31 gennaio 2010

Amarone 2006: il "the best" di quelli che son già in bottiglia

Angelo Peretti
Dopo avere scritto del vino che a mio avviso più rappresenta i caratteri dell'annata e dopo aver anche parlato dei cinque Amaroni "da botte" che più mi hanno interessato o comunque incuriosito, eccomi qui anche con l'Amarone in bottiglia assaggiato all'Anteprima dell'annata 2006 a Verona.
Ovvio che si parla di vini generalmente non ancora pronti per essere messi in commercio, per finire sugli scaffali o sulle tavole dei ristoranti. Il più delle volte se ne riparlerà verso l'autunno, ché c'è ancora bisogno d'affinamento. E dunque ogni valutazione va fatta e letta con beneficio d'inventario.
Detto questo, qualcheduno lo devo pur presentare dei vini tastati, e dunque ne scelto del tutto soggettivamente e arbitrariamente cinque. E mica perché non ve ne fossero altri d'interessanti. Solo per scelta, come ho già detto per i vini da botte, redazionale, ché altrimenti la tiritera vien troppo lunga. Magari d'altri parlerò un poco più avanti, in un ulteriore intervento su quest'InternetGourmet.
Eccoci qui, pertanto, con la top 5 dell'Amarone 2006 in bottiglia.
Amarone Classico 2006 Monte del Frà
Piacevolissimo all'olfatto nella percezione fruttata, parecchio ampia. Fruttino: mirtillo, melograno, ribes, ciliegia e marasca. Tracce floreali. Ed è subito elegantissimo anche in bocca. Ha freschezza che favorisce la beva nonostante un alcol in rilievo. Bel vino davvero: monsieur Introini, le'nologo dei Bonomo, ha portato in terra amaronista la finezza nebbiolista della sua Valtellina.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Amarone 2006 Cà Rugate
Un Amarone ancora tutto in divenire: ha bisogno di lunga sosta nel vetro. Però già adesso ti dice che sarà godibilissimo, ché riesce a far valere una freschezza capace di compensare tannino e dolcezza. Lasciagli tempo, e vedrai cosa salta fuori. Si apre con ritrosia. Il fiore e il frutto si presentano in alternanza, con delicatezza. Vuol giocare più sulla finezza che sulla potenza.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico Moròpio 2006 Pierpaolo e Stefano Antolini
Ormai gli Antolini brothers non sono più outsider, ma certezze della Valpolicella. Il vino offre fiori macerati e frutto appassito all'olfatto. In bocca, la vena floreale è altrettanto piacevole. Il tannino è tutto sommato già abbastanza integrato, anche se il rovere è presente. Un vino in divenire, che però ha frutto fine, spezia, tracce di terra rossa, vene rabarbaro.
Due lieti faccini :-) :-)
Amarone Classico 2006 Tommasi
Bella la prova del base dei Tommasi. Profuma di fiori di geranio ed ha un frutto che ricorda con immediatezza l'appassimento. Spezia molto fine, tracce di vaniglia e, assieme, un che di vegetale, che non guasta e aumenta la complessità. La bocca è canforata, il tannino è morbido, la presenza fruttata è rimarchevole. Strana quella vena, marcata, di iodio.
Due lieti faccini :-) :-)
Amarone Campo dei Gigli 2006 Tenuta Sant'Antonio
Volete metter d'accordo un po' tutti con un vino che è frutto, frutto e ancora frutto? Eccolo qui: il Campo dei Gigli dei Castagnedi. Al naso sembra il tipico Amarone in stile internazionale, col fruttone e il rovere in rilievo, ma in bocca è rotondo, lunghissimamente succoso sulle vene di mora, di ribes, di mirtillo, di ciliegia, di melograno.
Due lieti faccini :-) :-)

Amarone 2006: il "the best" dalla botte

Angelo Peretti
Sempre difficile tastare vini da botte (o da vasca d'acciaio, dopo l'uscita dal legno e prima di passare in vetro). Eppoi è anche potenzialmente anche rischiosetto scriverne. Ché in primis ti devi tarare, appunto, sul rovere che può essere ancora in rilievo e su certe riduzioni che son più che plausibili. E comunque non sai mai se quel tal vino che hai provato lo stai giudicando con sufficiente cognizione di causa (ammesso che tal cognizione possa mai effettivamente esservi, ma almeno ci si prova) e quali artifizi enologici (lecitissimi, chiaro) si debbano ancora mettere in campo e quali tagli si vadano eventualmente ancora a compiere. E anche e soprattutto c'è che non puoi proprio sapere se quello è veramente ciò che finirà poi in bottiglia, e dunque scrivi una certa cosa e poi chissà cosa ti troverai nella boccia a lavoro finito. Insomma, un bell'azzardo.
Ordunque, all'Anteprima dell'annata 2006 dell'Amarone, alla Fiera di Verona, di vini da botte ne sono stati presentati in degustazione ben venticinque sui sessantasei totali serviti dai sommelier dell'Ais scaligera, ed è una bella percentuale. E a me non pare il caso - mi sbaglierò, ma la penso così - di scrivere insieme di quelli da vasca e di quelli da bottiglia, e dunque scelgo di parlarne separatamente. Cominciando proprio da quelli da vasca e dicendo quelli dei venticinque che più m'hanno colpito, fatto salvo che il "the best" della categoria l'ho già descritto ieri, ossia l'Amarone Classico 2006 di Terre di Leone, e dunque qui non lo cito nuovamente.
Ne descrivo cinque, ma sappiate che ce n'è ancora altri d'interessanti. D'altro canto, qualche limitazione me la devo pur mettere in queste note descrittive, e dunque cinque e solo cinque per scelta, consentitemelo, "redazionale".
Amarone Classico da botte 2006 Buglioni
All'olfatto è un tripudio di fruttino e di erbe officinali: marasca, ciliegia, prugna, origano, rosmarino. In bocca propone da subito una beva considerevole, pur non mancando in termini di spessore. Noce moscata e chiodo di garofano in rilievo. Succose presenze di frutta matura, ma anche di dattero. Speziatura dolce. Vino fine, morbido senza essere stucchevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Amarone Classico da botte 2006 Manara
Et voilà, è finalmente tornato in grande spolvero l'Amarone dei Manara. Magari questo 2006 non ha quella beva elegante che così tanto m'era piaciuta nell'annata, memorabile, del 2000, ma quest'è un rosso di quelli che daranno soddisfazioni, quando sarà in bottiglia: ci scommetto. Tanta ciliegia matura, e poi mora, anche in confettura, e spezia, e vene erbaceo-officinali (rosmarino).
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico Costa delle Corone da botte 2006 Monteci
Bella sopresa. Monteci è il recentissimo ramo potenzialmente d'elite di un'azienda commerciale valpolicellista. E da quest'assaggio e da altri precedenti mi vien da dire che son partiti col piede giusto. Questo è un Amarone da un unico vigneto. Ha naso un po' animalesco, e poi ci trovi spezia, grafite. Bocca polposa, carnosa. Ciliegia croccante, vene erbacee.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico Calcarole da botte 2006 Guerrieri Rizzardi
Che dire? Il Calcarole è il Calcarole, classicissimo e assolutamente e costantemente votato all'annata e al terroir. Il 2006 è stato caldo e morbido? Allora eccoti l'Amarone caldo e morbido, ma pur sempre con quell'eleganza che viene da quel vocatissimo cru. Cioccolato, cocco, frutto appassito, brandy. Dolcezza e materia. Questo sì che merita d'invecchiare.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Amarone Classico San Giorgio da botte 2006 Carlo Boscaini
Eccolo qua, il Boscaini, che si conferma in gamba e ti fa vini capaci di farsi piacere all'amante della tradizione e al patito della modernità. Al naso ha mirtillo e amarena. La bocca è polposa, con bel frutto maturo e anche tracce di peperone. Un Amarone fatto molto, molto bene: risponde al gusto dei più senza essere sfacciatamente moderno.
Due lieti faccini :-) :-)

