ha spiegato Franz –, abbiamo fatto i vent’anni di pinot nero. In tutti questi anni ci ha fatto tribolare parecchio, e abbiamo dovuto cambiare molte cose, anche se il vero cambiamento lo faremo col vino del 2009, perché inizieremo un nuovo ciclo”. Et voilà, si guarda avanti. Altro che traguardo.
E c’è anche una sfida nella sfida: tappare il Pinot Nero con lo Stelvin, il tappo a vite. Franz ci crede, tant’è che lo stesso Schweizer del 2007 l’ha messo in bottiglia, sperimentalmente, un po’ col sughero e un po’ con la capsula avvitata: un identico lotto di vino finito con due tappature diverse, per vedere come reagisce. “Il tappo a vite secondo me sarà la chiusura del futuro” afferma perentorio, e s’infervora ad esaltarne le qualità. Chi mi legge usualmente sa che per le mie orecchie quest’è proprio musica.
Ora, l’ho tirata un po’ per le lunghe. E scrivo dunque degli otto vini tastati. O meglio, comincio dai primi due: gli Schweizer del 2007, quello a vite e quello nel sughero. Assaggiati senza sapere quale fosse la chiusura. Sono lo stesso vino - esattamente lo stesso lotto, insisto -, ma sembrano diversissimi.
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 2007 campione n. 1 Bel colore, brillante, pinoteggiante. Al naso è del tutto varietale, pulito. Ti aspetti un vino che abbia bella beva e infatti in bocca eccolo fresco, sapido, nervosissimo. Da attendere per chi vuole che gli spigoli si smussino, ma certamente del tutto bevibile già da subito.
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 2007 campione n. 2 Il colore ricorda il primo, ma il naso è più chiuso, sulle note del pepe, anche se la varietalità l'avverti. S'apre lentamente verso il piccolo frutto maturo. In bocca è un bel confronto fra materia e freschezza. A tratti ha vene erbacee, a riprova della giovinezza. Da aspettare.
Franz ci chiede quale sia il vino in sughero e quello a vite. Dico che il primo è in sughero e il secondo in Stelvin, ché il primo è più pronto, più immediato (e dunque, a mio avviso, a costo d’essere smentito dalla scienza, quello che ha comunque avuto un’ossigenazione post imbottigliamento). C’indovino. Dico anche che se volessi uno dei due da bere subito, scelgo il primo, mentre l'altro lo metterei più volentieri a riposare in cantina.
Adesso gli altri sei vini tastati, e qui dico come la penso mediante i miei faccini.
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 2003 Il colore tende al porpora. Al naso, subito il fruttino stramaturo, quasi in confettura. In bocca un'alcolicità che tende a chiudere il frutto, a mettere in luce la vena amaricante del tannino. Tipicamente da estate calda. Il meno pinoteggiante della serie.
Un faccino :-)
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 2002 Colore scarico, bello. Al naso dapprima è ritroso, terroso, ma poi ecco in progressione la spezia e il frutto. Rusticamente vellutato: morbido, ma nel contempo graffiante di freschezza. Darà il meglio di sé fra qualche tempo, ma se l’assecondi t'affascina. Pensate: nebbioleggia perfino un po'...
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 2001 Colore leggermente carico, ma cristallino. Si presenta con lentezza, aprendo su vene tra lo speziato e l'animalesco, che via via lasciano spazio alla speziatura dolce. In bocca è d'assoluto fascino: fruttino maturo e succoso, fragola, ciliegia. E freschezza. Sulla rampa di lancio.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 1996 Qualcuno l’ha bastonato. Appena versato è risultato sgraziato, rusticissimo, colmo di tratti terziari. Freschezza indomita, tannino verde. Che fatica che fa il frutto, travolto da un carattere spigolosissimo! Suggerisco lo si debba attendere. Dopo due ore, infatti, un po’ si plasma.
Un faccino e quasi due :-)
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 1993 Pronto da bere. Colore che tende all'aranciato. Profumi eleganti, a tratti quasi decadenti, con la frutta macerata, il fiore appassito, la terra rossa. In bocca è dinamico, col quel fruttino in composta, la spezia dolce, il kirsh. Magari è poco borgognone, ma è davvero un buon vino.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Alto Adige Pinot Nero Schweizer 1991 Il più evoluto, ed è affermazione ovvia, visto ch’è il più vecchio. Lento nel concedersi, rimanda a spezie pepate. A tratti ha vene ossidative. La nota rugginosa, fors'anche metallica, tende a prevalere sul frutto, che ricorda vagamente la melagrana. Tannino rugoso.
Un faccino :-)

23 febbraio 2010

L'avanzata dei vini da tavola

Angelo Peretti
Tocca ripetermi, nel più classico dei "l'avevo detto". Il 6 settembre avevo pubblicato un post che titolavo "Ma il mondo del vino si è accorto del ciclone ocm?" Be', credo che pian piano se ne stia accorgendo. E fra un po' si rischia che se n'accorga fin troppo.
La questione è il cambiamento radicale d'una tipologia ora "no limits": quella dei vini da tavola.
Ricordavo che con le novità introdotte dal primo d'agosto a seguito della nuova organizzazione comune di mercato, i vini da tavola potranno scrivere in etichetta l'annata e anche il vitigno, se si tratta d'internazionali. Chiosavo che la faccenda "potrebbe stimolare la fuga dalle denominazioni". Scrivevo: "Mettiamo che ci sia un'azienda dal marchio molto, molto noto. Chi glielo fa fare a questa di continuare a imbottigliare il proprio vino col nome della doc o sotto le nuove norme dell'igt? Adesso che in etichetta può scrivere annata e vitigno, tanto vale che faccia un vino da tavola. Senza alcun controllo, a costi nettamente inferiori, con una flessibilità operativa (capite cosa voglio dire?) incredibile".
Mi sono autocitato perché sull'argomento è entrato il numero 52, appena uscito, dei Quaderni di Wine News. Che ricorda come nel Sessantotto - che fu l'anno della nascita delle prime doc - abbia visto la luce il primo dei futuri Supertuscan, il Sassicaia. Poi, a partire dal '92, i vini da tavola "importanti" man mano son diventati ad indicazioni geografiche tipica, e qualcheduno da lì è passato alla doc. Magari costruita più o meno "ad personam": ri-cito il Sassicaia, per il quale è riconosciuta nella doc Bolgheri una specifica sottozona (alla faccia del "sotto": mai come in questo caso definizione fu meno consona, ché verrebbe da dire "soprazona"). "Ma oggi - scrive Wine News - i vini da tavola potrebbero conoscere una seconda giovinezza in una sorta di clamorosa 'madre di tutti i paradossi'. Già, perché i vini igp (che assorbiranno le vecchie igt) saranno soggetti a controlli analoghi a quelli dei vini dop (docg + doc), lasciando i 'creativi' delle aziende vitivinicole italiane senza la tradizionale libertà d’azione, in qualche misura, garantita dalle vecchie igt".
Fin qui concordo, ed è esattamente quant'ho già scritto anch'io a settembre. Ho invece dei dubbi sull'intonazione da dare alle conseguenze di questo rinnovato interesse per la tipologia "da tavola". Wine News dice: "Ecco allora profilarsi all’orizzonte una rincorsa al gradino più basso della piramide della qualità per produrre vini di qualità, come accadde 42 anni fa (forse, però, con qualche buona ragione in più), in una sorta di ritorno al passato, che pare essere molto più semplicemente una fuga dai controlli".
Ecco: a mio avviso è vera l'ultima parte, la fuga dai controlli, foss'anche solo per risparmiar quattrini, quelli delle certificazioni. Ho invece serissimi dubbi che il passaggio al vdt sia generalmente orientato a "produrre vini di qualità, come 42 anni fa". Perché oggi la vitivinicoltura italiana non è più quella arcaica e lutulenta di quarant'anni orsono, e si può - volendo - far grande qualità anche all'interno della doc, enfatizzandone i caratteri di terroir. Ammesso che il disciplinare non sia così cervellotico da impedirtelo, ché allora sì comprenderei la fuga pressoché obbligata verso il "tavola".
Ma nella gran parte dei casi, ritengo che il passaggio alla categoria dei "vini da tavola" sarà dettato da una scelta economica: pagar meno oneri agli enti certificatori, ché tanto se hai un tuo marchio famoso vendi lo stesso, e magari puoi anche esser più liberi di "migliorare" il vino a tuo piacimento, andando a comprarne gli "ingredienti" dove più t'aggrada e meno ti costa.
Ma non c'è solo questo: ne parlerò più avanti.
Photo: www.freefoto.com

