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11 aprile 2011

Come come? Il vino non sarebbe più un alimento?

Angelo Peretti
Ultima puntata del mio personale excursus tra le cose lette o sentite a Vinitaly, e faccio riferimento in particolare al dibattito sull'andamento del mercato italiano. E dall'inchiesta voluta da VeronaFiere sull'argomento son venute fuori - era inevitabile - parecchie ovvietà, ma anche degli spunti di riflessione notevoli. A volta anche delle affermazioni per me un po' sorprendenti. Ora, non so se quanto si legge in un comunicato stampa di Vinitaly corrisponda esattamente al suo pensiero, ma la frase attribuita alla gamberista Eleonora Guerini m'ha fatto sobbalzare sulla sedia. La frase è questa: "Per Eleonora Guerini bisogna scrollarsi di dosso quel complesso di inferiorità che impedisce di comunicare la qualità dei vini italiani, in questo momento secondi a nessuno, ma bisognerebbe anche che i produttori smettessero di pensare ai propri vini come a un alimento, visto che per i consumatori non lo è più".
Come come come? Per i consumatori il vino non è più un alimento? E sulla base di cosa si fa un'affermazione del genere? Certo, per gli enosnob il vino è soprattutto oggetto di godimento o status symbol. Ma per la gran parte dei consumatori il vino è ancora un pezzo di desco quotidiano. Sennò come lo spiegheresti che il vino più venduto in Italia è il Tavernello? Quello mica lo si compra per farci bella figura con gli amici a cena, e neppure per favorire la conversazione, e men che meno come istrumento di meditazione colta. Nossisgnori: lo s'acquista per berlo mentre si mangia. Come alimento. E questo vale per la stragrande maggioranza del vino italiano. Ed è una fortuna che sia così. Ed anzi, invito gli enostrippati a far marcia indietro e a riportare il vino là dove sta benone: in tavola. Come alimento. Piacevole. Da condividere. Elemento di convivialità.

10 aprile 2011

La casalinga di Voghera lo capisce che il vino è "un fenomeno e spettacolo naturalistico"?

Angelo Peretti
Qualche giorno fa commentavo l'indagine che il Vinitaly ha lodevolmente scelto di condurre nelle scorse settimane sull'andamento del mercato del vino in Italia. Intervistando vari esponenti della produzione e della comunicazione. Dicevo io, commentando, che c'è a mio avviso una maniera sola di far tornare seriamente la gente al vino, ed è quello di parlargliene nella più assoluta semplicità, parlando come t'ha insegnato tua madre, e facendoglielo assaggiare, 'sto benedetto vino.
Temo che questa maniera di parlare i cosiddetti comunicatori del vino l'abbiano smarrita per strada da lungo, lungo tempo, e forse anche in questo sta parte della disaffezione che un sacco di gente ha verso il vino, giudicato troppo elitario. Insomma, la casalinga di Voghera e il sciùr Mario, impiegato di banca, non comprano più il vino al ristorante perché hanno una fifa boia di sbagliare, di farsi prendere in giro solo perché non sanno come si fa a pirlare intorno il bicchiere. Al massimo arrivano a dire se gli piace o no (che poi bisognerebbe spiegargli che invece hanno capito tutto e che è questa la vera essenza della degustazione: dire se quel vino ti piace oppure no, e se ti piace è buono e se invece non ti piace allora per te non è buono, punto a basta).
Quasi a riprova del fatto che c'è una spaccatura fra il linguaggio della gente comune e quello dell'esperto, ecco che nell'indagine del Vinitaly sui perché della crisi del mercato italiano del vino leggo il commento di un critico di settore, Luca Maroni, che dice che serve “un Rinascimento culturale agricolo e naturalistico del nostro Paese – dice il giornalista Luca Maroni -, attraverso un progetto strategico che divulghi l’Italia del vino e degli alimenti come un fenomeno e spettacolo naturalistico, esempio di bellissime umanità virtuosamente applicate”.  Ecco, se la dici alla casalinga di Voghera, una cosa del genere, stai fresco che compra ancora una bottiglia di vino.