30 gennaio 2010

Anteprima Amarone 2006: le prime impressioni e quel vino che racconta l'annata

Angelo Peretti
Prime impressioni sull'Anteprima dell'Amarone 2006, apertasi oggi a Verona, in Fiera. Dei flash buttati giù al volo.
Stefano Accordini, enologo della Cantina sociale della Valpolicella e leader dell'Assoenologi del Veneto, ha ricordato che la vendemmia del 2006 avvenne con leggerissimo anticipo - 3-4 giorni soltanto - rispetto all'anno prima. E che per tutta la vendemmia ci fu "tempo caldo, asciutto e ventilato, ideale sia per le operazioni vendemmiali che per la conduzione dell'appassimento". Nell'uva, a fine appassimento, c'era una concentrazione piuttosto alta di zuccheri: valori attorno a quelli del caldissimo 2003. I tannini erano anch'essi "maturi". Ed era bassa l'acidità, e come contraltare, ovviamente, era elevato il ph. E ci furono, in appassimento, positivi, ancorché moderati contributi di botrytis, la muffa che vien detta nobile.
Che significa questo per chi il vino lo beve? Che lo si può trovare, il vino, tendenzialmente abbastanza dolce (zuccheri elevati) o abbastanza alcolico (zuccheri trasformati in alcol), tant'è che, mediamente, i 66 vini in degustazione all'Anteprima hanno un residuo di zuccheri di 7,50 grammi per litro (con punte di 11,41) e poi 15,81 gradi di alcol, che non è certo poco. In più, la botrite ha favorito lo sviluppo di glicerine, e questo vuol dire avere un ulteriore apporto in termini di morbidezza. E se non fosse abbastanza, il fatto che le condizioni climatiche abbiano concesso una spontanea e quasi completa fermentazione malolattica vuol dire che si ha un bel po' di acido lattico, che dà anch'esso sensazioni di morbidezza. E l'identico discorso - relativamente alla morbidezza, intendo - vale per il ph elevato. Ed altrettanto dicasi per la bassa acidità, che facendo venir meno la percezione della freschezza, tende ad esaltare tattilmente l'impressione del velluto, della setosità. Ed è di velluto o di seta anche il tannino maturo, morbido pur'esso pertanto. Insomma, condizioni che vanno tutte quante, ineluttabilmente (se mi piace, quest'avverbio...) nella stessa direzione. E che potevano condurre ad aver nel bicchiere vini quasi stucchevoli.
I 66 vini li ho tastati tutti. Che impressione ne ho avuto? Che è andata meglio di quanto mi aspettassi. Nel senso che cerco di spiegare qui sotto.
Intanto, e mi pare la cosa più importante da dire, ho trovato un'ulteriore crescita enologica del comparto amaronista della Valpolicella. Solo tre vini mi si son presentati più o meno ossidativi, ed è una percentuale davvero minimale. Il che non vuol dire necessariamente avere "grandi" vini, ma significa più semplicemente - ma non è piccola cosa - avere vini corretti.
Poi ho trovato - devo riconoscerlo - meno stucchevolezze rispetto al passato, e il rischio per i 2006 era invece esattamente l'opposto, visti gli esiti di quella vendemmia. Insomma: vini che puntavano a volte un po' più verso l'Amarone della tradizione e un po' meno verso le marmellate reciotate di stile internazionale. Ribadisco e sottolineo: a volte un po' più da una parte e un po' meno dall'altra, mica tutto da una parte. Ma la via intrapresa è interessante, e se fosse confermata anche il prossimo anno dall'Amarone del 2007 (potenzialmente una grand'annata), ne sarei davvero lieto.
Terzo: tannini ed alcol un po' meno radicali che non nel recente passato. Certo, 'sti vini le palestre tendono ancora a frequentarle, ma i produttori mi pare abbiano cominciato a capire che i muscoli non sono tutto (anzi). La finezza è invece il segreto del buon vino.
Quarto: qualcheduno fra gli Amaroni del 2006 m'ha favorevolmente stupito per una beva ritrovata. Non tutti, non tantissimi. Ma insomma, ha cominciato a far di nuovo capolino qualche Amarone fatto assolutamente per stare in tavola, mica principalmente per esser degustato davanti al caminetto (e chi ce l'ha più, nelle case moderne di città, quel benedetto caminetto? e anche chi ce l'ha, quando lo trova il tempo per mettercisi davanti in santa pace con un bicchier di vino in mano? in tavola deve stare il vino, in tavola!).
Che dire: sarò un inguaribile ottimista, ma 'sto 2006 mi ha un po' confortato, così come m'aveva lasciato qualche dubbio il 2005. Ripeto: la prova del fuoco sarà il 2007, l'anno che viene, ché è stata quella annata di sicuro interesse. E dunque vedremo.
Ultima annotazione, ma essenziale, ritengo, per chi ami comprar vino e metterselo in cantinetta: l'Amarone del 2006 non è generalmente fatto per invecchiare. La scarsa acidità (e il ph alto) non aiutano. Ed è dunque vino tendenzialmente pronto da bere molto presto. Orizzonte temporale della maturità sui tre-cinque anni, direi. Lo si tenga presente, così come si tenga presente che gran parte dei vini che son stati messi in assaggio all'Anteprima uscirà comunque sul mercato solo dopo l'estate, e più spesso ad autunno inoltrato.
Finisco con qualche riga dedicata ad uno dei 66 vini tastati. Quello che più m'ha impressionato per la sua capacità di raccontare l'annata. Un benchmark del 2006, un punto di riferimento della stagione, della vendemmia così come l'ha raccontata Accordini a una sala gremita di giornalisti e blogger di mezzo mondo. Un Amarone ancora in vasca, e dunque da riprovare quando sarà in bottiglia. Ma già da ora da tenere bene annotato, a mio avviso.
Il resto lo scriverò nelle prossime ore. Intanto, contentatevi. E dei vini già in bottiglia parlerò in un altro intervento.
Amarone Classico da botte 2006 Terre di Leone
Floreale e fruttato al naso, elegantemente attraente. In bocca è setoso più che vellutato. Morbido senza essere stucchevole. La dolcezza si innerva di vene speziate piuttosto evidenti, con la cannella in rilievo. Dolce e speziato, dunque, e con tracce di cioccolato al latte. Morbido, dicevo, ma bevibile, ed è bella cosa. Dattero e carruba. Tabacco dolce da pipa. Nel bicchiere cresce ed evolve. Vino rilassato e rilassante. Se il 2006 è come l'ha descritto Accordini, questo è un Amarone del 2006 senz'alcun dubbio. Me ne prenderei una bottiglia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

Valpolicella Classico Superiore Ripasso Zane 2004 Carlo Boscaini

Angelo Peretti
Direi che è improbabile che mi si iscriva d'ufficio nel club dei fan del Ripasso, il rosso che in Valpolicella si fa con la rifermentazione, l'arricchimento, il restyling - scegliete la definizione che più vi aggrada - d'un vino "d'annata" sulle vinacce "calde" dell'Amarone (o del Recioto, ma questo ormai è una mosca bianca).
Perché credo che in Valpolicella si possa fare del buon vino da uve fresche e da uve appassite, ma il mezzosangue o il sangue misto sia ostico da impostare. Anche se capisco: facessi vino io da quelle parti e avessi il mercato che tira in quella direzione, oh, se lo produrrei anch'io il Ripasso, contateci.
Detto questo, a non andarmi a genio del Ripasso erano un tempo neppure troppo lontano certe sensazioni tipicamente ossidative e ora cert'interpretazioni decisamente amaroniste, e intendo con ciò il mix di polpa, alcol e zucchero. Il che non vuol dire che non si possa trovare equilibrio, almeno pro futuro.
E con la premessa ho finito. Ma era premessa che andava fatta perché mi son stupito di me stesso vedendomi bere a tavola uno di questi ultimi giorni - ero al Covolo, il ristorante di Adelino Molinaroli, a Sant'Ambrogio di Valpolicella - ben due, dico due, bicchieri del Ripasso di Carlo Boscaini.
Che cosa aveva di speciale 'sto Valpo ripassato? Boh, e chi lo sa? Aveva che si faceva bere, e tanto mi basta.
Intendo: probabilmente in degustazione "tecnica" non ne sarei magari rimasto impressionato, ma a tavola, con la tagliatelle al tartufo era piacevolissimo. Eppure aveva netta la sensazione dell'appassimento, ed era caldo d'alcol, e in genere non amo quest'impressione.
Sarà stato, ritengo, che non voleva essere ruffianetto e perfettino e dolcino, ed anzi si manifestava in un certo qual senso vino decadente, con quella spezia e il fiore essiccato e una terrosità d'effetto.
Insomma, ripeto: a tavola me lo son bevuto volentieri. Se vi capitasse, provatelo.
Due lieti faccini :-) :-)

29 gennaio 2010

Soave Classico Staforte 2005 Prà

Mario Plazio
Con lo Staforte, Graziano Prà ha voluto esplorare una terza via per il Soave. Quella dell’equilibrio. Senza uso di legni o di concentrazioni esasperate.
Forse è finalmente morta e sepolta (almeno lo speriamo in cuor nostro) la rincorsa ai vini sferici e muscolari, magari tagliati con dosi non proprio omeopatiche di chardonnay, maturati in legno e che al primo bicchiere già avevano stufato.
La garganega, a modesto parere di chi scrive, mal si presta al legno, tantomeno a quello piccolo e nuovo. La delicatezza delle sfumature di questo vitigno soccombe quasi sempre (salvo rare eccezioni) alla prepotenza del rovere.
Lo Staforte (etichetta uscita credo per la prima volta nel 2004) dovrà mostrare nello scorrere degli anni di saper evolvere e diventare sempre più complesso. Senza rinunciare alla sua identità.
Il naso si caratterizza per le note agrumate di bergamotto, alle quali si affiancano aromi di linfa, erbe e ananas victoria.
Al palato scorre senza essere troppo pesante, impressiona per la consistenza riuscendo al contempo a dare l’idea della eleganza.
Il finale porge sentori minerali e si allunga per molto tempo. Sicuramente questo 2005 non ha ancora detto tutto quello che può dire.
Sarà senz’altro interessante assaggiarlo tra qualche anno, quando sarà nel pieno della maturità.
Due faccini :-) :-)

28 gennaio 2010

Lo spumante è morto, finalmente

Angelo Peretti
Devo - ancora una volta - ad un protagonista e attento osservatore della comunicazione vinicola come Franco Ziliani la lettura di un interessantissimo testo pubblicato sul finire dell'anno sul sito del Vinitaly. Mica un sito qualunque. Confesso che non l'avevo visto prima. E ne son rimasto piacevolmente sorpreso. Dice, quella nota comparsa sul portale della fiera scaligera, che lo spumante "è una parola morta, non esiste più". Affermazione perentoria.
Spiega poi il motivo per cui la si reputa defunta, la parola spumante: "Perché è banalizzante; non si può fare di tutta un'erba un fascio, con dentro il dolce Asti, il fresco Prosecco e il più complesso Franciacorta. Meglio parlare di denominazioni, che valorizzano le specifiche metodologie di produzione, le aziende vitivinicole, le aree a vocazione spumantistica. Un valore aggiunto e di fatto una marcia in più anche nelle vendite all'estero dove è evidente che il vino vada trattato per zone d'origine".
Si badi, a formulare pareri del genere non è un qualunque Carneade dell'ampia platea dei comunicatori vinicoli o sedicenti tali, bensì addirittura quel Maurizio Zanella che è ora presidente del Consorzio di tutela del Franciacorta e leader di Cà del Bosco. Uno che di vini con le bolle se ne intende parecchio, insomma.
Eggià, dichiarazione importante. Piantiamola di parlare genericamente d'italico spumante, magari per farci grossolanamente e iperprovincialmente belli affermando che "lo spumante italiano ha superato lo Champagne". Ché proprio in boutade di questo stampo s'annida una contraddizione grossa come una casa: lo "spumante italiano" non esiste proprio per niente. Del resto, i produttori francesi, che sulle bollicine qualcosa da dire ce l'hanno da qualche secolo, ormai, se ne guardano bene dal parlare di "spumante francese" o di "champenoise". Macché. Se è Champagne dicono Champagne, se è Crémant d Bourgogne dicono Crémant de Bourgogne, se è Blanquette de Limoux dicono Blanquette de Limoux. Prima di tutto il terroir e l'appellation che lo rappresenta, parbleu!
Ecco, cominciamo a imparare. Se è Franciacorta diciamo Franciacorta, se è Trento diciamo Trento (macché TrentoDoc - si dice così?), se è Asti diciamo Asti. Saremo mica orgogliosi di noi stessi solo quando mettiamo insieme fittiziamente tutto il nostro frizzantino per annunciare d'avere spezzato le reni allo Champagne, vero?
C'è orgoglio malato e orgoglio sano. Dichiarare il nome del vino della propria terra è orgoglio sano. E anche sana regola di marketing, che non guasta.