22 febbraio 2010

Tarallini Gay-Odin

Angelo Peretti
Probabile che mi legge li conosca già, soprattutto se bazzica dalle parti di Napoli. Per conto mio, i tarallini di Gay-Odin li ho scoperti da poco, in un piovoso pomeriggio napoletano, nel punto vendita quasia all'inizio di via Toledo, dietro la galleria. E ne sono rimasto affascinato.
Gay-Odin è l'insegna d'una cioccolateria. A Napoli ce ne sono più succursali, ma ne trovate anche a una a Roma e un'altra a Napoli. Fanno una serie di cioccolatini che uno tira l'altro. Per esempio gl'incantevoli albanesi, con dentro la ciliegia (con tanto di nocciolo) e il liquore che - dicono in bottega e scrivono sul sito - è allo sherry (ma sarà mica invece al cherry, cioè al liquore di ciliegia? mah, mi resta il dubbio). Ma sono stati soprattutto i tarallini ad ammaliarmi.
Ammaliare: verbo antico, desueto. In realtà, stavo per scrivere "stregarmi", ma sarebbe sembrato un gioco di parole, ché quest'incantevoli, eleganti tarallini son degli anelli di sottilissimo cioccolato ripieni di liquore Strega.
Buonissimi, e appena torno a Napoli ne faccio una nuova scorpacciata.

21 febbraio 2010

Champagne Brut Rosé Sélèque

Angelo Peretti
Non sono un fan scatenato dello Champagne in versione rosa. Preferisco la tradizionale interpretazione in bianco, soprattutto se viene da uve nere, dal pinot. Però ogni tanto mi faccio tentare da qualche bottiglia rosatista. E così è accaduto per questo Champagne Rosé etichettato da Sélèque.
Leggo sul sito della maison che il vino nasce da un assemblaggio di un novanta per cento di chardonnay con un po' di pinot noir vinificato in rosso. E che un dieci per cento d'entrambi i vini destinati alla cuvée s'affina in botte di rovere "pour apporter rondeur et vinosité".
Ordunque, di vinosità in effetti ce n'è, e di rotondità anche. E c'è pure un bel fruttino: direi ribes, soprattutto, e un che di fragolina di bosco, vagamente acidula.
Ma soprattutto ad avermi favorevolmente colpito è stata la cremosità. Velluto, ecco, è proprio di velluto 'sto Champagne rosato. Carezzevole.
Si beve che è un piacere, ed accompagna l'aperitivo, l'antipasto, lo spuntino, ma anche la chiacchiera disimpegnata. Da ricordare per l'estate che verrà.
Due lieti faccini :-) :-)

20 febbraio 2010

Oh, la mineralità cos'è?

Angelo Peretti
Sissignori, mi piace il vino che esprime mineralità. E qui lo so che ci sarà chi è pronto a saltar su a darmi del modaiolo, a mettermi nella schiera di quelli che si son convertiti al credo della mineralità dopo che son passati di moda la barrique e il cabernet e il fruttone e il vino palestrato e chi più ne ha più ne metta. E so anche che un’excusatio non petita è un’accusatio manifesta, ma siccome della questione ne scrivo da un bel po’ d’anni - degl’idrocarburi del Lugana, per esempio, da anni et annorum -, e quei vini mi piacevano anche quando eran fuori moda (e quegli altri non mi hanno mai esaltato, io che son per la piacevolezza dei vini da bere, per il vinino), be’, lo dico e lo ribadisco: mi piace il vino - e soprattutto il vino bianco - che esprima mineralità.
Il problema semmai è: cosa significa che un vino è minerale? Gl’illuministi della degustazione, i razionalisti dell’assaggio rifiutano anche solo l’idea che un vino possa essere influenzato da sentori minerali, e dicono - vabbé, semplifico - che un sasso non sa di niente, e dunque è impossibile definire un sapore o un odore come - appunto - minerale.
Ora, sfogliando l’ultimo numero di Wine Spectator, ci ho trovato una prima risposta al quesito di cosa significhi l’esser minerale d’un vino. La dà James Molesworth, che sulla rivistona a stell’e strisce ci ha una rubrica dal 1997, mica da ieri.
Dice, grosso modo: “Nel mio vocabolario, ‘mineralità’ significa il comunicare un qualunque carattere distintivo non fruttato del vino”. Bene.
Spiega anche che, camminando le vigne di mezzo mondo, e dunque i suoli calcarei e argillosi e scistosi e via discorrendo, s’è accorto che poi i vini che da quei suoli venivano trasmettevano un certo qual carattere - appunto - distintivo che non era spiegabile se non con un termine come “mineralità”. O forse - puntualizza, e ha ragione - si dovrebbe dire che quel carattere lo si trova nel vino migliori di quei territori. Bene di nuovo, dico.
Sono d’accordo. Ma farei una precisazione. Per me, la mineralità d’un vino è quel qualcosa che non puoi spiegare né con le categorie del fruttato, né con quelle del vegetale, sia dunque che si tratti d’una vegetalità fresca, floreale od erbacea od officinale, sia che si tratti di essenze conservate, come le spezie (pepe, cannella, chiodo di garofano e via seguitando). Dunque, quel che non mi ricorda il frutto, il fiore, il vegetale (fresco e essiccato), rientra in qualche modo in quel campo del mistero enoico che potrei definir minerale, e che contribuisce a raccontare l’anima del terroir, che non è assolutamente da confondere - come i fautori del razionalismo vorrebbero - né col suolo, né col territorio.
Ribadisco: sto dalla parte della mineralità.

19 febbraio 2010

Cristiana Meggiolaro e un sogno nato a Gambellara

Mauro Pasquali
Quando due ragazzi giovani decidono di dare corpo ad un sogno, spesso devono fare i conti con le concretezze quotidiane, con la realtà che non sempre è benigna, con i piccoli problemi di tutti i giorni che gradualmente rischiano di far spegnere la fiamma che porta a sognare e mantiene vivo il sogno. Sia che il sogno significhi una vita insieme, sia che, più concretamente voglia identificare la realizzazione di un progetto lavorativo.
Cristiana Meggiolaro e Riccardo Roncolato il loro sogno lo stanno realizzando quotidianamente, nella vita come nel lavoro. Con loro non riesci a capire dove finisce il sogno privato, personale e dove inizia quello pubblico, lavorativo. O, forse, è proprio questo che rende particolare ed unico il loro progetto.
Quattro ettari e mezzo di vigneti abbarbicati in una delle più belle zone viticole di Gambellara: il Monte Calvarina. Più un ettaro, che entrerà in produzione fra un paio d'anni, nella stessa zona ma in comune di Roncà, terra di Soave, giusto per continuare a tenere accesa la fiamma del sogno.
Un territorio straordinario che loro, grazie al loro sogno ma anche a tanta pazienza e a tanto lavoro, sono riusciti a racchiudere nei loro vini. Due soli, per ora, ché il Recioto ha bisogno di tempo, amore e tranquillità per essere pronto.
Due vini che racchiudono tutte le potenzialità di questa zona, seconda a nessuno. Due vini con un unico filo conduttore, ma personalità completamente diverse. Due vini che, alla loro prima uscita, si collocano subito ai vertici qualitativi della zona.
Se questi sono i risultati di chi sogna, ci vorrebbero più sognatori in questo mondo. Ci vorrebbero più persone disposte a rischiare, inseguendo un ideale, un sogno, trascurando critiche, consigli, ammonimenti. Di persone posate e concrete è pieno il mondo, per cui: grazie a chi ancora ha il coraggio di sognare!
Gambellara Classico 2008 Cristiana Meggiolaro
Si apre con un naso di una freschezza e mineralità sorprendenti. Sasso moro, tufo, fra cui emergono sentori di mandorla e pera. In bocca la freschezza e la sapidità si accompagnano ad un frutto molto elegante. Finisce lunghissimo con una bocca bella pulita.
Due beati faccini :-) :-)
Gambellara Classico Ceneri delle Taibane 2008 Cristiana Meggiolaro
Le Taibane è la zona in cui sono collocati i vigneti. Le ceneri quelle del vecchio vulcano spento che donano a questo vino la sua spiccata mineralità. Ancora parzialmente nascosta, per la verità, dai sentori fiori bianchi, gelsomino soprattutto. Le note salmastre, quasi saline, ne fanno un vino complesso, per il quale cui intravedo un futuro particolarmente longevo. Un vino che darà il meglio di se fra tre/quattro anni.
Due beati faccini, quasi tre :-) :-)