9 aprile 2011

Se gli altoatesini hanno una marcia in più

Angelo Peretti
Se andate a vedere il sito del Vinitaly, scoprirete che c'è una sezione titolata L'Italia del Vinitaly. Contiene la presentazione delle caratteristiche produttive delle varie regioni italiane. Stavo per scrivere delle regioni vinicole italiane, ma in realtà tutte le regioni italiane fanno vino.
Perché ne scrivo? Perché se andate a scorrere le varie pagine, troverete qualcosa che fa pensare. Questo: nelle varie presentazioni regionali si riporta il logo della Regione. Che c'è di strano? Niente. Se non fosse che l'Alto Adige ha un logo diverso: c'è il marchio Südtirol, certo, ma è piccoletto e per di più in grigio, poco evidente, mentre a spiccare è il doppio testo Südtirol Wein - Vini Alto Adige. Sissignori, i sudtirolesi presentano non già il logo della provincia autonoma, bensì il marchio dei loro vini. Marchio unitario.
Così si fa marketing territoriale, così si crea sistema, altroché. Concentrandosi sul prodotto, mica disperdendosi in mille bla bla bla. C'è da promuovere il vino dell'Alto Adige? E allora ecco il logo dei vini dell'Alto Adige. E basta.
Oh, sia chiaro: stavolta il fatto che abbiano la provincia autonoma e dunque un sacco di quattrini a disposizione non c'entra. Loro la promozione unitaria la fanno, e avere un marchio unitario non è questione di soldi. Semmai è questione di testa.

8 aprile 2011

Al supermercato crolla in vino in brik e cresce quello a doc, ma non c'è da stupirsene

Angelo Peretti
Vado avanti in questi giorni vinitalyani nel dire la mia sui temi che ho visto affiorare sul sito del Vinitaly. Oggi per esempio, 8 aprile, è in programma un convegno della fiera veronese per la presentazione di una ricerca condotta SymphonyIRI sull'andamento delle vendite del vino nella grande distribuzione. I risultati sono stati ovviamente anticipati da tempo tramite un comunicato stampa, che dice: "Calano le vendite del vino confezionato, ma crescono i vini a denominazione d’origine di fascia alta". Insomma, come si legge, "anche le vendite di vino nei supermercati nel 2010 risentono della contrazione dei consumi e confermano le difficoltà dell’intero mercato nazionale del vino". Però mentre "il dato totale delle vendite del vino confezionato (vino in bottiglia, da tavola e a denominazione d’origine, e vino brik) nel 2010 rispetto all’anno precedente è negativo, facendo segnare - 0,9% a volume (+ 0,4% a valore)", viene evidenziato che "crescono, invece, le vendite delle bottiglie da 0,75 l a denominazione d’origine (doc, docg e igt) che aumentano del 2,3% a volume ( e del 3% a valore). Ancor più significativo l’aumento delle vendite delle bottiglie a denominazione d’origine della fascia di prezzo da 6 euro in su, che mettono a segno un + 11,2% a volume ( e + 10,8% a valore)".
Come si devono leggere 'sti strani dati? Boh, ce lo diranno gli esperti. Quanto a me, la mia lettura è quella della celebre casalinga di Voghera. E dunque, per cercare di farmi capire anche dalle altre casalinghe, la articolo in tre punti. Primo, la povera gente non ce la fa più ad arrivare a fine mese, e dunque taglia tutto quel che può tagliare, ed è la gente che comprava il vino in brik o comunque il vino generico, e siccome non ha più soldi non lo compra più. Secondo, la cosiddetta "classe media", anche quella tira un bel po' la cinghia, e allora invece di andare al ristorante tutte le settimane preferisce stare a casa, ma una discreta bottiglia la vuole pur bere, e dunque quando va a far la spesa per comprare la roba da mangiare con i parenti o gli amici, compra anche la bottiglia di vino, ma siccome è in difficoltà ma non è ridotta alle pezze al culo, almeno si permette una bottiglia doc, non proprio di fascia bassissima, e dunque spende volentieri quei 6-8 euro che ti permettono di far bella figura comunque. Terzo: un po' tutti sono terrorizzati da 'sta maledetta storia della patente a punti, e dunque fuori casa non bevono più, per paura di essere beccati dall'etilometro, e allora cercano magari di bere una bottiglia a casa, e si ritorna allora al punto due, con le considerazioni che ho appena fatto.
Troppo semplicistico? Be', invece che ai superesperti, andate magari a domandarlo alla casalinga di Voghera o al sciùr Mario che fa l'impiegato in banca, e sentirete.

7 aprile 2011

Riportiamo il vino fra la gente!