27 gennaio 2010

Kalterersee Auslese 2007 Kellerei St. Pauls

Angelo Peretti
Ora, sia come sia, piaccia o non piaccia la parola, gli è che del vinino coniato su quest'InternetGourmet se n'è parlato abbastanza in giro per il web. E durante le feste natalizie ormai passate da un bel po', fra le tante bottiglie che ho stappato, di vinini extralusso ne ho incontrato uno: una schiava altoatesina, un Kalterersee Auslese (Lago di Caldaro scelto) della Cantina produttori di San Paolo, o meglio, della Kellerei St. Pauls. Annata, si badi bene, 2007, alla faccia di chi è convinto che il vinino debba essere per forza bevuto in fasce.
Ordunque, trattasi di schiava dal colore tipicissimamente palliduccio, ed è gran bella cosa.
Eppoi al naso ecco il fruttino e la spezia, esattamente come t'aspetti, e con perfetta pulizia.
E in bocca di nuovo la succosità del fruttino e la seduzione speziata e una freschezza che ti fa salivare e t'invita a bere di nuovo.
Lunghezza ce n'è fin che si vuole. Ed eleganza.
Adorabile vinino.
A proposito: sul collare c'era incollato un bollino che diceva che il vino aveva vinto la Vernatsch Cup del 2008, il concorso delle schiave sudtirolesi. E benedetto sia quel concorso, dunque.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

26 gennaio 2010

Olio extravergine di oliva Garda Orientale 2009 Consorzio Olivicoltori Malcesine

Angelo Peretti
Se prendete la funivia che da Malcesine porta sul monte Baldo, vedrete, man mano che salite, una grande distesa d'olivi. Vecchi, vecchissimi a volte. S'inerpicano su per il fianco della montagna, fin dove il bosco (o il bullo) non prende il sopravvento. Olivi quasi tutti di casaliva, la varietà che si coltiva da queste parti, alto lago di Garda. Olivi che coltivarli è difficile e raccogliere di più.
A Malcesine gran parte degli olivicoltori - quasi tutti part time, gente che ha il bar o l'albergo o che fa l'artigiano - è socio del Consorzio, che ha la sede nella frazione di Navene e il frantoio al Campo. Il Consorzio ha sempre fatto buon olio, ma negli ultimi anni i passi in avanti sono stati notevolissimi, e adesso mi spingo a parlare non di buono, ma di ottimo per l'extravergine a marchio dop del 2009. Gran bell'olio.
Ha un colore verde chiaro brillante, con vene pastellate, fascinoso.
All’olfatto propone un freschissimo fruttato di oliva, intriso di memorie erbacee.
In bocca da subito si avverte un indovinato mix di dolce e di amaro, con le sensazioni vegetali che si distendono con eleganza. Gradualmente la conduzione vira con crescente intensità verso l’amaro del cardo e del carciofo, sospinti da una lieve e ben modulata piccantezza. Il lunghissimo finale mette assieme il pomodoro maturo e la frutta secca, con la noce e la nocciola in rilievo e una tannicità ben modulata.
Notevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

25 gennaio 2010

Gattinara 2001 Antoniolo

Mario Plazio
Nel corso di una degustazione di vini triplamente bicchierati al Lingotto di Torino (era la presentazione della Guida ai Vini d’Italia del Gambero Rosso), mi sono imbattuto in un vino che mi è rimasto profondamente impresso nella memoria. Si trattava di un Gattinara, credo il cru Osso San Grato, di Antoniolo. L’annata non la ricordo, non è questo l’importante. Quel che mi colpì fu la sensazione di aver ritrovato fuori dalle Langhe alcuni di quegli aromi e di quei sapori che ormai da anni faticavo (e fatico) a trovare in molti dei Baroli più blasonati.
Già, perché da quelle parti (intendo nelle Langhe) ci vanno giù pesante con tecniche di cantina volte ad ottenere un frutto immediato, tannini più docili e vini in fin dei conti pronti subito da bere.
Certo non sarò io a dire che hanno sbagliato: il mercato ha reso moltissimi vignaioli ricchi e famosi. Pochi di loro credo rimpiangano gli anni in cui non si vendeva una bottiglia di Barolo nemmeno a regalarla.
Da consumatore devo però dire che certe pratiche hanno contribuito ad omologare le bottiglie, tutte figlie di standard produttivi che alla lunga rischiano di soffocare il mercato. Troppe etichette, troppa ripetitività, scarsa aderenza al territorio. Certi vini non ti viene proprio voglia di berli, e men che meno di comprarli (complice anche il prezzo).
Il base di Antoniolo mi predispone bene già dal colore, di quelli di una volta.
Il naso respira la terra e le radici, poi odora di china, di buccia d’arancio fino a sfumare in cenni di ferro e sangue.
L’ottima annata si rivela al palato, dove ogni elemento è al suo posto e concorre a formare un insieme vibrante e vivido senza alcuna concessione a inutili modernismi.
È buono da subito. Sarà magnifico anche tra parecchi anni. Alla faccia di chi continua a dirci che certe uve vanno “domate” e che gli spigoli vanno smussati altrimenti il nebbiolo non si può bere.
Un consiglio: andatevi a cercare i cru, ne vale davvero la pena.
Ultima annotazione: la bottiglia costa intorno ai 7 euro in cantina. Soldi ben spesi.
2 faccini molto lieti :-) :-)

24 gennaio 2010

Siamo su Internet Yellow Pages

Angelo Peretti
Che volete: certe cose fanno piacere, magari ti tirano su il morale in certi giorni un po' grigi. Qualche sera fa, in libreria, ho trovato la nuova edizione di Internet Yellow Pages, la guida alla rete curata da Lucio Bragagnolo per Tecniche Nuove. Un volume di più di seicento pagine. E alla sezione Cucina ci ho letto la scheda di questo mio InternetGourmet.
Fa piacere, molto. Anche perché i siti d'enogastronomia citati e recensiti non sono un'enormità, e così mi ritrovo in compagnia di colossi & mostri sacri come Slow Food, il Gastronauta di Davide Paolini, Gianfranco Vissani, Gualtiero Marchesi, Peck o i consorzi di tutela del Parmigiano Reggiano o del Prosciutto di San Daniele.
Un grazie dunque e Bragagnolo, a Tecniche Nuove e a quanti - e sono sempre di più - mi leggono, regalandomi la loro attenzione.
Lucio Bragagnolo - cito testualmente dal sito di Tecniche Nuove - "si occupa di Internet dai primissimi anni Novanta, quando è stato cofondatore di Internet On-Line, la primissima testata cartacea in Italia dedicata alla Rete. Giornalista e divulgatore specializzato in informatica e nuove tecnologie, vive e lavora nell’hinterland milanese, dal quale scrive regolarmente su carta e web per varie testate come Macworld Italia e il Corriere del Ticino".
Quanto al volume, Tecniche Nuove lo presenta così: "Le Internet Yellow Pages ambiscono al ruolo di 'guida gastronomica' per Internet e segnalano i siti di maggior valore per la consultazione e la visita anche occasionale. Il libro non è un catalogo dei siti e neanche un omaggio alle aziende o alle organizzazioni: il sito viene segnalato se merita, indipendentemente dalla firma più o meno prestigiosa che porta. Al centro dell’opera sta la presentazione dei siti stessi, a ognuno dei quali viene riservata una recensione. Oltre al commento scritto sono presenti indicazioni grafiche che mostrano immediatamente certe caratteristiche importanti del sito, come l’offerta di commercio elettronico o il rispetto dei requisiti per la visione e l’utilizzo da parte dei diversamente abili. Al termine di ciascuna scheda il sito riceve infine un voto su sei 'materie', dalla facilità di navigazione alla coerenza ed eleganza grafica. I siti sono stati divisi in 29 categorie e in questa nuova edizione sono state aggiunte: Social Network, Religione e Filosofia. La categorizzazione consente una facile individuazione dei siti di proprio interesse. Completa l’opera un 'avantielenco' che porta rapidamente ma in modo esauriente il lettore neofita dentro il mondo di Internet, con le informazioni di base per entrare in Internet e fruire efficacemente delle informazioni contenute nella guida.
Il libro si trova in qualunque libreria discretamente fornita, ma si può ovviamente acquistare anche on line: costa 24,90 euro.

23 gennaio 2010

Adoro l'uovo nero!

Angelo Peretti
Non è la prima volta che scrivo di Leandro Luppi e della sua trattoria Vecchia Malcesine, primo ristorante della riva veronese del lago di Garda ad aver ottenuto la stella dalla guida Michelin. Non è la prima volta, ma ci torno su perché ieri sera mi ha nuovamente stupito. Come a certe squadre di calcio, la pausa invernale (ha appena riaperto) gli ha fatto un gran bene, non perché prima avesse qualcosa che non andava, ma perché nella nuova lista ho trovato delle cose davvero eccellenti. Insomma: un altro passo avanti, secondo me.
Le racconto velocemente qui di seguito, le "cose" portate in tavola.
Tonno del Garda e fagioli con pane rosmarino e limone e radicchio tardivo. Una specie di gioco, come usa Leandro. Il tonno in realtà è carpa, Sotto, i fagioli dell'occhio e quelli neri messicani. A parte, il radicchio tardivo saltato in padella con l'aceto. Sapori decisi. Merita.
Zuppa di spinaci e parmigiano con uovo croccante e gelato al tartufo. Da fuori di testa. Un piatto di un'eleganza considerevole, col gelato al tartufo (tartufo vero, intendo) che fa da contrappunto all'uovo. Da applauso.
Crema di patate con ravioli fritti di burrata e caviale. Il termine giusto è, ancora, eleganza. Gioca sulla dolcezza.
Tortelli di lumache con gamberi e aglio orsino. Il tocco finale erano delle code di gambero crude depositate sui tortelli. Un contrasto armonioso. Altro bel piatto.
Trancio di luccio al pino mugo con zucca, arance e cioccolato. Piatto "estremo", col cioccolato che viene contrastato dall'acidità dell'arancia, mentre il mugo che esalta il sapore del luccio.
Trilogia di lago e frutta: lavarello banana e olive, luccio mango e curry, tinca e caffè. Be', tinca e caffè è un accostamento che non t'aspetteresti, eppure dopo averlo provato ti sentiresti da dire che è "naturale" che i due ingredienti stiano insieme. Notevolissimo.
L’uovo nero (baccalà). Preso perché mi incuriosiva il nome: l'uovo nero. In realtà, una sfera di baccalà mantecato, colorato col nero di seppia, su un letto cremoso di polenta bianca. Non vedo l'ora di tornare a riprovarlo, e stavolta ci metto assieme uno Sherry secchissimo.
Il dessert - comprendetemi - non ce l'ho proprio fatta a prenderlo.
La foto qui sopra è quella che campeggia in sala.