18 febbraio 2010

Alto Adige Pinot Nero 2006 Franz Haas

Angelo Peretti
Potrà anche sembrare un'affermazione ovvia e scontata, ma io dico che da un Pinot Nero m'aspetto che prima di tutto mi ricordi un Pinot Nero. E purtroppo così scontato non è, ché troppo spesso si son visti negli ultimi anni dei Pinot Neri che erano scurissimi e quasi impenetrabili e a tratti marmellatosi e ipertannici e alcolici. Insomma, nulla a che vedere con l'eleganza, la finezza, la nobiltà ch'è tipica del vitigno e del vino che se ne dovrebbe trarre. Ed è stata una driva che ha intaccato anche la madrepatria Borgogna, dove però mi pare che ci si sia rimessi in carreggiata, e che ha comunque contagiato molte cantine che si son cimentate con l'uva borgognona fuor di Borgogna.
Detto questo, aggiungo che gioisco quando - appunto - fuor di Borgogna mi ritrovo nel bicchiere, appunto, un Pinot Nero che somiglia a un Pinot Nero, e questo m'è accaduto di recente stappando una bottiglia del 2006 "base" di Franz Haas, nume fra i produttori pinot-noiristi d'italico confine e in questo caso di sudtirolese terra.
Bello già nel colore, per niente carico, giustappunto pinoteggiante.
Poi eccolo varietale al naso, con quel suo tipicissimo fruttino e la sua bell'eleganza.
Al palato è piacevolezza di beva (i tredici gradi e mezzo d'alcol non li avverti), fruttino, spezia, freschezza.
Due lieti faccini :-) :-)

17 febbraio 2010

Olio extravergine di oliva Garda Trentino 2009 Agraria Riva del Garda

Angelo Peretti
Accidenti, ma che succede sul Garda Trentino? Delle due l'una: o si son trasferiti tutti armi e bagagli a latitudini più basse - molto più basse - oppure han preso una passionaccia per l'olio di qualutà che ha davvero (credetemi) pochi eguali in Italia. Già, perché in questo lembo di terra benacense - quella che vien detta La Bùsa, La Buca - dove impera la casaliva, oliva gardesana, stan tirando fuori degli extravergini sempre più eleganti, sempre più ricchi di personalità, sempre più fascinosi. E siamo a nord, terribilmente a nord per l'ulivo. E di olio se ne fa una goccia.
Ora, che il rinascimento oleario tridentino avesse come capiscuola dei piccoli produttori che - costi quel che costi, e costa molto - s'eran messi d'impegno a tirar fuori oli d'eccellenza in quantità poco più che amatoriali - e comunque reperibili sul mercato, si badi - ci stava ed era anche abbastanza logico, ma che addirittura l'Agraria rivana, realtà consortile da decine e decine e decine di soci micro-olivivoltori, abbandonasse gli standar stra-tradizionali dell'olio dolce e leggerino per passare a fare un extravergine di grande carattere, be', è evidenza che accolgo con gioia.
Nuovissimo anche nel packaging, davvero moderno ed elegante in quanto a etichettatura, il dop dell'Agraria ha un bel colore verde smeraldo tenue, brillantissimo. Al naso, erbe di campo, tarassaco, carciofo, fruttato di oliva verde. In bocca la pasta è d'impianto sì leggero, ma ha gran carattere, tant'è che da subito s'avvale di una bella spinta piccante, che rafforza e amplifica la sensazione amara di cardo, rucola, tarassaco.
Notevole la lunghezza, impressionanti la spinta piccante e la vena amara.
Una sorpresa, un cambio di rotta.
Quasi incredibile, considerate oltretutto le evidenti complessità di coordinamento dei tanti e tanti piccolissimi soci.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

16 febbraio 2010

Il gatto e la cocaina

Angelo Peretti
La storia la conoscete, credo, meglio di me che frequento poco la tv. Insomma, Beppe Bigazzi alla Prova del Cuoco dice che in passato ha mangiato il gatto - e spiega come - e lo cacciano dalla trasmissione.
Ora, sì, credo anch'io che il Bigazzi abbia sbagliato: i gatti si mangiavano quando la fame era fame vera, e ci si moriva di fame, ma oggi le cose non diverse, e tanta gente vive sola e ha come unica compagnia un gatto o un cane, e i sentimenti si posson ferire.
Però...
Però qualcosa non mi quadra.
Se dici che hai mangiato gatto sei un lazzerone da radiare dal pubblico consesso.
Se bevi due bicchieri di vino sei un delinquente da codice penale e ti levan la patente.
Se fumi cocaina sei una star di prima grandezza e t'invitano perfino a Porta a Porta.
Guardate: non mi quadra.
O forse mi quadra fin troppo.

Soave Classico Monte Grande 2005 Prà

Mario Plazio
Un vino che è divenuto un "classico". Uno dei bianchi italiani maturati in botte di medio contenuto che più impressiona per continuità negli ultimi 10 anni.
Come si comporta questo 2005? Si percepisce un inizio di evoluzione accanto a decisi aromi di frutta matura e a una mineralità che sfuma verso il sulfureo.
Alla prova dei fatti, pur se godibile, sembra non ancora assestato. Ad una parte polposa e matura, quasi sferica, si oppone una vibrante acidità che però non si integra con il resto del vino. Non è chiaro se siamo di fronte a un peccato di gioventù che il tempo saprà risolvere, oppure se la maturazione in legno ne abbia in qualche modo bloccato la spontaneità.
Non che il legno sia sovrastante, anzi si nota poco. Certo è che al momento le varie parti giocano da sole, non formano un insieme in grado di esprimere un valore più alto.
Da risentire sicuramente tra 4 o 5 anni.
Due faccini scarsi scarsi :-) :-)

15 febbraio 2010

Quale futuro per il Durello?

