Angelo Peretti
Ci ho provato, giuro che ci ho provato. Ma non resisto: la devo proprio scrivere. La storia del follatore orizzontale, intendo. E capisco che non capiate, e dunque: rewind, si riparte da capo qui sotto.
Dunque, la faccenda è questa: fra le bottiglie che mi sono capitate fra le mani negli ultimi mesi, ne ho trovata una con un’etichetta (o se volete, la controetichetta, quella più piccola, che in genere però elenca tutte le indicazioni di legge, compreso il «contiene solfiti - contains sulphites» ch’è diventato obbligatorio da qualche tempo) che vale la pena di riportare. Perché, secondo me, è un esempio di come non si deve fare un’etichetta.
Ma prima devo mettere le mani avanti, fare un’ulteriore premessa: non voglio prendermi gioco di quell’etichetta, di quel vino, di quel produttore. Anche perché il vino non è affatto male e il produttore è serio. Per cui non cito né vino, né produttore, e neppure la zona d'origine, la regione, il vitigno: nessun indizio vi lascio. Dico solo ch'è un vino italiano. Stop. Ché voglio semplicemente usare questo caso come una metafora di quel che succede oggi nella comunicazione enoica. Mica altro.
Orbene, veniamo all’etichetta: c’è scritto che quel tal vino vien fatto con quella tal uva «selezionata in cassette, vinificata con follatore orizzontale, affinata in barrique e botte da hl 30». Col follatore orizzontale, capito?
Ma, dico io: vogliamo proprio spaventarli ‘sti consumatori? Uno comincia a pensar male quando legge di quella cosa lì, il follatore orizzontare. Che sarà mai? Qualcosa di simile al sarchiapone del celeberrimo, surreale, divertentissimo sketch di Walter Chiari?
Povero bevitore: rischia di non risolverlo mai il quesito. Anche perché se vai su internet e cerchi su Google, del follatore orizzontale mica ci trovi traccia. E se è un attrezzo (e lo è, lo è), c’è proprio bisogno di dirlo che s’usa questo marchingegno? Conta davvero qualcosa, in quanto a informazione?
E perché poi dire «barrique e botte da hl 30»? Che c’entra quell’«hl 30»? Non si poteva scrivere più semplicemente «botte grande»?
Che poi, invece, l’informazione più importante mica ce la trovi. Ed è questa: da dove viene quella benedetta uva? Da che comune, vigneto, campo? Niente: su questo si tace. Come se l’origine dell’uve fosse meno importante dei machinari di cantina. Meglio il follatore orizzontale, orgoglio della scienza e della tecnica applicata al vino, evidentemente. Ma di cui, credo, a chi vuol bere quel vino non gliene importa un bel fico secco. Suvvia!
Ripeto: lungi da me voler infierire. Quest’etichetta qui mi son permesso d’usarla come pretesto, ché ha avuto la disavventura d’essere stata l’ultima in ordine di tempo a capitarmi sott’occhio. D’esempi d’etichettature strampalate potrei farne tanti altri, figurarsi!
C’è, in Italia, il mal d’etichetta. E sulle bottiglie ci si vede appiccicato di tutto e di più. Sono andato a rileggermi un utile manuale di Fabio Piccoli, «La comunicazione del food & beverage». Scrive: «Sul versante delle etichette il nostro settore vitivinicolo sembra afflitto dalla grave malattia dell’improvvisazione». Come non controfirmare?
Se l’etichetta è - riprendo ancora una parte del testo di Fabio - «il principale biglietto da visita di un vino e, in larga misura, anche dell’azienda», allora la faccenda è seria. Molto.
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