30-31 gennaio 2010: Amarone in Anteprima 2006 a Verona

Sabato 30 e domenica 31 gennaio 2010 si svolge a Verona, presso la sede dell' Ente Fiera di Verona - Sala Margherita, la presentazione dell'annata 2006 dell'Amarone della Valpolicella. "Amarone in Anteprima 2006" vedrà, come nelle edizioni dedicate alle precedenti annate, la partecipazione di numerosi produttori valpolicellesi.
Il programma prevede la degustazione per il pubblico con biglietto di ingresso (10 euro) sabato 30 gennaio dalle ore 16.00 alle 19.00 e domenica 31 dalle ore 10.00 alle 18.00.
Di seguito alcune notizie diramate dal Consorzio di tutela del Valpolicella: "Secondo le indiscrezioni uscite dalla commissione del Consorzio che si è riunita venerdì 15 gennaio scorso per degustare e delineare il profilo dell'annata, il 2006 ha caratteristiche molto interessanti, ma diverse dal 2005, che evidenziano il segno del territorio rispetto al metodo di produzione. Il bilancio di mercato del 2009 è soddisfacente: nonostante il rallentamento delle vendite agli inizi dell'anno, i mesi successivi hanno dato risultati migliori rispetto al 2008. Un'ottima notizia per tutti i produttori che nel frattempo avevano deciso di autoridurre la quantità di uve a riposo destinate all'Amarone del 30% per mettersi al riparo da sovrapproduzioni e conseguenti cali di prezzo. Il 2009 sarà ricordato per due tappe importanti. Il conseguimento della denominazione di origine controllata e garantita (docg) per l'Amarone, vino tra i più grandi dell'enologia italiana (e anche per il Recioto della Valpolicella) e per l'ambito riconoscimento di 'Regione Vinicola dell’anno 2009' dall’autorevole rivista americana Wine Enthusiast".
Info sul sito www.consorziovalpolicella.it

La capsula e il coltellino: l’ottusa difesa delle consuetudini

Angelo Peretti
Oh, bene. Di capsula a vite se ne parla. M’ha fatto piacere che sulla riflessione che ho cercato di mettere in piedi sulla questione dell’imbottigliamento in screwcap siano intervenuti con propri scritti su questo mio InternetGourmet prima Andrea Pieropan, figlio di Nino, genio del bianco soavese, poi Aldo Lorenzoni, che è il direttore del Consorzio del Soave, e quindi un degustatore che stimo come Mario Plazio. Spazio ce n’è: fatevi avanti.
Di mio, nell’ultima manciata di giorni ho ribevuto due bianchi incapsulati che m’erano piaciuti molto, e li ho trovati perfettissimamente uguali a come li ricordavo: il Sauvignon 2005 di Cloudy Bay, spettacolare nelle sue memorie di frutta esotica e in quelle sue vene di salvia e di mentuccia, e la Garganega Camporengo 2008 della Fraghe di Matilde Poggi, vino sorprendente, che è mix intrigantissimo di pompelmo e d’idrocarburo e di freschezza nervosa. Non ho dubbi: fossero stati in sughero, quei due bianchi del cuore non li avrei ritrovati esattamente nel pezzo di strada su cui li avevo lasciati mesi prima, non avrei ripreso il filo del discorso da dove l’avevo interrotto: come se fra una bottiglia e l’altra, anziché mesi fossero trascorsi minuti. Il merito è sì del vino ben fatto, ma è anche dello Stelvin, sissignori, di questa chiusura che ti fotografa un bianco e te lo lascia intatto a lungo. Il sughero non ce la farebbe a scattare quell’istantanea. Perché ci metterebbe probabilmente del suo, complicherebbe i profili, cambierebbe gli scenari.
La capsula a vite apre invece prospettive inedite, e per me affascinanti. Sui bianchi, certo. Sui rossi magari ho dei dubbi, o quanto meno non ho al momento esperienze d’interesse da raccontare.
Il problema è sempre quello: la resistenza al cambiamento. Da parte dei ristoratori, degli enotecari, dei baristi e sommelier. Che si mettono in mente che se il vino è avvitato, allora il cliente lo rifiuta. Ma quando mai? Se lo mettono in mente loro, mica il cliente.
Conto un aneddoto. M’è capitato di recente in un ristorante bresciano. Trovo (incredibilmente) un gran bianco in carta. Lo chiedo. L’uomo di sala (mica lo posso chiamar maitre) mi dice, imbarazzato, che sì, quello “era” un gran vino e gli piaceva, ma adesso l’hanno messo in tappo a vite... Capito? È stato lui a “rifiutare” il vino, mica il cliente, mica io. E son convinto che sia così in un grande numero di casi. Per inciso, quando poi la bottiglia me l’ha portata, ha provato ad aprirla rompendo uno dopo l’altro i “dentini” dello Stelvin con il coltellino del cavatappi. Col coltellino! Pazzesco.
A me piace tanto, invece, quel gesto d’apertura dello screwcap: capsula impugnata con la sinistra, mano destra sul fondo della bottiglia, e si ruota con decisione la destra, con brevissima torsione. Come per lo Champagne. Lo trovo elegante. E pratico: niente plastiche e pezzetti di legno che s’infilano nel collo della bottiglia e poi nel vino.
Ma di fronte all’ottusa difesa delle consuetudini, è battaglia dura.

22 gennaio 2010

Soave Classico 2004 Coffele

Mario Plazio
Da sempre provo ammirazione per i vini della famiglia Coffele. I loro bianchi sono sempre un connubio di territorialità e perfezione formale, senza per questo cadere nella trappola del tecnicismo.
Sorpresa fu scoprire una prima bottiglia del Classico 2004 che consegnava un vino piuttosto stanco e fuori forma, evoluto e per niente riconoscibile. Più volte mi è capitato di bere il loro “base” a distanza di anni e di trovarlo molto intrigante. Ho così aperto una seconda bottiglia e, magia, ho magicamente ritrovato quello che mi aspettavo.
Un profumo di Soave didattico, raffinato e quasi pungente nella sua inattesa freschezza. Non è affatto scontato credetemi, trovare complessità e facilità di beva in un vino nato per essere consumato entro poco tempo. L’età invece gli ha giovato, ci trovo addirittura accenni di mare e sale, di pera e agrumi.
Al palato la florealità conduce ad una beva esemplare (per la categoria di appartenenza) per pulizia e coerenza.
Tutto è bene quel che finisce bene. Sorge però spontanea una domanda: quando cominceranno i produttori a convincersi dei benefici dei tappi a vite? Quante, troppe, volte giudicheremo in maniera severa un vino a causa di deviazioni indotte dai tappi in sughero? Appoggio senza riserve quindi la campagna di Angelo a favore dei tappi Stelvin.
Meditate produttori, meditate…
Due faccini :-) :-)

21 gennaio 2010

Soave e tappo a vite

Aldo Lorenzoni*
La vivacità nel dibattito attorno all’uso del tappo a vite, e soprattutto la serie quasi unanime dei pareri favorevoli verso questa chiusura, mi spinge ad alcune considerazioni che ritengo utile condividere. Se oggi è possibile, almeno per il Soave doc, il confezionamento con il tappo a vite, è solo perchè già nel 2004-2005 nell’ambito del Consorzio è stata attivata una importante riflessione analizzando con attenzione ciò che stava accadendo sui mercati, soprattutto quello inglese.
Ricordo che allora non erano molti i produttori ed i comunicatori favorevoli a questa soluzione. La relazione comunque presentata dal Consorzio al Comitato Tutela Vini era così dettagliata e convincente che l’iter non ha avuto particolari problemi; anzi, la stessa relazione è stata spesso clonata da altre realtà produttive per ottenere la stessa possibilità. Il mercato ha da subito dato ragione a questa nuova chiusura superando facilmente quelle barriere mentali più evidenti nei paesi produttori e che sembravano legare indissolubilmente il concetto di qualità del vino solo ad un particolare confezionamento.
Da quella data sono state molte le aziende che si sono confrontate con questa chiusura, tanto che alcune hanno richiesto questa opportunità anche per il Soave classico. Questo al momento, come sappiamo, non è ancora possibile essendoci l’obbligo del tappo raso bocca per i vini caratterizzati da sottozone. Va comunque sottolineato che questa chiusura sembra avere sempre più successo se su 40 campioni di Soave prelevati nelle ultime settimane sul mercato europeo, nell’ambito di specifici progetti di tutela ed analizzati dal Consorzio, ben 10 bottiglie utilizzavano come chiusura lo stelvin.
Posso anche confermare che questi vini in relazione all’annata di produzione manifestavano una particolare freschezza. Purtroppo nella stessa degustazione abbiamo registrato almeno 5 bottiglie rovinate da un tappo di sughero difettoso.
Direi che anche questa breve (ma non esaustiva) nota sul tappo sottolinea alcune importanti azioni poste in essere dal Consorzio: attenzione all’evoluzione del mercato, indirizzo delle regole produttive, monitoraggio delle produzioni, azioni di informazione ai produttori ed ai consumatori.
Sono questi alcuni dei compiti storici dei consorzi, riconfermati con ancor più forza nel nuovo decreto legislativo che sostituirà la 164 del 1992.
Un esempio concreto di cosa possa fare il Consorzio nell’interesse di tutti gli utilizzatori della denominazione... anche non soci.
*Aldo Lorenzoni è il direttore del Consorzio di tutela del Soave

20 gennaio 2010

Champagne Grand Cru Tradition Brut Delavenne

Angelo Peretti
Sessanta pinot nero, quaranta chardonnay, è lo Champagne base, se non sbaglio, fra quelli targati Delavenne. Ed è comunque un bel bere, piacevolissimo. Da aperitivo, certo, ma anche da mettere in tavola: se la cava egregiamente.
Classicissimo, direi, con quelle sue sensazioni di crosta di pane appena sfornato, di nocciola, di fruttino di bosco.
In bocca è fatto di crema. Velluto. E ci trovi la crostata all'albicocca, e ancora la nocciola. Ed ha una bella persistenza.
On line lo si acquista intorno ai 23 euro.
Due lieti faccini :-) :-)