Mauro Pasquali
Non si può certo dire che il Consorzio del Durello, nonostante la piccola dimensione della doc e il fatto che questa è compressa fra un colosso come la zona del Soave ed una emergente come quella di Gambellara, non si faccia notare! Non bastassero giornalisti, wine blogger e opinionisti (si dice così, vero?), anche il Consorzio si interroga e si domanda: quale futuro per il Durello?
Ma credo che il Consorzio ed i produttori prima di tutto si siano domandati e si stiano domandando: esiste un futuro per il Durello? Non vorrei essere frainteso: un futuro il Durello lo ha eccome. Se non altro per la capacità di passare in una decina d'anni da 50mila a 500mila bottiglie vendute nelle varie versioni. Se non altro per la capacità di trasformarsi da vino aspro e duro in vino che “se lo conosci non puoi non innamorartene”. Se non altro perché, ultimo ma non meno importante: il Durello piace ed assai!
Il futuro che mi domando (e credo se lo siano domandato anche i produttori) se esisterà per il Durello è un futuro ben identificato e che continui a evidenziare quella forte personalità che contraddistingue il Durello. Mi spiego meglio: possiamo inseguire le mode e possiamo scimmiottare altre grandi produzioni, oppure possiamo valorizzare ed esaltare le caratteristiche peculiari del Durello. Possiamo produrre un vino che imita altri prodotti oppure produrre un vino che si faccia riconoscere, anche con qualche difetto, ma, sempre e comunque un vino fortemente caratterizzato e che identifichi e sia identificato dal territorio in cui nasce.
Il disciplinare cambia nuovamente, ci dice Aldo Lorenzoni, direttore del Consorzio del Durello. La terza volta in pochi anni. Certamente il mondo del vino è fortemente cambiato dalla fine degli anni Novanta e forse occorreva fare qualcosa. Finalmente, dopo anni, il territorio, gli uomini, il vino cominciano a contare più dell'etichetta, del blasone. E questo credo - mi auguro - sia stato lo spirito che ha portato ad individuare la necessità di questa revisione. E far nascere due disciplinari: uno per il Lessini Durello ed uno per il Monti Lessini. Il primo regola la produzione delle varie tipologie di Durello, dove l'uva durella deve essere presente almeno all'85%. Il secondo disciplinare regola la produzione degli altri vini: bianco con almeno il 50% di chardonnay e rosso con almeno l'85% di pinot nero.
Che dire? Che forse è mancato un po' di coraggio. Il coraggio di fare un Lessini Durello solo in purezza o, al massimo, di aggiungere quel 15% di sole uve pinot nero. Rimango perplesso dal ventaglio di possibilità: garganega e/o pinot bianco e/o chardonnay e/o pinot nero. Quale sarà l'anima comune di ciò che ne deriva? Quale il comune denominatore di prodotti che avranno. almeno potenzialmente, molte differenze? E il consumatore, quando acquisterà una bottiglia di Durello, ricordando un certo vino che tanto gli era piaciuto e troverà un prodotto diverso (non meno buono: diverso), come reagirà?
Lasciamo tempo al tempo e proviamo ad immaginare il futuro. Un futuro che ben è stato delineato nel corso di una serata dedicata, appunto, al tema: “Il Durello: ieri, oggi e domani”.
L'occasione, ben ospitata nella splendida Officina di Gustolocale a Trissino, ha visto protagonista assoluto il Durello in tre versioni: fermo, spumante metodo italiano (o charmat) e spumante metodo classico. A condurre la serata l'amico Franco Ziliani, con la maestria e la verve che gli riconosciamo tutti.
Dirò diffusamente della versione ferma, la meno nota ed apprezzata, ma, non per questo quella da snobbare. Tre soli i vini e due soli i produttori, ché pochi vignaioli la fanno. Tre prodotti, però che incarnano, pur con le dovute e doverose differenze, l'anima del Durello. Perché di anima si tratta. Come non definire tale quella caratteristica che ho trovato comune a tutt'e tre i vini? Tre vini diversi ma altrettanto intriganti ed emozionanti. Del Durello di Sandro de Bruno ho già parlato a suo tempo: posso solo confermare le sensazioni che mi diede, esaltate ancor più dal tempo passato: il territorio, quella mineralità basaltica che emerge e mi fa subito pensare al Monte Calvarina. La freschezza e la sapidità che regalano grande finezza al vino. Anno dopo anno.
Del Durello Superiore di Casa Cecchin posso solo dire che è un vino che mi è sempre piaciuto e continua a piacermi: un bel profumo delicato ma deciso, la mineralità che esce ad ogni sorso.
Del Durello Pietralava, sempre di Casa Cecchin, ne parlo per la prima volta. Lo assaggiai in vasca, molti mesi fa e mi piacque. Poi, complice un imbottigliamento recente, rimasi perplesso: non lo riconoscevo più. E rimasi confuso: possibile che quel vino si fosse perso? Ora ho trovato il bandolo della matassa: il Durello è vino che abbisogna di lungo affinamento, anche in bottiglia, a dispetto di chi lo ritiene vino da pronta beva. Anche nella versione ferma: ecco trovato il filo conduttore e l'anima di questi Durelli. Un vino che comincia a dare il meglio di sé dopo mesi, anni dall'imbottigliamento e, quindi, una speranza e una richiesta ai produttori: lasciatelo dormire nelle vostre cantine e distribuitelo un anno dopo. Questo è il Pietralava, ma anche il Durello di Sandro de Bruno e anche quello Superiore di Cecchin: vini che, come tutti i grandi vini, cominciano a dare il meglio di sé qualche anno dopo la vendemmia. Così mi è parso il Pietralava: un vino che solo ora, ad un anno e passa dalla vendemmia, comincia a vivere ed ad emozionare.
Poi i cosiddetti “spumanti”. Concordo con Franco Ziliani: basta con questo termine! Basta con un nome che accomuna tutto e il contrario di tutto! Per cui, complice il nuovo disciplinare del Lessini Durello, d'ora in poi lo chiamerò Lessini Durello Metodo Italiano e Lessini Durello Metodo Classico.
Otto erano i vini in degustazione: quattro della prima tipologia e quattro della seconda, ché dei due intrusi, inseriti ad arte per far discutere, non parlerò. Bella la scelta di servire solo magnum: il formato che più si addice ai gradi spumanti (pardon!). Ancor più bella la scelta di servire i vini rigorosamente alla cieca: nessun cedimento all'etichetta e al nome del produttore.
Un filo conduttore credo di averlo trovato: la mineralità ed i sentori agrumati per i primi (metodo italiano) e l'acidità , la bella vena ossidativa (quasi da Champagne), ancora la mineralità e le note di frutta secca per i secondi (metodo classico).
Un elemento di disturbo: quanta variabilità in un prodotto che nasce in un fazzoletto di terra! Forse l'elemento cantina prevale ancora troppo sull'elemento territorio: quando (e se) i produttori riusciranno a non dimenticare (e alle volte a a non eliminare) le caratteristiche della durella, forse questo grande, splendido vino uscirà dal limbo provinciale (sempre per dirla con Franco Ziliani) e comincerà a fare (seriamente e non solo a parole) concorrenza agli altri grandi metodi classici.
Durello Lessini Spumante Brut Cantina dei Colli Vicentini
Al naso emergono sentori citrini e floreali accompagnati da bella vena acida. In bocca discreta mineralità con forse eccessiva morbidezza. Un bel vino da aperitivo.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Prime Brume Cantina di Gambellara
Bel naso minerale con vaghe note agrumate. In bocca leggera speziatura con un finale lungo dove emergono note di frutta secca.
Due faccini :-) :-)
Lessini Durello Spumante Brut Cantina di Montecchia di Crosara
Le bottiglie aperte presentavano purtroppo problemi ossidativi. Ricordo che lo assaggiai molti mesi fa e mi colpì, in una degustazione alla cieca, per il suo saper stare alla pari con più blasonati metodi classici.
Non classificabile
Lessini Durello Spumante Brut Cantina di Monteforte d'Alpone
Bel naso che gioca fra la florealità e la mineralità. In bocca delude un po': entra bello amarognolo ma finisce con una vena eccessivamente dolce.
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico Corte Moschina
Un appunto: peccato la mancata dichiarazione dell'anno della vendemmia. Ma è stato promesso che dal prossimo anno ci sarà. Al naso colpisce il bel bell'aroma floreale. In bocca è fresco e minerale. Denuncia l'eccessiva giovinezza: la durella è uva che deve rimanere sui lieviti molto a lungo…
Un faccino :-)
Lessini Durello Spumante Brut Metodo Classico 2005 Casa Cecchin
Al naso una leggera nota ossidativa accompagna la frutta secca e la prepotente mineralità. In bocca forse sconta una eccessiva invadenza del liqueur d'expédition che comunque svanisce presto a vantaggio di una grande sapidità ed armonia. Finale molto lungo e gradevole
Tre faccini :-) :-) :-)
Lessini Durello Etichetta Nera Riserva 2004 Fongaro
Bellissima nota ossidativa molto intrigante. Emergono note di frutta secca, crema, vaniglia. In bocca le belle note speziate denunciano l'uso sapiente del legno. Begli aromi di frutta matura. Finale lungo e gradevole
Due faccini e quasi tre:-) :-)
Lessini Durello Brut Metodo Tradizionale 2003 Marcato
Al naso frutta secca con preponderanza di nocciola e mandorla tostata. Costa di pane e vaniglia. In bocca discreta mineralità con eccellente equilibrio. Un eccellente prodotto ma forse il meno “durello” dei metodi classici degustati.
Due faccini e quasi tre :-) :-)

