5 agosto 2008

Et voilà, adesso lo Stelvin va anche sui vini da invecchiamento

Angelo Peretti
Ciliverghe di Mazzano è un paesino grosso modo a metà strada fra Brescia e il lago di Garda. Un tempo, credo, era zona d’agricoltura e basta. Adesso è arrivato (anche qui) l’assalto dei capannoni e dei centri commerciali. Resta, però, una villa importante, quella dei Mazzucchelli. Che ha, in un’ala, un museo del catappi. Collezione ricchissima. Con pezzi antichi, qualcheduno anche civettuolo e qualche altro decisamente osè. E penso che il cavatappi possa davvero esser cosa da museo se avanza l’onda delle nuove chiusure per il vino.
Che io stia tendenzialmente dalla parte del tappo a vite è abbastanza noto a chi mi legge. Ma c’è chi ha dubbi sul fatto che questa tappatura non sia adatta alle bottiglie da invecchiare. Io comincio a pensarla decisamente in modo diverso: si può mettere lo Stelvin anche sui vini da far affinare a lungo. E una notizia che arriva dall’Australia via Wine Spectator sembra darne una prima conferma.

Sul numero di luglio c’è un pezzo di Harvey Steiman dal titolo «Doing the Twist, Retroactively», che potrei tradurre con «Avvitando, retroattivamente», che non suona bene ma rende l’idea. Vi si racconta che, nel mentre tra i produttori di vino si discute ancira se sia il caso di rimpiazzare il sughero con le chiusure alternative, in terra d’Australi ce n’è uno, di vignaioli, che ha fatto un passo ancora più in là: la Leeuwin Estate, il marchio ritenuto migliore per lo Chardonnay della terra dei canguri, di recente ha reimbottigliato e ovviamente ritappato tutta la sua collezione di vecchie annate con lo screw cap, il tappo a vite. E la raccolta di Chardonnay della casa data dal 1980, e in azienda ce ne sono grosso modo dodici casse per ogni annata. Le bottiglie sono state aperte una per una, assaggiate, trasferite in vetri adatti al tappo a vite, colmate con lo stesso vino, e ritappate sotto azoto per evitare d’innescare processi d’ossidazione. Il tutto con un lavoro d’un paio di mesi e un costo intorno ai sessantamila dollari, che non è una cifretta di poco conto.
Si dirà: un colpo di testa, la ricerca di pubblicità tutto sommato a buon mercato. E poi, si obietterà, chi ci assicura che lo Stelvin è meglio del sughero per far durare il vino? Vabbé, tutto è opinabile al mondo, però in quell’azienda australiana i primi esperimenti d’imbottigliamento con lo screw cap risalgono al 1993, e la serie storica comincia dunque a essere parecchio affidabile: quindici anni non sono pochi, lo si ammetta. E Denis Horgan, il patron della Leewin Estate, dice a Wine Spectator che quelli in tappo a vite si son sempre dimostrati più freschi di quelli in sughero.
Ora, chiaro che prima di condividere una simile affermazione occorrerebbe metterci il naso e la bocca su quei vini. Ma non ho grandi dubbi nel pensare che possa davvero essere così. Del resto, i recenti test fatti alle Fraghe sul Chiaretto e sulla Garganega dimostrano che anche solo dopo quattro-cinque mesi dall’imbottigliamento, lo Stelvin è una soluzione di gran lunga migliore rispetto al sughero in termini di mantenimento di slancio, freschezza, giovinezza aromatica del vino.
Resta il dubbio sui rossi. Ma adesso, sostiene l’editorialista di Wine Spectator, il tappo a vite sta cominciando a diventare abbastanza comune nelle cantine australiane anche per i rossi che si possono invecchiare. E Penfolds, la più grossa griffe del vino da quelle pareti, mette un sughero solo la sua portaerei, il costosissimo Grange, ma per il resto, i rossi, anche quelli che viaggiano sui 200 dollari a boccia, sono in tappo a vite.
Ci meditiamo un po’ su?

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