19 gennaio 2010

Riso amaro

di Mauro Pasquali
È proprio vero che non bisogna mai abbassare la guardia! Abbiamo appena fatto in tempo a portare a casa una legge (finalmente) degna di questo nome sull'etichettatura dell'olio d'oliva e la tutela del consumatore, che lo stesso problema ci si ripresenta, quasi identico, con il riso.
Un disegno di legge, a primo firmatario Roberto Rosso, deputato torinese del Pdl, ma che ha già ottenuto alla Camera dei Deputati il voto favorevole o l'astensione di tutti i gruppi politici, prevede che, a causa dell'aggiornamento delle norme sull’etichettatura del riso, sarà possibile di non indicare con esattezza la varietà (vialone nano, carnaroli, arborio, ecc.) e l'origine del riso contenuto nel pacchetto, ma solamente la sua granulometria, cioè le sue dimensioni, e le sue caratteristiche biomediche. Non importa, quindi, la varietà della pianta da cui è nato il riso, ma quanto grande o perfetto è il chicco.
Un grande assist all’industria e ai grandi confezionatori e commercianti, che potranno utilizzare riso di qualità inferiore e, magari, proveniente dai paesi asiatici, al posto di prodotti qualitativamente superiori ma più costosi da produrre. Facciamo un esempio: se questo legge passasse anche in Senato, sarà possibile vendere confezioni di riso non già contenenti un'unica varietà, come oggi avviene, bensì inserire in un’unica confezione varietà similari per caratteristiche e parametri biomedici, per esempio raggruppare l'eccellente carnaroli (più costoso da produrre) con il karnak, varietà simile, più coltivata, ma meno pregiata e con scarso valore in cucina.
Un grande passo indietro per le garanzie ai consumatori e la difesa della rintracciabilità dei prodotti italiani.
Ancora una volta, con l'alibi di recepire direttive comunitarie (ricordate il caso delle banane o delle carote e della loro pezzatura minima imposta per legge? Come se la qualità di un prodotto si misurasse in centimetri!) si cerca di far passare una legge che va in direzione diametralmente opposto alla tutela della biodiversità e della qualità dei prodotti agroalimentari.

18 gennaio 2010

Vigneti delle Dolomiti Masetto Nero 2006 Endrizzi

Angelo Peretti
Da quand'è entrata in vigore in Europa la nuova ocm (leggasi organizzazione comune di mercato) del vino, che di fatto assimila, sotto l'unitario cappello della denominazioni protette, sia i doc che gli igt, credo sia buona cosa declinare per esteso nello scriver di vini anche l'indicazione geografica. Le guide di settore di solito non lo fanno: se un vino è a doc (o a docg), scrivono per esteso la denominazione, mentre se è a igt, omettono l'indicazione geografica. Penso sia arrivata l'ora di cambiare: sul versante europeo, ormai una igt è assimilata a una igp d'altri generi merceologici diversi dal vino, ormai, e dunque perché non scriverla?
Comincio (a dare il buon esempio?) con quest'igt Vigneti delle Dolomiti, che è indicazione tridentina. Un rosso fatto da un mix di merlot, cabernet sauvignon, lagrein e teroldego: insomma, la viticoltura internazional-bordolese unita in sposalizio con quella autoctona del Trentino. E se nell'aprire la bottiglia - leggendo degl'internazionali - avevo un certo qual timore di trovarmi di fronte a un rosso in stile globalizzante, all'assaggio mi son lietamente ricreduto. Ché quest'è vino che ha bella beva e gioca anche sull'eleganza del fruttino più che sulla polpa.
Ha la ciliegia, il ribes, il mirtillo. Dell'affinamento in legno ti resta sottile memoria, per nulla invadente, in una lieve speziatura vanigliata, che ben s'unisce al frutto. Ha morbidezza, certo, ma anche bella freschezza. Così al primo bicchiere ne segue presto un secondo.
Due lieti faccini :-) :-)

17 gennaio 2010

Rheingau Riesling Kiedrich Gräfenberg Spätlese 2007 Robert Weil

Angelo Peretti
Pensatela come volete, ma personalmente credo ci sia una sola tipologia di vini per la quale si può in qualche modo gridare al miracolo, e sono quei Riesling tedeschi che sanno mettere insieme frutto, freschezza, dolcezza, mineralità, leggerezza alcolica e beva, in un incredibile mix che raggiunge standard d’eleganza impensabili altrove, quasi che gli spigoli, quando in equilibrio tra di loro, sappiano dare assoluta armonia.
Come un'orchestra ben condotta, come i colori d'una tela impressionista.
Che poi non ti ci fai neppure l’abitudine a queste straordinarie quadrature del cerchio e almeno io ogni volta resto stupefatto del mio stupore quand’ho nel bicchiere un grande Riesling.
Ecco, questo Riesling Spätlese del 2007 è un grande bianco che ho avuto la fortuna di bere per due volte di fila nel giro di pochi giorni.
Bere, mica assaggiare.
Appena 8 gradi d’alcol, dolcezza ben vivida epperò assolutamente integrata, freschezza che ti fa perfino salivare, intriganti vene d’idrocarburo, un’abbinabilità clamorosa anche coi piatti più impegnativi.
Mica scherzi: un gioiello, che avrebbe potuto aver vita molto, molto lunga ancora dentro la bottiglia.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

16 gennaio 2010

Ma chi l'ha detto che il Moscato non invecchia? Sei annate di Vigna Vecchia di Cà 'd Gal

Angelo Peretti
Ecco, questa è una di quelle occasioni che non ti capitano mica tutti i giorni: una verticale di Moscato d'Asti. Che nessuno si scandalizzi: sì, il Moscato astigiano può invecchiare, e anche un bel po' d'anni. Se è ben fatto, ovviamente.
La mia verticale l'ho fatta da Cà 'd Gal, l'azienda d'Alessandro Boido, uno dei migliori moscatisti in circolazione, in frazione Valdivilla, comune di Santo Stefano Belbo. Stappate, una in fila all'altra, sei annate, fra il 2008 e il 1999, del Moscato d'Asti Vigna Vecchia. Entusiasmante, e sotto racconto.
Ma prima qualcheduna - giusto un assaggio - delle cose che mi ha raccontato Alessandro, personaggio esuberante, che quanto prende a parlare è un fiume in piena. E magari si mette a discorrere del problema del "grasso" del Moscato. Dicendo così: "Sono partito fra l'89 e il '90. Giacomo Bologna mi ha fatto conoscere al mondo. La gente assaggiava il Moscato e diceva: 'Buono, ma ci vorrebbe un po' di grasso'. Ho dovuto ragionarci sopra. Poi ho capito che per grasso intendevano zucchero. Ma da noi lo zucchero non è invadente, abbiamo Moscati che dopo due-tre mesi vanno verso il secco. E allora come facevo a farlo più grasso? Mi sono ricordato del nonno, quando mi faceva fare le merende col Moscato, e mi sono detto: 'Percorriamo l'altra faccia del Moscato'. L'altra faccia è la maturazione avanzata in vigna".
Poi, eccoci alla scelta di far due Moscati: il Lumine, che è buonissimo, e il Vigna Vecchia, che si chiama così perché viene da piante che adesso sono sui cinquantacinque anni e sono dentro un vallone "che ha le ali - mi ha raccontato - che tendono a diventare asciutte e il fondo che non asciuga mai". E dunque quell'ettaro di valle ("quello là è il Moscato bianco di Canelli, ne sono sicuro" dice) ci si è messi a vinificarlo a parte, "raccogliendo l'uva quando il 4-5 per cento degli acini comincia a raggrinzire".
Ne fa, di Lumine (8,50 euro la bottiglia), un 50mila bottiglie l'anno. Il Vigna Vecchia (12 euro) è prodotto annualmente in 5333 bottiglie e di queste, 1000 vengono messe da parte e vendute in cassettina di legno cinque anni dopo: la cassetta da tre bottiglie costa 85 euro, e te ne dà al massimo una. Anche questo è marketing. Ma serve a far capire meglio che il prodotto è di quelli che valgono. A proposito: il Vigna Vecchia esce già maturo, nel settembre successivo alla vendemmia, dopo quasi un anno, e anche questa è una scelta controcorrente.
Ora, i vini tastati (non scrivo del Lumine perché del 2009 ne ho già parlato dicendo dell'anteprima tenutasi a Mango e prima ancora del 2008 ho già detto in una mia recensione settembrina, avendolo casualmente tastato in un ristorante a Barolo).
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 2008
Al naso è panettone. Lievito e canditi. Accattivante. In bocca è avvolgente, fruttatissimo, coi canditi che par di masticarli, speziato perfino. Ha freschezza, polpa, lunghezza. Grand'equilibrio. Se dovessi fare un paragone - ma giusto per capirci - dovrei pensare a un Riesling Spätlese.
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 2006
Un tripudio di bucce candite d'agrumi. Ma ci avverti anche delle note verdi, e poi pian piano ecco che affiora la speziatura. E poi ancora al palatto ecco che tornano il panettone e il lievito e l'agrume. Ha grassezza e acidità. Sempre per fare una sorta di gioco delle somiglianze, direi che potremmo essere a metà strada fra il Riesling di cui sopra e un Vouvray demi-sec della Loira.
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 2005
"Più vado in là con gli anni e più il mio sorriso si amplia" commenta Alessandro. Concordo. Questo 2005, pur da bottiglia non perfettissima, ha profumi complicati: il frutto, la spezia, l'idrocarburo perfino. Vene fumée. E poi i soliti, gradevolissimi canditi. In bocca di polpa ce n'è un bel po'.
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 2004
Avanza l'annata e cresce la complessità del vino. Occorre attenderlo un attimo: si apre pian piano. Però poi ecco che sugli agrumi s'innesta la nocciola in un assieme di notevole fascino. E la bocca è cremosa. Direi che qui, sempre per il giochino di cui sopra, siamo proprio nell'area di un grande Vouvray. Alla faccia di chi dice che il Moscato è semplice.
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 2003
L'annata caldissima, ricordate? Eppure questo vino è giovanissimo e fresco fin dal colore, che non s'indora, non si carica. Il naso è mineralissimo. Tracce di tè alla pesca. In bocca è freschezza totale. Ed ha tensione. Ha frutto, ricordi di fieno secco, di fiori macerati, e vene officinali. Nocciola. E poi la consueta canditura fruttata. Grande vino, sempre più vicino alle seduzioni di quella parte della Loira in cui si alleva lo chenin blanc. Lo adoro, 'sto vino.
Moscato d'Asti Vigna Vecchia 1999
Appena appena dorato nel collore. Trasmette all'olfatto memorie d'idrocarburi e di frutto surmaturo e di spezia. In bocca è morbida crema pasticcera, con qualche lievissima evoluzione verso lo zabaione. Ma t'impressiona quel frutto stramaturo. Vino elegante. Aristocraticamente decadente. Ha freschezza, dolcezza contenuta, beva assoluta. Mi appare perfino salato, iodato. Magari averne qualche bottiglia...