14 febbraio 2010

Non per amore di polemica: sulla comunicazione vinicola tradizionale e on line

Beppe Giuliano*
Non per amore di polemica, ma credo che l’editoria tradizionale vada difesa. Lo faccio volentieri in quanto come giornalista non di primissimo pelo, editore on e off line, una qualche idea su questo versante me la sono fatta. E debbo dire – ribadisco la premessa: ho stima e rispetto per quello che fate, per come lo fate, e in molti casi c’è di mezzo anche la personale amicizia - che questa discussione è tronca, è monca. Mi sembra che abbiate preso il peggio della gens italica che raccontate. La guerra è col vicino, quello del vigneto accanto, quello che vende una mezza paletta in Cina e voi no, quello che ha un articolo da qualche parte e voi no, quello che sbarca sul ripiano centrale di Rossetto e voi no… insomma, che ci sia acredine per una fetta di torta che è piccola e che, mannaggia, non riesco ad afferrare.
Così, ragazzi, non ci siamo.
Così buttiamo via occasioni. Mi ricorda le divisioni personali, atroci, che c’erano cinque anni fa fra i giornalisti veronesi del vino. Quasi odio personale. E infatti nel sistema-vino contavano di più altri.
Ribadisco, così è una minchiata. Mettiamo tutti da parte la spocchia sul personale status di “scrittore” e su quello che abbiamo professionalmente costruito sino ad ora, e guardiamo a quello che accade realmente.
È vero, la carta stampata soffre. Lo dicono i dati internazionali, ma non è un dogma di fede. Ci sono giornali, più vicini di quanto pensiate, che nell’annus horribilis del 2009 sono cresciuti di otto punti percentuali, con incrementi in edicola a due cifre molto importanti. La sofferenza ha molte cause: il fatto che un editore non operi in un mercato libero, ma che sia stretto da due monopoli – a monte, il cartello della carta (è così, in otto fanno il prezzo per tutto il mondo..); a valle, la distribuzione alle edicole, una sommatoria di monopoli locali - rende i suoi spazi di manovra molto stretti. Un editore tradizionale ha come compagni di viaggio due degli enti previdenziali e assistenziali più costosi ed efficienti in Italia: provate a saltare una rata dei contributi Inpgi e vedete che succede…
Il risultato è che un editore “deve” vendere il giornale ad un prezzo alto per un lettore italiano medio che ha visto negli ultimi dieci anni perdere tanto potere d’acquisto. E ancora, la pubblicità - quella per la quale, secondo voi noi ci vendiamo - copre oramai appena un terzo dei ricavi di un editore tradizionale; rispetto al passato mancano le pianificazioni di medio periodo. Tutto questo porta noi editori tradizionali a vivere alla giornata: ma non è una colpa, una lettera scarlatta!
È vero, Internet ha rappresentato un cambio di passo, e il futuro. Il nostro passaggio de L’Adige - ad esempio - da off a on line non è stato facile, però ha funzionato. E oggi non tornerei indietro. Ma il mercato dove operava L’Adige cartaceo era ed è tuttora presidiato da due quotidiani generalisti, da sei quotidiani free press e dal settimanale diocesano, due televisioni locali molto ben fatte e da due radio onnipresenti... Il web rispetto a tutto questo è una valida alternativa, lo ammetto.
Diverso sarebbe però per Euposia che, dopo nove anni, proprio oggi può cogliere nel mercato tradizionale i propri vantaggi competitivi.
Se comparo i costi delle due strutture, ovviamente, mi trovo davanti a cifre incredibilmente diverse.
Quello che però non cambia è l’approccio che una redazione giornalistica vera ha nei confronti della notizia e dei lettori: cambierà il linguaggio, ma il focus resta sulla notizia o sull’approfondimento che possiamo dare. Per chi ha tempo e voglia le collezioni storiche dei nostri giornali stanno lì a dimostrarlo.
La carta sottrae ancora risorse al web? Siamo dinosauri che sprecano energie a danno dei più efficaci mammiferi del web? La vostra vita dipende dalla nostra morte?
Se pensate davvero questo, offendete la vostra intelligenza.
Faccio un esempio: due colleghi che stimo, blogger fra i più accreditati, intuiscono che ad un certo convegno internazionale possono emergere notizie interessanti per il mondo del vino. Il web, questo grande free press dove il valore aggiunto degli autori non viene remunerato (vogliamo dircelo una buona volta?), non dà loro risorse per rientrare delle spese. Cosa che invece può, in parte, fare l’editoria tradizionale. Che ha avuto, in diretta, un prodotto editoriale da far girare sul web dando contenuti ai propri lettori, e - dopo - approfondimenti ulteriori per un’inchiesta che si sviluppa sull’off line. Dove può essere arricchita di ulteriori contenuti, testi, grafici, foto e può “restare” fisicamente sui tavoli dei lettori.
Cos’è allora? Tutte le obiezioni sui lettori della carta stampata e delle copie regalate solo per far numeri per la pubblicità non valgono più? Eppoi: la mia rubrica su e.polis fa due milioni di lettori al giorno, cos’è? Questi non contano? Avete più contatti voi di me al giorno? E se anche fosse così, e me lo auguro per voi, che problema ne deriverebbe? Nessuno. N e s s u n o.
La carta da giocare non sta nello scannarsi per conquistare quella piccola fetta che oggi è sul piatto, ma lavorare assieme per far crescere la torta. Dobbiamo lavorare sull’integrazione dei mezzi, per avere prodotti più freschi, originali, vere banche dati per i lettori, immagini, suoni… tutto disponibile su più piattaforme che lavorano assieme. Senza la componente editoriale, il nostro schifosissimo know how, rimarrete a raccontare - gratis - sul web il mondo del vino con tanti ringraziamenti da parte dei vignaioli, dei distribuiti e degli agenti… di tutta la filiera che guadagna, insomma, sulle spalle vostre.
Mi spiegate perché regalate il vostro ingegno? Non sarebbe più interessante, invece, provare a mettere assieme questi mondi che non sono separati se li guardiamo con l’ottica di un lettore moderno, evoluto, che usa internet per una cosa, ma non disdegna la televisione, la radio, una lettura più calma, meditata, davanti al camino, con un buon bicchiere di cognac in mano e una bella compagnia a fianco sul divano…?
C’è poi un altro aspetto che riguarda l’etica di questo lavoro e un minimo di deontologia. Tema che con Elena Amadini stiamo cercando di tradurre in un buon momento di analisi al prossimo Vinitaly: Angelo sostiene, e voi con lui, che l’anarchia, la democrazia diretta, è non solo tratto distintivo ma anche cuore pulsante della comunicazione sul web. Bello! Però noi “servi della pubblicità e del potere” quindi l’opposto dell’anarchia e della democrazia, rispondiamo con la nostra faccia, il nostro onore e il nostro patrimonio (come dicevano gli indipendentisti americani duecento anni fa) delle nostre idee e di quanto scriviamo. Ti senti offeso, danneggiato dal mio scrivere? Ebbene, io ci sono. Sono una persona fisica, sono una società che ha mezzi, capitali. Puoi avere soddisfazione.
Ma col web? Se un blogger mi diffama io che tutela ho? Se mette a rischio gravemente la mia attività su cosa mi posso rivalere? Sul televisore di casa sua? Sul quinto del suo stipendio?
Per fare questo mestiere ho dovuto fare un esame di Stato, magari non varrà niente, ma il codice civile e penale ho dovuto studiarmeli e così tante altre cose se volevo poter intervistare un Capo di Stato, un Capo di governo, un banchiere centrale, il capo militare del Sinn Fein o un imprenditore con 10mila dipendenti. Perché altrimenti non avrei neppure potuto iniziare una conversazione.
Tutto questo sta scritto dentro una testata che campeggia in prima pagina e che dice al lettore: magari per te sono un idiota, ma questo sono io, il mio giornale, le mie idee, la mia impresa.
Tornando a noi: non c’è contrapposizione, sono soltanto più lati di un poligono che possono essere collegati. Il poligono è il perimetro della comune competenza e passione e capacità di dare ai lettori valore aggiunto.
Io preferisco guardare alle opportunità che offre tutto questo se fosse messo a sistema e se, assieme, ci provassimo davvero. La piccola fetta sul piatto mi interessa relativamente. Ci punto perché a fine mese debbo pagare i conti come tutti. Ma mi resta un po’ d’appetito, ancora. Chi viene, allora, a cena con me stasera?
*Beppe Giuliano è il direttore della rivista vinicola Euposia e del settimanale L'Adige

13 febbraio 2010

Veneto Merlot 2008 Il Murale

Angelo Peretti
Di questa microazienda neonata so pochino. Non sapevo nemanco che facessero vino. Li ho conosciuti, telefonicamente e per email, per via dell'olio, che m'han sottoposto per gli assaggi della guida di Slow Food. E chiacchierando un po', mi han detto appunto che hanno anche vigna.
So che la vigna e gli olivi sono sul monte Calaone, che è uno dei rilievi vulcanici dei Colli Euganei. Che utilizzano i metodi dell'agricoltura biologica. E che la vigna è orientata ai vitigni rossi bordolesi, com'è consuetudine della zona. E che ho bevuto il loro merlot.
Ma come, un altro bordolese in terra euganea? Sissignori, un altro bordolese. Ma toglietevi dalla testa certi rossi polposi e muscolosi e legnosi: questo è un vino che se ne beve un bicchiere in fila all'altro.
Insomma: chi ha seguito qui e da altre parti sul web la mia teoria del vinino, ovvero dei vini che ancora affermano la piacevolezza del bere, capisce bene che qui stiamo parlando proprio di questo. E spero che quelli del Murale continuino a farlo così il loro merlot - e addirittura meglio -, con quel piccolo frutto succoso, quella spezia minuta, quella freschezza che ti soddisfa, quell'abbinabilità così ampia.
Ovvio, una rondine non fa primavera, dice il proverbio, e dunque dovremo vedere come se la saprà cavare cammin facendo questa nuova realtà dei colli patavini. Epperò se l'esordio è questo, io son contento.
Due lieti faccini :-) :-)

