Angelo Peretti
Ho scoperto di essere un bevitore A-B-C. L’iluminazione m’è venuta leggendo il numero di maggio di Wine Spectator, la più diffusa fra le riviste enoiche al mondo. La copertina è dedicata allo Chardonnay. E nell’editoriale si legge che in giro c’è uno slogan ipersintetico che recita così: «A-B-C». L’acronimo sta per «Anything But Chardonnay», ossia, traducendo un po’ liberamente, «Datemi da bere quel che volete purché non sia Chardonnay». Ecco, mi ci riconosco: in generale, lo Chardonnay non mi piace. Non lo sopporto, con quel suo odore, come dire... da Chardonnay. Inconfondibile.
Oh, vabbé, lo ammetto: ci sono grandi Chardonnay. Penso alla Borgogna, ovviamente. Agli elegantissimi bianchi delle vigne di Montrachet. O ai grassi Corton. Agli Chablis, che si fanno burrosi col tempo. Vini cui certamente riconosco personalità, eleganza, perfezione stilistica, classe. Ho in mente un Corton-Charlemagne bevuto quest’inverno: un esempio di opulenza e insieme di snellezza, una sorta di quadratura del cerchio. Tutto vero. E dunque se debbo giudicare il vino nelle sue componenti, non c’è che dire: grandi bottiglie. Purché via piaccia lo Chardonnay. E a me lo Chardonnay con quel suo odorino, come dire... da Chardonnay, proprio non lo sopporto.
Chissà per quale strano meccanismo rifiuto un vino bianco che abbia nella sua linea aromatica traccia della presenza dello chardonnay (scrivo in minuscolo: intendo il vitigno). Vallo a sapere: credo che potrei essere un caso di studio. Ma non c’è dubbio: sappiate che se per caso fossimo insieme a cena e volete farmi bere un bicchiere di vino, la (mia) regola è A-B-C, Anything But Chardonnay, fatemi bere un po’ quel che volete voi, purché non sia Chardonnay.
Che poi non è verissimo. Un vino a base di chardonnay lo bevo anch’io. Ma ha le bollicine. E si chiama Champagne. Che è blanc de blanc quand’è fatto di chardonnay, appunto. E ce n’è di elegantissimi, floreali, suadenti. Epperò, ecco che se mi proponete di optare fra un blanc de blanc e un blanc de noir, fatto con le uve di pinot (nero o meunier), figuratevi dove vado a parare: sul blanc de noir, ovvio. E non è un caso che se mi si mette nel bicchiere una serie di cuvée, la scelta, generalmente, va a finire sulle bolle che pinoteggiano di più (e chardonneggiano di meno, ovvio).
Che volete farci: ognuno ha le sue idiosincrasie. Io ci ho quella per lo Chardonnay: A-B-C.
A dire il vero ce n’ho un altro di rifiuti idiosincratici (si scrive così? se è giusto bene, sennò pazienza): quello per i Sauvignon italiani. Non mi piacciono, con quelle presenze costanti – chi più, chi meno – di erbe verdi e di pipì del micio. E sì che invece tracanno con piacere i Sauvignon blanc che vengono dalla Loira o dalla Nuova Zelanda. Ma A-B-S, Anything But Sauvignon, suona male, e poi non è del tutto vero, come ho detto: non mi piacciono i Sauvignon italiaci, e non ne ricordo uno che m’abbia fatto venire un brividido. Tutto qui.
Ripeto: difficile sapere da dove nascano questi rifiuti. Chissà in quale recondito cassetto della mia psiche si cela l’arcano. Ma a dire il vero: chi se ne frega? Ce n’è così tanta di roba buona da bere al mondo, che mica per forza occorre stappare Chardonnay o Sauvignon tricolori.
Ma torno a Wine Spectator, e al servizione portante del numero di maggio, dedicato allo Chardonnay. Il magazine americano lo Chardonnay lo difende. In maniera convinta e convincente, pure. E che cosa dovrebbe dire, dopo aver aperto l’editoriale scrivendo che lo Chardonnay è il vino preferito d’America, e che gli americani ne bevono ogni anno più di 700 milioni di bottiglie (alla faccia!). Con consumi in crescita, per di più. E potrebbero forse dire lorsignori che son contro lo chardonnay, avendo constatato che è la varietà dominante nei vigneti della California?
Unicuique suum, a ciascuno il suo. A loro lo Chardonnay. A me altri bianchi. E pace.
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