15 gennaio 2010

Champagne Brut 2004 Deutz

Angelo Peretti
L'ho acquistato, il 2004 della Deutz, quand'ho visto che la Guida Hachette 2010 l'ha premiato col suo coup de coeur. E siccome è una guida di quelle che mi piacciono parecchio - e che seguo - non mi son fatto sfuggire l'occasione. E son contento di averne seguito il consiglio.
"Un Champagne digne de son nom", lo definiscono sul sito internet trasalpino sul quale ho fatto l'acquisto, e concordo in pieno. Ecco, è proprio così, champagnista in toto, ché quand'appena l'hai nel bicchiere e l'annusi, subito dici: "Champagne". Classicissimo. E molto buono.
Fatto per il 60% col pinot noir, per il 30 chardonnay e per il resto pinot meunier, ha colore giallo paglierino e bolla finissima e continua.
I profumi ricordano - tipicamente - la crosta di pane, la nocciola, e poi il fiore essiccato, la torta di mele, la brioche.
In bocca ha polpa e crema assieme: affascinante. E frutto giallo, albicocca. E croissant, e noce e nocciola e mandorla un po' tostata. E morbidezza intrigante.
Si beve e si ribeve con piacere.
On line lo trovate sui 47 euro.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)

14 gennaio 2010

Rias Baixas Albariño Granbazán Ambar 2006 Agro de Bazan

Angelo Peretti
Devo a Mario Plazio, ottimo degustatore, grand'esperto di vini francesi e di tant'in tanto anche redattore di qualche scheda che molto volentieri ospito su quest'InternetGourmet, la conoscenza di questo bianco spagnolo. Bel bianco.
Che l'albariño sia uva da tenere in gran considerazione non lo scopro certo io, ma devo dire che quand'ho avuto occasione di berne i bianchi della Rias Baixas spagnola, be', ci ho trovato gran bottiglie. Con quel frutto così croccante e quelle vene minerali che, a tratti, quasi ti ricordano un Riesling.
Ecco, questo Rias Baixas - il Granbazán Ambar del 2006 - l'ho trovato avvincente. Con un frutto, appunto, di una giovinezza straordinaria sia al naso che in bocca. Pesca bianca, albicocca, ananasso. Croccanti.
Ha una stoffa di tutto rispetto, senza perdere in beva, e anzi c'è una freschezza salina che ti fa bere un bicchiere dopo l'altro.
Sul fondo, una sottilissima vena tra iodio e idrocarburo, che non copre ma accentua il frutto.
Vino buonissimo ora, e che probabilmente reggerà molto bene anche qualche altro bell'anno nel vetro.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

13 gennaio 2010

Bevete soggettivamente: cin cin John e Dorothy

Angelo Peretti
Ho letto nell'utilissima sezione delle Wine Web News curate da Franco Ziliani sul sito internet dell'Associazione italiana sommelier che alcuni dei quotidiani americani che hanno (avevano) rubriche dedicate al vino han deciso di tagliarle. Effetto della crisi, probabilmente. E fra i tagli c'è anche quello delle narrazioni che da una dozzina d'anni John Brecher e Dorothy Gaiter conducevano sul Wall Street Journal. "This is our 579th - and last - 'Tastings' column" hanno scritto, malinconicamente, il 26 di dicembre. Dicendo, signorilmente, ai loro lettori, che i dodici anni passati sono stati una gioia "non tanto per il vino in sé, quanto perché abbiamo avuto l'opportunità di incontrare molti di voi, sia di persona che virtualmente. Grazie".
Non conoscevo la rubrica di Brecher & Gaiter - né ho la fortuna di conoscere loro -, ma una parte del loro ultimo articolo per il Wall Street Journal voglio provare a riportarla qui. Perché contiene un'idea così bella e così condivisibile della maniera d'approcciare il vino che sinceramente non sarei proprio capace di descrivere meglio.
Il concetto di fondo è uno solo: il piacere è soggettivo. Evviva.
Scrivono: "Nell'ultimo decennio, troppa gente è venuta a credere che ci sia una sorta di verità oggettiva riguardo al vino. Due più due fa quattro e dunque, andando nella stessa direzione, se bevi questo vino nella maniera corretta, nel bicchiere giusto e con una situazione pscicologica ideale, vedrai che vale davvero un 91, un very good o un tre stelle. Questo è un nonsenso".
Perché è un nonsenso? Perché contano anche il contesto, la situazione. Eccome se contano. "Il vino più delizioso che abbiamo mai assaggiato - dicono i due - è stato un Cabernet che abbiamo bevuto durante la nostra luna di miele in un vigneto vicicino a dov'è stato prodotto. Subito dietro c'è un Latour 1959 bevuto durante una delle rare visite a New York dal fratello di John", e via discorrendo, mettendoci dentro le bottiglie di Champagne stappate per il matrimonio e per la nascita delle figlie, oppure un Porto bevuto nel primo appartamento comprato, quando fuori imperversava una tormenta di neve.
I ricordi c'entrano, le emozioni anche.
E dunque, "se lasciate che la gente - scrivono splendidamente John e Dorothy - ridicolizzi un qualche vino che vi piace o che critichi la maniera in cui ve lo siete goduti, oppure se permettete agli altri di decidere per voi cosa sia o cosa non sia un buon vino, vi state proprio perdendo di vista il punto focale sul vino, che è questo: il piacere che provate con un vino è un'estensione di voi stessi, delle vostre emozioni, delle vostre esperienze e delle circostanze di quanto l'avete bevuto. Un vino veramente buono è come una poesia veramente bella: non riguarda quello che il poeta pensava o sentiva quando l'ha scritta, ma cosa pensate o sentite voi quando la leggete. Persone diverse proveranno sensazioni diverse per quello stesso identico vino, e vive la différence".
Ricordano che in tutti questi anni ci sono stati tanti lettori che hanno chiesto perché non si parlasse nella rubrica d'un certo tal vino che a loro - i lettori - era sembrato il migliore del mondo. La risposta è questa: "Se pensate di aver sentito la miglior sinfonia di sempre o di aver visto il più grande capolavoro o assaggiato il vino più straordinario, perché non dovrebbe essere vero, almeno per voi? E perché mai dovete averne una validazione da parte di qualcuno? Ci chiedono spesso se un costoso bicchiere della Riedel faccia sì che il vino abbia un sapore migliore. La nostra risposta è questa: se pensate che lo faccia, certo, lo fa. Non capiamo perché dobbiamo cercarci così tante complicazioni".
Bellissimo. Grazie a voi due, Dorothy e John: cin cin!

12 gennaio 2010

Alto Adige Pinot Nero Filari di Mazzon 2003 Ferruccio Carlotto

Mauro Pasquali
Il pinot nero è uva, ancor prima che vino, difficile e scorbutica. Necessita di clima e terreni particolari per poter esprimere il meglio di sé, oltre che di grande capacità del vignaiolo e del cantiniere. Preferisce zone fresche, con clima continentale: Borgogna, Nuova Zelanda, Oltrepò Pavese. E Alto Adige.
Ferruccio Carlotto fa parte di una famiglia che da tre generazioni coltiva uve, ma solo dal 2000 vinifica in proprio. Mazzon è una piccola collina sopra Ora ed è considerato il cru dei cru per quanto riguarda il Pinot Nero dell'Alto Adige. Qui Ferruccio e la figlia Michela riescono ad ottenere dei prodotti di assoluto livello, fra cui questo Pinot Nero 2003.
L'annata non è stata sicuramente delle più facili. Ciò nonostante questo Filari di Mazzon emerge per equilibrio e personalità. Alla vista è molto scarico, di quel colore tenue che solo i grandi Pinot Nero hanno.
Al naso piccoli frutti rossi: lamponi, fragole. Poi, ancora mirtilli sotto spirito, cacao, caffè.
In bocca entra bello asciutto e con grande eleganza. Si apre con un bel frutto croccante e una grande sapidità. Termina con una grandissima lunghezza con la bocca che rimane bella morbida a lungo.
Un Pinot Nero che ricorda i grandi Borgogna.
La foto è di Enoiche Illusioni.
Tre beati faccini pieni e convinti :-) :-) :-)

11 gennaio 2010

Conegliano Valdobbiadene Prosecco Brut Pas Dosé S.C. 1931 Millesimato 2006 Bellenda

Angelo Peretti
Un vino, come dire, "difficile", o meglio, che ti mette - che "mi" mette - in difficoltà, perché sovverte le (mie) convinzioni prosecchiste, sissignori.
Ho già detto qualche volta su quest'InternetGourmet che vedo il Prosecco come Charmat e per di più extra dry. Invece ecco che qui mi trovo con un metodo classico, brut e addirittura pas dosé, e per di più di vendemmia di tre anni fa. Agli antipodi.
Eppure devo ammettere che m'ha intrigato, questo Prosecco che in casa Bellenda han voluto dedicare a papà Sergio Cosmo (S.C.), il fondatore, e il 1931 è il suo anno di nascita.
Bel vino, ché ha carattere davvero notevole, si può bere come aperitivo un po' sopra le righe ma soprattutto sta in tavola da signore, anche con piatti piuttosto impegnativi. Ecco, sono soprattutto la stoffa e la tensione che m'hanno convinto. E la pulizia, ovviamente. E l'abbinabilità.
Al naso, leggerissima e accattivante vaniglia (forse dalla fermentazione nel legno), un che di crosta di pane da poco sfornato, e nocciola appena raccolta.
In bocca, frutto bianco ancora quasi acerbo. Fiori bianchi. Bolla minuta, ma nervosa. Asciutto, e ti lascia sorpreso quest'insolita percezione su un Prosecco.
Ecco: sorprendente è la parola.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

10 gennaio 2010

Dove va (dov'è) il mondo del vino?