12 febbraio 2010

Ripeto: sarebbe meglio cambiare il metodo di degustare in anteprima

Angelo Peretti
Gli antichi dicevano che ripetere le cose aiuta, ma personalmente temo sia invece faccenda che rischia di rompere le scatole. In ogni caso, il rischio me l'assumo, e ripeto: sarebbe opportuno cambiare il metodo di presentazione dei vini durante le anteprime delle denominazioni che abbiano bottiglie "di spessore", destinate ad evolvere nel tempo.
Lo scrivevo dopo l'Anteprima dell'Amarone 2005 e lo ripeto a maggior ragione adesso, dopo che è passata anche l'Anteprima dell'annata 2006.
Dicevo un annetto fa che nella degustazione dell'Amarone avrei voluto (vorrei) maggiore omogeneità. Per aver la possibilità di cercare di trarre le migliori valutazioni che mi sia possibile, o quantomeno per tentare di commettere gli errori minori. "Vorrei cioè - scrivevo - che nella degustazione alla cieca gli Amaroni fossero suddivisi fra: vini già in bottiglia da più di 6 mesi; vini già in bottiglia da meno di 6 mesi e da più di 3 mesi; vini già in bottiglia da meno di 3 mesi; vini ancora in vasca".
Ripeto le stesse affermazioni - richieste, perorazioni - d'allora, essendomi fatto nuovamente e ancora di più convinto con l'ultima degustazione amaronista. Non c'è niente da fare: non è proprio il caso di far assaggiare comparativamente Amaroni così diversi tra di loro in quanto a fase di maturazione. Già si tratta d'un vino difficile da tastare, con tutto quell'alcol. Ma se poi ti trovi a che fare con affinamenti tanto dissimili, allora l'impresa è proprio improba, e rischi serie cantonate. Il che non va certo a beneficio dei produttori.
Addirittura, mi viene da chiedere una categoria in più: suddividere i vini "da vasca" fra campioni non ancora nell'assemblaggio definitivo, e dunque probabilmente ancora in legno, ed altri già in cuvée, e dunque presumibilmente in acciaio pre-imbottigliamento.
Dunque: cinque categorie. Essenziali, per tentar di capire.
Cerco di spiegare.
I vini "da botte". Nel caso siano stati presi direttamente dal legno, è chiaro che ci si trova di fronte a qualchecosa che non andrà mai a finire sullo scaffale esattamente come te lo ritrovi nel bicchiere dell'Anteprima. Quella botte - quella barrique - sarà tagliata con altre, e si farà un mix che metterà insieme caratteri diversi - anche molto diversi, ché ogni legno fa storia a sé - fra di loro. Dunque, in questo caso si tratta d'un assaggio meramente indicativo. Nel caso invece che le botti siano già state assemblate, e che il vino sia in acciaio, pronto a passare in bottiglia, be', allora si può già provare a pensare a come sarà nella sua nuova vita.
I vini "in bottiglia". Qui è necessario davvero avere indicazioni sull'epoca dell'imbottigliamento. Perché è chiaro che un Amarone in vetro da un mese o due è ancora scosso dal taglio di vasche e dall'imbottigliamento, e dunque potrà avere il rovere un po' in rilievo ed essere un po' scombussolato, e fattori del genere non dovresti viverli come peccati capitali, bensì come inevitabili fasi evolutive (un po' come i brufoli adolescenziali, insomma). Pertanto, in questo caso, andrai a cercare non già indicatori di finezza o d'eleganza, quanto di frutto, di materia, di freschezza, "depurandoli" dagli altri elementi contingenti. Se il vino ha invece già quattro-cinque mesi di vetro, allora puoi pretendere che emergano i primi indicatori in termini di futura finezza, e dunque starai più attento nella ricerca di questi elementi. Se l'Amarone ha già fatto poi sei mesi e più di bottiglia, in questo caso sarai - dovrai esserlo - un po' più esigente, perché è presumibile che stia per andare sullo scaffale (o che ci sia già andato addirittura) e che dunque sia esattamente come se lo troverà nel bicchiere il consumatore che lo stapperà in casa o lo berrà al ristorante.
Insomma: a seconda dei casi, il degustatore più accorto, se fosse informato, dovrebbe ricercare indizi molto diversificati fra di loro. Se invece i vini te li dan tutti alla cieca - senza saper l'etichetta, ma anche senza saper nulla dello stato dell'arte - allora è difficile, difficilissimo. E si rischia di non fare un buon servizio né al produttore, né tantomeno al lettore.
Ci meditiamo un po' su? Lo dico al Consorzio valpolicellista, soprattutto. E se vogliono son disposto a rifletterci insieme a loro.

11 febbraio 2010

Langhe Freisa 2002 Rinaldi

Mario Plazio
Uno dei (pochi) grandi interpreti di questo (banalizzato) vitigno, la freisa.
Che la Freisa di Beppe Rinaldi sia una cosa seria lo si nota da questa 2002, ancora in forma e tutt’altro che al capolinea. È anzi giovanissima, fresca e floreale, profuma di piccoli frutti, amarena, agrumi e spezie.
Al palato non concede nulla alla semplicità. Tannino e acidità colpiscono fin da subito con violenza.
È un vino che chiama il cibo e se ne frega della degustazione pura. Un esempio di cosa significa fluidità di beva senza cadere nel tranello del vino diluito.
Nello scorrere dei giorni si fa più complesso: rosmarino, ferro e china sono sensazioni ricorrenti. Grande sapidità e profondità non smussano però la sua incredibile “cattiveria” che non cede nemmeno dopo una settimana dall’apertura della boccia.
Un vino che “respira” il Barolo coma ama dire Beppe Rinaldi.
Andatelo a cercare, costa meno di 10 euro in cantina.
2 faccini molto lieti :-) :-)

10 febbraio 2010

Côtes de Gascogne: bianchi francesi da dieci gradi e mezzo

Angelo Peretti
Ora, io ve lo dico ma negherò sempre e comunque ogni responsabilità, ché il 2009 non l'ho ancora tastato. Ma su Vinatis, il sito francese sul quale faccio di solito shopping vinicolo, ho visto che hanno messo in vendita l'annata, appunto, 2009 di due vinelli bianchi franzosi che di solito bevo in piena estate quando c'è un caldo che non se ne può più e cerchi qualcosa più freddo che fresco e che magari non abbia tutto 'sto alcol.
Orbene, i due vini in questione vengono entrambi dalla Côtes de Gascogne (non è un'appellation, sono vin de pays, i nostri igt), e tutt'e due son fatti in larga parte con l'ugni blanc, che a dirla così sembra chissà quale uva strana e sconosciuta, ma che in realtà è il trebbiano. Uva che di solito da quelle parti - a quanto ne so - coltivano alla come viene viene, perché tanto è destinata a far mosti da distillare per farci il brandy.
Ebbene, gli anni passati - nei tre anni passati, e dunque spero che il discorso valga anche stavolta - mi son goduto questi due vinini - e lasciatemela usare 'sta parola! - che costano poco e non hanno pretese e vogliono solo esprimere frutto e freschezza e beva.
Il primo è il Colombard-Ugni Blanc del Domaine Uby, fatto grosso modo metà e metà con le due uve, ma che mette al primo posto nel nome l'uva colombard perché mi pare che arrivi al 51 per cento, ed è dunque appena appena prevalente. Vedo che costa adesso, on line, 7 euro e 20, ma si compra la scatola da sei il prezzo scende a 6,40.
Il secondo è l'Ugni Blanc-Colombard Classic del Domaine du Tariquet, che costa esattamente uguale ed ha la stessa promozione dell'altro. Solo che in questo caso nel nome vien prima il vitigno dell'ugni blanc, perché la sua uva conta l'80 per cento, mentre il colombard è al 15 e c'è un 5 per cento di gros manseng.
Ora dico, per come li ricordo: il primo dei due per chi cerca la frutta tropicale, il secondo per chi vuole maggiore nervosismo acido.
Dimenticavo: il primo fa 11,5 gradi di alcol, il secondo ancora meno, ché si ferma a 10,5. Provare per credere, e poi fatemi sapere.