Angelo Peretti
Tra i tanti comunicati stampa che compaiono sul sito del Vinitaly, ce n'è uno dedicato al mercato italiano del vino. Attenzione: al mercato italiano, ai consumi interni. La cosa, di per sé, è una notizia: finalmente ci si preoccupa anche del mercato interno, dopo che ci hanno fatto una testa così dicendomi che o vai all'estero o non sei nessuno. Nossignori: il mercato italiano resta importante per il nostro vino, e andrebbe curato un po' di più e un po' meglio. Oh, sì sì.
Detto questo, sul comunicato del Vinitaly, uscito da un'indagine condotta nelle scorse settimane, si dice: "Si discute su come conquistare nuovi mercati, nella convinzione che chi non conosce il vino non lo può apprezzare, e intanto non si fa niente per i nuovi consumatori italiani. Quali? Quelli che negli ultimi 20 anni hanno cambiato radicalmente abitudini alimentari e sociali e i giovani, che il vino non sanno nemmeno come si produce". Parole sante. Solo che poi le soluzioni proposte son le solite, coi paroloni tipo "programmi di comunicazione" e "strategie".
Personalmente, ho una convinzione, che è come la scoperta dell'acqua calda, ma che credo sia pur sempre una scoperta, visto che l'acqua calda non se la fila nessuno, e si va invece a cercare la luna nel pozzo. La mia convinzione è che bisogna tornare a parlar di vino parlando come t'ha insegnato tua madre, e cioè con assoluta semplicità, e che bisogna che prima di tutto, prima di ogni chiacchiera, il vino si torni a farlo assaggiare alla gente (come volete che facciano a comprarlo, sennò: dovrebbero fidarsi delle chiacchiere?), e che tutto questo occorre che sia fatto dove la gente c'è ed è disposta a perdere due minuti per assaggiare e ascoltare il minimo che c'è da ascoltare (il minimo!).
Si obietterà: sì, belle parole, ma dov'è mai 'sto posto così magico?
Oh, è nelle prime periferie d'ogni città: si chiama centro commerciale, ipermercato, supermercato, outlet. Quello è il luogo della "nuova" aggregazione, che piaccia o no. Lì si deve riportare il vino. Lì lo si deve far assaggiare. E mica coi sommelier in livrea, nossignori. E ci vuole una bella dose di umiltà per farlo. E soprattutto ci vuole il linguaggio della semplicità, che è il linguaggio dell'outlet e del centro commerciale, appunto. Riportiamo il vino fra la gente, signori miei, e facciamolo parlando la lingua della gente. Quella comune.

28 marzo 2011

Rilancio: e se invece il Vinitaly lo aprissimo la domenica e lo chiudessimo il mercoledì?

Angelo Peretti
Giovedì 7 aprile a Verona si apre la quarantacinquesima edizione del Vinitaly. E come ogni anno ci sarà chi dice che non si può mancare e chi afferma che non ci va neanche morto e chi sostiene che è un caos e chi assicura che se non ci vai non sei nel business, e via discorrendo. D'altro canto, non fa parlar di sé solo chi non conta, e se invece Vinitaly fa tanto parlar di sé è perché, evidentemente, conta.
Il problema, semmai, è che anche quest'anno il Vinitaly apre di giovedì.
E dunque avremo il solito tran tran, con gli affari che (se si fanno) si fanno dal giovedì al sabato mattina, e poi il sabato pomeriggio e la domenica c'è l'assalto della folla (ma non è una fiera solo per addetti ai lavori?) e il lunedì trionfa solo la stanchezza.Un anno fa la situazione la descrivevo così: "L'attuale formula funziona, ma scricchiola. Per più ordini di motivi. Il primo: la stampa e i buyer internazionali sono a Vinitaly dal giovedì al sabato. Poi rientrano, anche per questioni di voli (la domenica è più complicato). Poi: il sabato la fiera resta in balìa di troppi visitatori che col business e con la passione del vino non c'entrano niente (dice niente il numero degli sbronzi in giro per i padiglioni la sera?). La domenica è un bagno di folla, il che è positivo in termini di fidelizzazione del consumatore finale, ma non consente di fare affari: costo puro per i produttori (che tra l'altro la domenica, dopo tre giorni di fiera, sono già 'cotti'). Il lunedì è il giorno della stanchezza e dell'oblio, mentre dovrebbe essere la giornata dei ristoratori, che invece - con buona ragione, essendo gli espositori in smobilitazione - disertano".
E facevo una proposta: "Mettiamo invece il caso che si apra la domenica per chiudere il mercoledì. Il sabato potrebbero agevolmente arrivare gli operatori esteri e per loro - così come per la stampa di settore - si potrebbero allestire serate promozionali in città e nelle province vicine: un'occasione di business extra fiera in più. Per gli arrivi a Verona, il sabato ci sarebbe l'opportunità di sfruttare voli low cost, minor affollamento sui treni e autostrade meno trafficate. La domenica - con gli espositori ancora 'freschissimi' - ci sarebbe il consueto bagno di gente, ma senza i caciaroni-ubriaconi del sabato. La domenica costituirebbe poi un'occasione d'oro per i media generalisti, che troverebbero pane per la loro smania di folla e di gossip, con corrispondente visibilità della fiera. Dal lunedì al mercoledì si farebbe effettivamente business, oltretutto con la ristorazione che potrebbe 'riappropriarsi' della fiera".
Simili proposte arrivarono da qualche consorzio di tutela. Poi non ne ho più saputo nulla. Che sia il caso di rilanciare?