Angelo Peretti
Commentando qualche giorno fa la questione dello spumante TrentoDoc imbottigliato dalla Cavit per Eurospin e venduto sotto le feste di fine anno nei supermercati di questa catena all'incredibile cifra di 3,49 euro con l'etichetta Corona, scrivevo che il fenomeno appunto delle "private label" - degli imbottigliamenti personalizzati per la grande distribuzione - mi sembra destinato a crescere anche qui in Italia, com'è già accaduto da diverso tempo all'estero.
Se questo fosse vero, il "caso" TrentoDoc Corona non sarebbe che un primo - pur importante - passo in quella direzione. Ma, attenzione, quando parlo di vini "private label" per questa o quella catena, non voglio assolutamente parlare di vinelli di poco costrutto: il TrentoDoc in questione era un vino che valeva parecchio di più del prezzo a cui era offerto. E così sarà probabilmente anche per altri analoghi casi che si dovessero verificare di qui in avanti. Insomma: potremmo avere - credo - sempre più spesso casi di vini più che accettabili, a prezzi più che abbordabili, col marchio del supermercato.
La questione di fondo, a mio avviso, è doppia. Da un lato, i buyer della grande distribuzione - e soprattutto delle catene hard discount - considerano il vino come una qualunque altra commodity, un qualunque altro bene di consumo. Dall'altro, di vigne negli ultimi decenni ne sono state piantate così tante che c'è un eccesso di produzione un po' ovunque, ma grazie al miglioramento delle capacità tecniche in vigna e in cantina, i vini che se ne ricavano sono tutto sommato comunque ben fatti, e dunque trovar buoni vini a quattro soldi sta diventando sempre più facile. Ergo: perché mai i buyer della gdo dovrebbero mettersi in casa vini griffati da questo o quel marchio - riconoscendo valore aggiunto, appunto, alla marca del produttore - quando invece possono comprare in cisterna, far imbottigliare a marchio proprio e lucrare discreti margini reddituali su un bene di consumo che di margini non ne offre più tantissimi?
I primi segnali si sono intravisti nell'ultimo paio d'anni: a livello internazionale, i buyer della gdo hanno preteso listini sempre più limati da parte dei fornitori, arrivando a proporre prezzi che non remunerano quasi più neppure i costi di produzione. Eppure i vini li hanno trovati lo stesso, e neppure così male in termini qualitativi, ché altrimenti i consumatori li avrebbero rifiutati. Il discorso è quello fatto sopra: le cisterne, in giro per il mondo, sono strapiene, e la qualità media non è tanto cattiva.
Si potrà obiettare: è un mero fattore congiunturale, dovuto alla crisi prima finanziaria e poi economica. Ritengo purtroppo che non sia così: è un cambio concettuale. In base al quale il vino - nella sua accezione più "globale" - non è più considerato un bene di lusso, non è neppure più ritenuto una risposta a domande di stampo edonistico, è semplicemente concepito e proposto come un bene di consumo, da vendere al prezzo più basso possibile, ma alla qualità più alta percepibile per quel prezzo.
Il che, se fosse vero, avrebbe una conseguenza per certi versi drammatica: quella di appiattire e omologare i prezzi di mercato a livello internazionale: tot euro per un bianco, tot euro per un rosso, a prescindere dalla sua provenienza. E poiché a quel punto i margini reddituali per i vinificatori e i commercianti andrebbero comprimendosi sempre di più, questi si troverebbero a stringere il cappio al collo ai produttori di uva, scaricando su di loro, appunto, la minor redditività: tot per l'uva bianca, tot per quella rossa, a prescindere da tutto il resto.
Mi pare che le prime pesanti avvisaglie le abbiamo già avute con l'ultima vendemmia.
Mi si dirà che a quel punto molti contadini estirperebbero i vigneti facendo mancare uva, e così i prezzi potrebbero tornare a risalire. Ma non ci credo, per un semplice motivo: chi ha terra agricola, cosa ci pianta, oggi, al posto delle vigne, visto che non c'è un prodotto del settore primario che renda ancora abbastanza da mantenere una famiglia? Terrebbero le vigne. E si accontenterebbero di perderci il meno possibile. Non di guadagnarci.
Brutte prospettive. Ma ovvio che le eccezioni ci possono essere: mica voglio passare per catastrofista. Solo che vanno cambiate le regole del gioco, e non è mica facile. Attenzione: mica facile, non impossibile. Spero.

9 gennaio 2010

Collio Bianco Roncús Vecchie Vigne 2002 Roncús

Mauro Pasquali
Una caratteristica contraddistingue il mondo del vino in generale: si tratta del prodotto alimentare meno chiaro, dal punto di vista etichettatura, che si conosca.
C'è l'uva, ovvio, e spesso, ma non sempre, viene dichiarato in etichetta di quale uva si tratti e in che percentuale. Poi ci sono i solfiti, anch'essi dichiarati in etichetta se superano i 10 mg/litro, ché la legge lo impone. Ma quanti? E, poi ancora: quante altre sostanze, naturali per carità, sono contenute in quella bottiglia?
Ecco, Marco Perco, titolare di Roncús, dichiara nella controetichetta tutto questo e molto altro. A cominciare dalle uve: 70% malvasia istriana, 20% tocai friulano e 10% ribolla gialla. Ma dichiara anche: 85 mg/l di solforosa totale, 4,9 di acidità, PH, zuccheri residui e così via. Se tutti i produttori avessero lo stesso coraggio, si farebbe un grande passo in direzione della trasparenza nel mondo del vino!
Il vino: cosa aspettarsi da un 2002 contraddistinto da grandi piogge e temperature basse? Siamo di fronte all'ennesima prova che non bisogna mai fidarsi delle apparenze.
Questo Roncús Bianco si presenta di un bel giallo oro, con profumi freschi di erbe aromatiche, fiori bianchi, un che di miele d'acacia.
Entra in bocca asciutto e deciso con grande sapidità ed armonia. Ti avvolge con sentori di pesca gialla, litchi, frutta secca. Alla fine ti lascia la bocca bella pulita e con un gradevolissimo retrogusto minerale.
Un grande vino che fa ricredere su quanto dichiarò tempo fa Marco Perco: “Difficile prevedere in un'annata così la durata, pensiamo sia meglio bere entro gli 8 anni, chissà...“
Tre beati faccini pieni e convinti :-) :-) :-)

8 gennaio 2010

Il "personaggio" del decennio nel mondo del vino? Il tappo a vite!

Angelo Peretti
Il personaggio dell'ultimo decennio nel mondo del vino? È un oggetto: lo screwcap, il tappo a vite, o meglio, come preferisco tradurre, la capsula a vite. Lo propone il wine writer inglese Jamie Goode sul suo blog. E per quel che conta mi associo. In toto.
Dice Jamie (la traduzione è mia): “Dieci anni fa le cose andavano abbastanza male per il tappo di sughero. L’odore di tappo era un grosso problema e gli australiani si arrabattavano anche con quel fenomeno che veniva detto dell’ossidazione random, provocata dalla variabilità del tipo di trasmissione dell’ossigeno dovuta alla scarsa qualità dei tappi. L’unica alternativa al tappo tradizionale era il nuovo, ma scarsamente efficace, tappo in plastica, ma anche questo non andava conquistando troppi amici. In tal modo, i produttori di tappi in sughero non erano granché incentivati a migliorare il loro gioco, dato che godevano di quella che era a tutto gli effetti una situazione di monopolio. Il punto di transizione avvenne nel 2000, quando un drappello di produttori della Clare Valley si coalizzarono per imbottigliare i loro Riesling con lo screwcap. Quest’iniziativa, e la pubblicità che ne seguì, ha cambiato per sempre il mercato delle tappature”.
I primi studi che pervennero dall’Australia – ho abbandonato il virgolettato cercando di sintetizzare – mostrarono che le capsule a vite mantenevamo la freschezza e il frutto del vino per un tempo ben più lungo di qualunque altro sistema di chiusura, compreso il sughero. Così i produttori australiani e neozelandesi passarono rapidamente allo screwcap. Oggi, la capsula alternativa è ampiamente diffusa anche in altre zone.
Certo, anche lo screwcap non è perfetto. E non è stato neppure accettato in tutti i mercati (ne sappiamo qualcosa in Italia, dico). “Ma quel che ha fatto – torno alla citazione diretta – è stato di cambiare completamente il mercato delle chiusure. Se non fosse stato per gli screwcap, è improbabile che l’industria dei tappi avrebbe implementato le misure dei controlli di qualità. Ed è altrettanto improbabile che avremmo visto la nascita di altri tappi alternativi”.
Sono d’accordo, assolutamente. Personalmente, sono uno screwcap-fan (anzi, tifo in particolare per lo Stelvin), ma concordo sul fatto che anche chi non s’è convertito alle nuove chiusure a vite abbia comunque dovuto fare i conti con la qualità delle chiusure. E questo vale sia per chi fabbrica tappi, sia per chi imbottiglia. A maggior ragione dovrebbe valere per i consumatori, gli enotecari, i ristoratori, anche in Italia: possibile che la vetusta ritualità della stappatura per così tanta gente conti ancora di più della qualità del vino?