9 febbraio 2010

E il blog di Luciano Pignataro diventò ancora più blog

Angelo Peretti
In realtà, il big bang è avvenuto il primo di febbraio, ma io ne scrivo solo adesso perché sono pigro (o perché mi era passato dalla testa, se proprio volete metterla così). La notizia è questa: il blog di Luciano Pignataro è diventato un blog. Nel senso che prima si chiamava wineblog, ma non c'era lo spazio per i commenti dei lettori, e invece dal primo febbraio c'è anche quello. E i commenti hanno cominciato a fioccare, com'era del tutto logico aspettarsi.
Adesso l'amico Luciano, uno dei più preparati ed attivi giornalisti del vino che abbiamo nell'italica terra, si appresta a schiantarci tutti quanti noi crivani della rete in termini di visite on line, ché già aveva numeri da record prima, ma ora che c'è anche la possibilità del contenzioso, figurarsi!
Oh, poi, sia chiaro: la cosa, più che noi che in qualche modo ci arrabattiamo ad emularlo, scompaginerà ancora di più chi pensa che la comunicazione virtuale sia di serie b rispetto a quella di carta. Luciano scrive sulla carta, è redattore del Mattino di Napoli. Ma spopola sul web, pure. Dunque, lasciatemelo dire, non sono né la carta, né il pc a far la differenza, ma le persone. Ci sono quelli che son credibili e la gente li legge, punto e basta.
Devo dire che con quel suo blog Luciano sta facendo un servizio straordinario al suo sud: una palestra di idee per tutto quanto si muova attorno al vino - e al cibo e alla gastronomia - fra Campania (soprattutto) e Molise, fra Lazio e Sicilia, fra Puglia e Calabria. Un'agorà virtuale sulla quale fioriscono e maturano pensieri e progetti. E il sud della buona tavola e del buon vino si muove, eccome. E Luciano non gliele manda mica a dire, quando serve, ché sa cantarla bene. E ci ha anche un bel numero di collaboratori - o meglio, di compagni d'avventura - che ci mettono passione tanta e competenza altrettanta.
Ho un unico dubbio: che Luciano abbia un paio di gemelli che gli somigliano come una goccia d'acqua e che lo sostituiscono in incognito nella sue varie attività, vista la gran mole di lavoro che svolge. Ma questo dubbio non glielo dico mica, sennò magari chissà come la prende...

8 febbraio 2010

Olio extravergine di oliva Fs17 La Meridiana

Angelo Peretti
Non chiedetemi cosa sia nel dettaglio: per me è un olivo e so - ritengo di sapere - che è un clone della varietà frantoio ottenuto dal professor Fontanazza. In codice si chiama Fs17, che sembra la sigla di un treno. E se i treni andassero davvero - mi si consenta il gioco di parole - questa varietà d'ulivo si potrebbe dire che va come un treno. Introdotta da pochi olivicoltori sulla sponda bresciana del lago di Garda, sta offrendo oli di grande fascino.
Questo qui che ho avuto da poco il piacere di tastare è prodotto a Puegnago, in Valtènesi, e lo fa l'azienda agricola La Meridiana, di Fulvio Leali.
Ebbene, è un gran bell'olio, già dal colore, che è d'un verde prato brillante. Si obietterà: il colore non è così fondamentale per valutare un olio. Vero, verissimo. Però quand'è bello è una gioia degli occhi, e allora perché non scriverlo?
Eppoi ha un bel naso: erbe di prato, rucola, carciofo, mandorla verde, oliva appena appena ad inaviatura. Una bellezza davvero.
La bocca è decisamente fresca, vegetale. Ancora erbe pratensi, mandorla, e ancora nocciola e sempre oliva fresca.
La conduzione è essenzialmente dolce, ma è anche innervata da una freschezza vegetale di tutto rispetto.
La piccantezza è contenuta, ma piacevolmente rinfrescante, e in sintonia con un olio che gioca più sull'eleganza che sulla potenza.
A me piace, e il finale livemente astringente aiuta l'uscita, graduale e lenta, della frutta secca, nocciola in primis. E ancora nel finale diventa dolciccimo senza essere stucchevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

7 febbraio 2010

Südtirol Terlaner Pinot Bianco Vorberg 2001 Kellerei Terlan

Mario Plazio
Vino enigmatico questo Vorberg. Monolitico e per nulla scalfito dal tempo.
Ti aspetteresti un vino in piena evoluzione, maturo e aperto. Invece ti ritrovi un naso freschissimo, ancora sui fiori bianchi e gli agrumi. Poi anche camomilla, kiwi e fieno, e una appena percettibile vena minerale.
In bocca si rivela sostanzioso, la materia non manca ma fortunatamente viene affiancata da una perfetta acidità che serve a prolungare a lungo le sensazioni.
Complesso il finale che ricorda la mandorla, addirittura piccante, quasi a voler ribadire la sua sfrontata giovinezza.
A distanza di giorni non cambia il carattere, si conferma carnoso e concentrato.
L’unico dubbio che permane è proprio quello iniziale: evolverà un giorno e come si presenterà tra 5 o 10 anni? Non ci rimane che attendere.
Due faccini :-) :-)

6 febbraio 2010

Vallagarina Campi Sarni Rosso 2006 Vallarom

Angelo Peretti
Ora, o hanno assaggiato il vino quando non era ancora maturo (o forse neancora in bottiglia), o sono stato gran fortunato io con la mia bottiglia. In ogni caso, è evidente che l'affinamento in vetro l'ha aiutato. Perché io quelle note di tostatura e di barrique di cui parlano le maggiori guide italiane, nel Campi Sarni del 2006 non le ho trovate, ma anzi nel bicchiere è stato un tripudio di fruttino, piacevolissimo, di bosco.
Certo, il tannino è morbido, vellutato, e che ci sia stato un passaggio nel legno lo capisci, dunque, ma non c'è quel boisée che a volte (tanto spesso in passato, meno adesso, ma non è finita) umilia il frutto nei rossi. Evviva.
E dire che non sono un grand'appassionato dei bordolesi fatti in Italia, e questo qui è figlio -leggo in controetichetta - di uve di cabernet sauvignon e franc e di merlot "in varie selezioni clonali".
Leggo in contr'etichetta che la vigna è "coltivata con alcune tecniche biodinamiche". Non che io sia da ascrivere tra coloro che s'esaltano perché un vino è bio-qualcosa, ma mi si dice che nell'azienda di Barbara e Filippo Scienza - si chiama Vallarom, ed è ad Avio, prima terra trentina dopo il Veronese - l'impegno verso una viticoltura per così dire "sostenibile" sia autentica, il che non guasta.
Torno al vino per aggiungere che ha un a gran beva, e anche questa è nota positiva, soprattutto in quest'epoca in cui finalmente ci si sta liberando dalle marmellate alcoliche da degustazione. E c'è bella persistenza fruttata.
Insomma, il primo bicchiere "chiama" rapidamente il secondo.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

5 febbraio 2010

Olio extravergine di oliva Torre del Falasco Veneto Valpolicella 2009 Cantina Valpantena

Angelo Peretti
Un olio in una cantina sociale? E perché no? La cantina sociale in questione è quella della Valpantena, poco sopra Verona. Che ha per direttore una persona che stimo: Luca Degani.
Se non sbaglio, fu sei anni fa che la cantina si comprò il confinante Oleificio delle Colline Veronesi. Sta di fatto che s'è ristrutturato il frantoio (tra l'altro, all'ingresso c'è il punto vendita aziendale, dove si trovano anche i vini), si sono comprati nuovi macchinari e s'è messa in moto la produzione dell'olio, mettendolo sul mercato - com'è nello stile di questa realtà cooperativa veronese - con un rapporto qualità-prezzo davvero interessante. E interessante, sia chiaro, è anche l'olio, mica il prezzo.
Della validità della proposta olearia è prova provata il Veneto Valpolicella dop dell'ultima annata.
Ha colore giallo molto leggero con lievissime sfumature verdine.
Naso floreale, ed ha un buon fruttato di oliva fresca. Tracce erbacee. Nocciola appena raccolta, ancora verde.
In bocca parte lievemente amaro, sui toni delle erbe di prato e della mandorla. La pasta è di buona densità. Una leggera piccantezza la ravviva. Finisce su una piacevolissima presenza di mix di frutta secca con noce e nocciola.
Semplice, ma pulitissimo e ben modulato. Abbinabilissimo in tavola a una marea di piatti.
Due lieti faccini :-) :-)

