Angelo Peretti
Delle tre l’una: o non ci capisco nulla io, il che è anche possibile, o c’è qualcheduno che s’impunta a non capire, oppure più semplicemente, per dirla con una delle prime canzoni di Francesco De Gregori, «non c’è niente da capire».
La faccenda che personalmente non capisco è questa qui: perché noi italiani c’intestardiamo a difendere l’indifendibile, continuando a puntar tutto sui vini di vitigno, anziché su quelli di territorio? Quasi che la storia del tocai non ci abbia insegnato nulla. Senza il quasi.
Rammento in breve e solo per i più distratti: gli ungheresi han preteso che gl’italiani e i francesi la smettessero di chiamar Tocai o Tokay i loro vini, perché dalle loro parti c’è una cittadina che si chiama Tokaj, dove si fa vin dolce (buono, a volte da andar fuori di testa). L’Unione europea ha dato ragione all’Ungheria, ché il nome del luogo prevale su quello del vitigno. Stop.
Ora, in qualche maniera di faccende simili s’è occupato nei giorni del Vinitaly il Corriere Vinicolo, settimanale che non sfogliavo da secoli, credo. Con due articoli in contemporanea. Il primo: «Brunello di Sonoma, insorge Montalcino». Il secondo, con strillo in copertina: «Prosecco: un vino e un nome da difendere», a firma nientepopodimeno che di Gianni Zonin.
Opps! Prima di andare avanti, devo fare una precisazione: di solito uso scrivere il nome con la maiuscola quando parlo del vino e con la minuscola quando dico del vitigno. Il che è necessario per capire un po’ meglio quello che scriverò dopo.
Cominciamo con la faccenda del Brunello (maiuscola: dunque è il vino), che non ha nulla a che vedere con le polemiche e le liti scoppiate in quest’ultime settimane circa l’uso improprio di vitigni forestieri nella produzione del celebre vino ilcinese, che invece dovrebb’essere fatto solo e soltanto coll’uva di brunello (vitigno, e dunque con la minuscola).
La storia è questa: un produttore americano - d’italiche origini - s’è messo a fare in California (Usa) un vino che ha chiamato Brunello di Sonoma. E Sonoma, per chi non lo sapesse, è la contea dove ha impiantato vigna e azienda, la quale azienda ha nome toscaneggiante: Poggio alla Pietra. Ora, che questo tale - Lorenzo Patroni si chiama - sia stato magari un po’ furbacchiotto, lo si può anche pensare. Ma dargli torto sul fatto che possa chiamar Brunello il suo vino, francamente credo sia difficile, checché ne dica il consorzio di Montalcino, che ha gridato allo scandalo. Non glielo si può negare, il diritto, semplicemente perché brunello è il nome di un’uva. E la biodiversità non è brevettabile (almeno per ora, ma occorre star prudenti, ahinoi, con tutte queste oscure faccende degli ogm, leggasi organismi geneticamente modificati). Dunque, non se ne può pretendere l’esclusiva, com’è invece possibile per i nomi geografici.
Auguro tanta fortuna a quelli di Montalcino nella loro opposizione all’avventura californiana del sor Petroni. Ma onestamente dire che il brunello è si un’uva, ma non è mica proprio l’uva giusta quella che adoperano in California, be’, mi par quasi un arrampicarsi sugli specchi. «L’avessimo chiamato Montalcino - dice al Corriere Vinicolo il direttore del Consorzio - non avremmo avuto di questi problemi». Sissignori: l’aveste chiamato semplicemente Montalcino... E invece no, testardi, come tant’altri italiani: Brunello di Montalcino. E dagli con ‘sto nome di vitigno davanti a quello del luogo d’origine.
Ora, gli è che da qualche tempo sta vivendo pesanti pressioni concorrenziali anche il Prosecco, che ha più tentativi d’imitazione di quelli collezionati dalla Settimana Enigmistica. Ed anche qui è dura difendersi: prosecco è un’uva, come puoi impedire agli altri di adoperarla liberamente? Ma si dà il caso che nella Venezia Giulia, dalle parti di Trieste, ci sia un paesino che si chiama Prosecco. E allora ecco la proposta di Zonin: portiamo l’area del prosecco (vitigno) sino a Prosecco (paese), mettiamoci a fare un Prosecco doc (vino) che sia veneto-friulano e così nessuno fuori dai sacri confini potrà più aver la pretesa di parlar di Prosecco (vino). «Ecco allora - scrive Zonin - cosa dovremmo fare: istituire la Doc Prosecco (località) allargando la zona di produzione a tutte le zone comprese in una qualche Doc del Friuli Venezia Giulia e del Veneto e riservare la Docg all’attuale Doc di Conegliano Valdobbiadene, essendo una zona di pregio».
Dal punto di vista prettamente teorico, la pensata, magari con qualche aiutino burocratico & politico, potrebbe anche starci: se il legislatore europeo tutela il nome della località, il gioco è fatto (si fa per dire: è tutta da vedere...). Ma dal punto di vista della sostanza, be’, permettete che sollevi qualche dubbio? Mi pare, che dire, una furbata anche questa. Al servizio dell’industria, del mercato di massa (che per me comunque non sono certo un tabù).
Il problema è che se andasse in porto quest’allargamento dell’area prosecchista, ci potrebb’essere un fiume, un mare, un oceano di «nuovo» Prosecco fatto tra Veneto e Venezia Giulia. E chi garantisce che questa fiumana abbia poi qualità assicurata? Non è che per evitare che gli altri facciano prosecchini da quattro soldi poi ci mettiamo a farli noi con una doc così vasta da non garantire un bel niente? In bocca al lupo al «nuovo» Prosecco (vino) fatto fino a Prosecco (paese), se mai si farà.
Resta il fatto che i nodi sono arrivati al pettine, e l’impuntatura tipicamente italiana di mettere in primo piano il nome del vitigno si sta rivelando autodistruttiva. Un suicidio. Eppure ancora c’è chi insiste a far nuove doc puntando tutto sul vitigno...
Vabbé, tanto non ci capisco niente. O forse non c’è niente da capire.
Nessun commento:
Posta un commento