7 gennaio 2010

Champagne Reserve Brut Thierry Massin

Angelo Peretti
Dicono: "Ma lo Champagne è caro". Dico: "Ma siete proprio così sicuri?" Sì, vero, in Italia costa caro, ché i distributori prima e gli enotecari poi (e i ristoratori per giunta) ci fanno sopra spesse volte ricarichi notevolissimi. Ma mica bisogna per forza comprarselo qui lo Champagne, e neanche occorre forzatamente prender la macchina e farsi chilometri e chilometri. Basta qualche clic su internet.
Su internet ci ho comprato questo Brut Reserve di Thierry Massin, due stelle (su tre di massima valutazione) da parte della guida Hachette 2010.
Pagato 21,50 euro, che non è cifra da capogiro. E il vino se li merita, quei soldini.
Fatta con vini dei millesimi del 2004 e del 2006, soprattutto pinot noir - è all'85% - e poi chardonnay, questa cuvée si fa bere con piacere.
Magari, ecco, a voler fare i pignoli, il naso non l'ho trovato subito pulitissimo, ma è stata questione di pochi minuti, e s'è aperto alla grande. Ed ecco dunque uscir fuori fiori bianchi e note sottili di brioche all'albicocca.
In bocca s'è presentato cremoso, un po' morbido, ma piacevolmente salato anche. E anche vene floreali e fruttino di bosco. E, sotto, memorie di nocciola.
Bella bottiglia da aperitivo.
Due lieti faccini :-) :-)

6 gennaio 2010

Novità a Margaux

Angelo Peretti
Non so quanto fra i lettori di quest'InternetGourmet siano appassionati del velluto dei vini di Margaux, star fra le denominazioni bordolesi. Personalmente, sono tra i fan dell'appellation. E tra le buone bottiglie a prezzi non da svenarsi all'interno dell'aoc indico certamente quelle degli Château Labérgorce e Labérgoce Zéde. Solo che fra un po' dovrò parlarne al passato, del secondo.
Da quel che leggo sul numero decembrino di Decanter, accade che Château Labérgorce Zéde sta per essere assorbito da Château Labérgorce, che diventerà così un'azienda da 55 ettari complessivi.
Labérgoce Zéde scompare, dunque. Perché dalle vendemmie a venire, la casa bordolese metterà in commercio il rosso di Château Labérgorce e poi un second vin chiamato Zédé de Labérgoce.
Per chi volesse farsi un'idea dei due vini, consiglio l'annata 2005, che ho visto ancora in vendita su Wineandco: ci trovate Château Labérgorce a 30 euro e poi Labérgoce Zéde a 29. Prezzi, a mio avviso, meritati, per delle bottiglie che si stappano di già con piacere, e che son molto probabilmente destinate a dare il meglio di sé fra qualche bell'annetto.
Fruttino rosso (parecchio mirtillo), vene floreali, qualche accenno di tabacco da pipa, tannino di già non particolarmente aggressivo, destinato con amplissima probabilità a diventar velluto puro. Per entrambi.

5 gennaio 2010

Piemonte Moscato 2009 Piero Gatti

Angelo Peretti
Ancora un Moscato del 2009? Sissignori, ma stavolta della doc Piemonte, fuori dalla denominazione astigiana garantita, dunque. Quello di Piero Gatti.
Al naso s'avvertono curiose memorie di mosto che fermenta, di uva bianca stramatura. Perfino richiami al miele.
In bocca sfoggia una notevole florealità estiva, e vene di uva sultanina, di uva moscato molto matura quanto meno, eppi anche di pesca gialla matura e a tratti financo sciroppata.
La dolcezza è in rilievo, ma vien compensata da una bella freschezza.
Sul finale lo zucchero da uva sultanina tende ad uscire, lasciando impressioni quasi da vino passito, piuttosto persistenti.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)

4 gennaio 2010

Due bicchieri di Champagne al giorno levano il medico di torno

Angelo Peretti
Un lancio Ansa c'informa che uno studio pubblicato dal British Journal of Nutrition avrebbe dimostrato che bere due bicchieri di Champagne ogni giorno farebbe bene alla salute. Il beneficio deriverebbe dal fatto che quando si beve Champagne - e cito di seguito le parole di Jeremy Spencer, il ricercatore che ha dato alle stampe la propria indagine -, "i polifenoli di cui è ricco, entrano nel flusso sanguigno dove agiscono sul sistema vascolare. Specificatamente sembra rallentino l'eliminazione naturale dell'ossido nitrico dal sangue permettendo a questo di dare i suoi effetti benefici sul sistema circolatorio più a lungo. Alti livelli di ossido nitrico nel sangue come conseguenza dello bere Champagne possono avere benefici effetti perchè oltre ad aumentare il flusso sanguigno aiutano a ridurre la pressione e la possibilità di addensamenti sanguigni. Questo, di conseguenza, riduce la possibilità di malattie cardiovascolari e infarto".
Poi c'è un'aggiunta: "Studi più approfonditi sono necessari però - avverte il ricercatore - per verificare gli effetti a lungo termine del consumo regolare di Champagne".
Sappia l'esimio scienziato che mi offro volentieri come cavia. Anzi, se qualcuno conoscesse il suo indirizzo...
A proposito: sarei un po' curioso di apprendere anche chi cavolo finanzi - e con quale denaro - questo genere di ricerche scientifiche. Così, giusto per sapere.

3 gennaio 2010

TrentoDoc (si scrive così?) a 3,49 euro: l'ho provato e...

Angelo Peretti
L’ho provato. Sissignori: sono andato all’Eurospin e ho comprato il TrentoDoc (giusto scriverlo così? Non vorrei che gli amici trentini s’offendessero dopo i quattrini spesi a inventare il nuovo logo) Corona a 3,49 euro. Il 2 gennaio, ultimo giorno dell’offerta. E l’ho anche provato. E sotto vi conto com’è andata. Ma prima c’è il prima.
Il prima sono tre: (1) una pagina pubblicitaria della catena dei supermercati Eurospin pubblicata sui quotidiani di mezz’Italia, (2) un articolo di Francesca Negri sul Corriere del Trentino e (3) un pezzo di Franco Ziliani sul suo wine blog Vino al Vino.
La pagina pubblicitaria (1) l’ho vista su L’Arena, il giornale della mia provincia, ma confesso che non ci avrei fatto moltissimo caso se non avessi letto il post di Ziliani (3), che riportava a sua volta il pezzo della Negri (2).
Diceva l’articolo del Corriere del Trentino: “Un TrentoDoc a 3,49 euro. E non a partire da gennaio, periodo che, si sa, è tra i meno redditizi per le vendite di bollicine. Eurospin, la grande catena tedesca di hard discount, in questi giorni sta pubblicizzando su tutte le testate nazionali le sue promozioni di Natale: dal 17 dicembre al 2 gennaio, quindi in pieno boom di vendita di spumanti, tra i prodotti in promozione c’è anche il Corona Brut TrentoDoc, che si può acquistare, appunto, a 3,49 euro. Una private label, cioè un’etichetta privata in questo caso di Eurospin, confezionata ad hoc, come si legge in etichetta, da C.V. di Ravina, ovvero da Cavit. E con il logo TrentoDoc (quello studiato dalle blasonate agenzie milanesi Minale Tattersfield e Leo Burnett di cui tanto si fregiano i produttori locali e Trentino Spa) bello in evidenza in etichetta”.
Chiaro che la faccenda era di quelle destinate a far rumore fra i tridentini: che in pieno periodo di boom delle bollicine ci sia in giro un TrentoDoc (giusto scriverlo così? Mah) a 3,49 euro non dà certo una grand’immagine della spumantistica locale. La Negri è andata a chiederne conto ad Enrico Zanoni, neodirettore del colosso Cavit, che le ha dichiarato: “Le attività promozionali di questo tipo sono libera iniziativa del distributore, nella fattispecie Eurospin, anche perché Cavit non può imporre i prezzi di vendita. Cavit ha fatto e sta facendo tutto quanto il necessario per evitare che si ripetano cose di questo tipo e per impedire che vengano applicati prezzi non congruenti alla valorizzazione del TrentoDoc”. E chi vuol leggere il resto può andare a vedere l’articolo in originale.
Passo ora a Franzo Ziliani, che, senza mezzi termini - come gli è solito – parla della “geniale ‘pensata’ di mettere in vendita, o quantomeno fornire il prodotto, per un TrentoDoc proposto sullo scaffale ad un prezzo ‘impossibile’, che rende il prodotto addirittura meno caro di un Prosecco ordinario e lo presenta, con evidente danno d’immagine per la denominazione, come un banale spumantino (di quelli che vanno a costituire il volume del cosiddetto “spumante italiano” che piace tanto al ministro Zaia e ai suoi coriferi), o come uno di quei vini che possono essere commercializzati ad un prezzo ridicolo”.
E pensare che la Cavit – lo si leggeva sopra – è stata da poco premiata dalla guida del Gambero Rosso come produttore dello “spumante dell’anno 2010” proprio per un TrentoDoc, l’Altemasi Graal.
Viste tutte ‘ste premesse, giuro che non ho saputo resistere. E dunque ho preso la macchina e sono andato all’Eurospin più vicino – quello di Cavaion Veronese – e alle 15.57 del 2 gennaio ho comprato ben due bottiglie di TrentoDoc Corona a 3,49 euro cadauna. E in serata ne ho stappata una insieme a un amico ristoratore. E adesso vi conto com’è andata.
Colore. Sorprendentemente accattivante. Oro antico, lampi verdi.
Naso. Non enormemente espressivo, ma tipicamente da metodo classico. E cioè crosta di pane, nocciola. Un pelino di vaniglia. E pulizia. Proprio non male.
Bocca. Ecco, magari da quel che hai trovato al naso, t’aspetteresti qualcosa in più al palato. Il vino appare un po’ semplice, scarseggia un pochetto in termini di struttura e lunghezza. Epperò c’è da dire che ha una bolla piuttosto cremosa, una morbidezza abbastanza accattivante e, pur accennate, le medesime sensazioni già colte annusando, in continuità. Ed anche in questo caso s’esprime con considerevole pulizia.
Insomma: un vino che come aperitivo sa giocarsi le sue carte. E che, comparato con i prezzi che ci sono in giro nel mondo del metodo classico, vale sicuramente di più di 3,49 euro. Il che vuol dire che alla Cavit lavorano comunque bene e che soprattutto i buyer dell’Eurospin sanno il fatto loro quando vanno a comprarsi i lotti da far imbottigliare a private label.
Dunque, il consumatore che s’è fatto irretire dalla pubblicità dei quotidiani ha fatto un affare, a mio vedere. Lui sì. La spumantistica trentina non credo, ma questo è un altro discorso.
Poi, ci sarebbe da dire altro sulla grande distribuzione, sul suo rapporto col vino, sull’andamento dei prezzi, sulla remunerazione della materia prima (l’uva, intendo) e via discorrendo. Ma è questione lunga e complicata, su cui vorrei soffermarmi con un altro intervento.
Per il momento dico semplicemente questo: il “caso” TrentoDoc dell’Eurospin non sarà di qui in poi l’unico, e forse non è neanche stato il primo. Voglio dire: il “caso” d’un vino comunque ben fatto venduto a prezzi molto bassi con la formula della private label. Anzi: credo che il fenomeno possa esser destinato a crescere ancora. Qui in Italia, intendo, ché all’estero è già consolidato. E su questo c’è da riflettere. Parecchio.