4 febbraio 2010

Dell'inaudita colpa di scrivere di vino sul web

Angelo Peretti
Sembra incredibile, ma è invece amaramente vero: c'è tuttora parecchia gente nel mondo del vino e delle istituzioni vinicole che ritiene che l'informazione "di carta" valga di più, sia di altro ceto e censo, di quella "on line". Sissignori, è così. Ed è convinzione più radicata di quanto si pensi. Gente che non s'è accorta di quel ciclone che si chiama web, di quell'immenso mare su cui navigano milioni e milioni di persone alla ricerca d'opinioni e informazioni. Certo, sono il primo a dirlo: l'informazione on line è anarchica nella sua assoluta e talvolta magari anche eccessiva democraticità. Ma c'è. Mica puoi mettere la testa sotto la sabbia e far finta di niente. E invece si fa finta di niente.
Non dirò di chi si tratti, se sia uomo o donna, e nemmeno chi sia il suo committente ed a quale evento faccia riferimento. Non lo dico perché non m'interessa il caso in sé, bensì la mentalità che vi è sottesa. Dico solo che ha ricevuto l'incarico di pr per un evento legato al vino che si svolgerà in una certa regione italiana. E che incontrandomi qualche giorno fa m'ha detto: "Ci terrei che tu partecipassi. Hai mica qualche collaborazione con testate cartacee da darmi per l'accredito? Sai, gli organizzatori vogliono prudenza per i siti internet".
Dunque, è chiaro: una qualunque rivistucola cartacea, anche quelle che non vendono una riga dico una, che servono nient'altro che a raccogliere pubblicità, che per far vedere che esistono vengono spedite gratis a un certo numero di indirizzi ché in edicola nessuno se le filerebbe, la si potrebbe invitare, mentre un giornale on line, ancorché abbia centinaia di migliaia di pagine viste, non vale un fico secco. E se dunque voglio aver l'onore d'andare - viaggiando a spese mie - a quella tal manifestazione a far pubblicità gratuita alla medesima e alle aziende che vi son rappresentate, be', devo farmi l'accredito con una testata "di carta". Ma a questi usi & costumi non ci sono avvezzo: vuoi che mi sbagli? Se m'accreditano come direttore responsabile d'InternetGourmet (tra l'altro, e non a caso lo scrivo fra parentesi, è testata registrata al tribunale, anche se da sola la registrazione non val molto, l'ammetto, e per far buona informazione non è neppure così necessaria) posso anche pensare d'andarci, sennò non se ne fa nulla, tutto qui. Mica scrivo per scroccare week end enoici in giro per il mondo.
Non ce l'ho certo con chi m'ha parlato, che è persona che stimo assai. E la capisco, 'sta persona: come può non far presente l'opinione del committente? Ma non capisco invece come possano i suoi committenti avere quelle bislacche opinioni.
A pensar male - con la quale cosa si fa peccato, ma a volte... - un dubbio però mi potrebbe anche venire: sarà mica che la stragrande maggioranza dei web magazine e dei blog che s'occupano di vino non ospita redazionali a pagamento, e dunque corre il rischio d'essere poco "affidabile"? Già già, fors'è meglio chi con una manciata di euro ti fa comprare una pagina o due e ti pubblica le foto dell'assessore, del presidente, dell'eccellenza di turno, e pubblica paro paro il comunicato nel quale si dice quanto sono bravi e si spiega che l'annata è grandissima.
Mi domando se magari lo stesso discorso non valga poi anche per taluni produttori. Se cioè non guardino di buon occhio chi gli dice che il loro vino gli è proprio piaciuto e che però non sanno se possono scriverne dato che i costi di redazione sono alti e che però se avessero due-trecento euro per un po' di pubblicità... E quelli a a pensare che questo qui è bravo, mica come quegli altri che si arrogano il diritto di scrivere quel che vogliono e di dire che quel vino gli è piaciuto e quell'altro no.
Sì, forse ho sbagliato a non capire. Ma che volete, sono testardo e persevero nell'errore.

3 febbraio 2010

L'Amarone a una svolta?

Angelo Peretti
Dicendo delle mie prime impressioni circa l'Anteprima dell'annata 2006 dell'Amarone, allestita dal Consorzio di tutela dei vini valpolicellesi presso la Fiera di Verona (e la location sarà anche meno fascinosa rispetto ai palazzi delle precedenti edizioni, ma vivaddio è tanto, tanto più comoda e meglio servita in termini di viabilità e di parcheggi), ho scritto, guardando alla metà piena del bicchiere, e dunque ottimisticamente, che m'è parso di vedere i primi segnali d'un cambio d'impostazione. Che insomma ho trovato qui e là minori concentrazioni, tannini meno aggressivi, alcol meno in rilievo, una ricerca un po' meno spasmodica del muscolo, del machismo palestrato. E vedremo se le annate che verranno, a partite da quella del 2007, che fu a mio avviso vendemmia interessante per le corvine valpolicelliste, confermeranno quest'impressione.
Sta di fatto che oggi la Valpolicella amaronista sembra esser lì per avvicinarsi a un bivio (per avvicinarsi: non credo ci sia già piombata sopra): in quale direzione andare, d'ora in poi? Seguitare a rincorrere lo stile internazionale, polposo e pienotto, degli anni Novanta - che almeno sette-otto e forse più milioni di bottiglie sembra continuare peraltro a consentire di venderle tuttora - oppure cercare una maggior bevibilità, inseguendo la finezza e l'armonia anche su un vino che sopra le righe ci sta per forza, visto che si fa con l'appassimento? E come fare a contenere dolcezza ed alcol se ormai la viticoltura valpolicellese è tale - con tutti quegli impianti a filare che si son messi giù - che ti obbliga per forza a portare in casa uve già molto avanti di maturazione, e che ancora di più si concentrano di zuccheri in fruttaio, e pigiarle troppo presto non va comunque bene perché ti verrebbero fuori tannini ruvidi e verdi?
Bei dilemmi, che hanno gli amaronisti. Ma ormai la loro padronanza della tecnica enologica è tale che mi vien da dire che la via la troveranno.
Intanto però, per rendere l'idea di come cambino i gusti e i pensieri, voglio riportare qui di seguito gli appunti scritti al volo su uno degli Amaroni tastati all'Anteprima. Mi sono un po' sorpreso anch'io a rileggerli. Credo sia una descrizione sintomatica del dilemma di cui sopra. Ecco i miei appunti, pari pari: "Rovere al naso. Ma poi si apre sul frutto rosso molto maturo. Ciliegia. In bocca frutto e alcol e dolcezza in stile più reciotato alcolico che non amaronista. O meglio, in stile di Amarone internazionale sull'onda di quanto assaggiato nelle precedenti annate. Qualche anno fa avrebbe dominato, oggi è superato".
Non dico quale sia il vino, chi sia il produttore. Non serve. Quel che voglio esprimere è un pensiero, un dubbio. Ad altri la risposta: io di soluzioni da proporre non ne ho.

2 febbraio 2010

Breganze Cabernet Due Santi 2000 Vigneto Due Santi

Mario Plazio
Uno dei più classici tagli bordolesi del Veneto, prodotto da vignaioli tanto umili quanto capaci e determinati.
Confesso che la versione 2000 del rosso di punta di Stefano e Adriano Zonta non mi ha pienamente soddisfatto. Ho trovato un frutto al limite del sovra maturo, molto alcol e un legno non del tutto armonizzato.
Il vino tende a proporsi più in ampiezza che in lunghezza, e i tannini non sono finissimi e disturbano le percezioni nel finale. Sembra un vino di transizione, ancora giocato su sensazioni “forti”, alla ricerca più della potenza che della finezza.
Le ultime annate sembrano andare maggiormente in questa direzione, con maggiore leggerezza e più distinzione nel finale.
Detto questo non vorrei dare l’impressione che ci troviamo di fronte a un cattivo prodotto. È un cabernet davvero godibile e sontuoso. Sono forse io che sto diventando allergico ai vini troppo muscolari. Vediamo se il tempo saprà lisciare il pelo a questo cavallo di razza.
Due faccini lieti :-) :-)