1 gennaio 2006

Il gambero nell'Ultima Cena

Angelo Peretti
Percorrendo la strada che da Caprino conduce ad Affi, ecco che si incontra ad un tratto la contrada di Ceredello. L'attenzione di chi scelga di farvi breve sosta viene attratta dalla chiesetta che s'affaccia sulla piana di Pesina. È dedicata a Santa Cristina, forse per chiederne la protezione dal morso delle serpi. Oppure per esorcizzare, col nome della martire distruttrice degli idoli, preesistenti segni di culti pagani, come ipotizza, pur con prudenza, Giuliano Sala in un suo libro dedicato alla piccola chiesa (1).
Scrivendo di questo tempietto campestre, Sala s'è soffermato a trattare anche di un'Ultima cena che vi si trova dipinta sulla parete che guarda a meridione. E di quell'affresco, attribuito al XIV secolo, vien definita "singolare" una particolarità: sulla tavola imbandita figura il gambero. "Al momento ci sovviene solo in un'Ultima cena presso la chiesa di S. Zeno Maggiore a Verona" aggiunge Sala, cercando analogie con una tal raffigurazione. E tentando di interpretare quella presenza, ne propone una lettura simbolica, dicendo che i gamberi potrebbero alludere alla resurrezione "così come il pesce è simbolo del banchetto eucaristico". Ed è proprio sulla raffigurazione del gambero sulla mensa dipinta in Santa Cristina e sulla simbologia prospettata che vorremmo soffermarci.
Vorremmo tentare infatti di proporre per quest'affresco un'altra possibile chiave di lettura, magari complementare a quella offerta da Giuliano Sala. E questo perché condividiamo il parere di Massimo Montanari quando scrive che "le numerosissime raffigurazioni medievali dell'episodio evangelico dell'Ultima Cena, legate alla cultura e all'esperienza dei singoli autori pur nel rispetto di certi canoni formali simbolicamente connotati, sono una preziosa miniera d'informazioni sugli usi conviviali e sulle loro modificazioni nel tempo" (2). E dunque anche una lettura per così dire materiale, e quindi non solo simbolica, parrebbe possibile suggerire per l'affresco di Ceredello.
Se infatti l'interpretazione simbolica di taluni elementi alimentari é perfettamente sostenibile, vi è peraltro anche da sottolineare come la presenza del gambero su di un affresco tardo medievale, raffigurante una tavola imbandita, non sembri affatto anomala. Il gambero d'acqua dolce doveva essere infatti un genere di consumo abbastanza familiare per la cultura gastronomica dell'epoca. Non a caso una delle immagini del celebre "Theatrum Sanitatis" trecentesco (3) mostra un signore e la sua dama intenti a pranzare all'aperto, poco fuori della porta d'un palazzo, seduti ad una mensa su cui troneggia un gran piatto di questi crostacei. E nelle cronache lasciateci da Bonvesin da la Riva, sono indicati come il cibo allora prediletto in Quaresima dai milanesi (4). Così pure sono abbondanti le citazioni negli a dire il vero non moltissimi ricettari tre-quattrocenteschi conosciuti (5), in cui si scrive di gamberi lessati e conditi con aceto o agresto, oppure utilizzati come base per altre elaborazioni.
C'è da aggiungere che la presenza del gambero nelle Ultime Cene medievali parrebbe essere, se non frequentissima, almeno non insolita. Potremmo citare al proposito l'affresco attribuito a Dario di Pordenone presso la chiesa di San Giorgio a Treviso. E Giuseppe Maffioli, eclettico personaggio che s'é occupato di teatro e di gastronomia, ha avuto modo di sottolineare che gli ottimi gamberi di San Polo, dalle parti di Conegliano, "sono solidamente ancorati alla storia dell'arte locale, grazie ad una loro evidentissima apparizione in un umile affresco del secolo XV" in una cappelletta non lontano da Lia (6).
Entrambi gli affreschi appena citati, si noti, sono in zona di cattura di gamberi (anche se oggi assai meno diffusi che in passato). Così può sorgere il dubbio se anche dalle parti di Ceredello, visto che dall'affresco di Santa Cristina han preso spunto queste considerazioni, vi fosse l'uso di mangiar gamberi. E qui la faccenda si complica, non essendoci conosciute fonti locali in merito. Ma é peraltro nota ancora oggi la diffusione del gambero d'acqua dolce in area gardesana e nell'entroterra (7).
È dunque una lettura una lettura semplicemente materiale quella che è da dare all'affresco di Ceredello? Pur con le considerazioni esposte, non pare possibile sostenere con certezza che il pittore che qualche secolo fa dipinse l'Ultima cena su di una parete della chiesetta di Santa Cristina abbia voluto ritrarre i gamberi familiari alla sua cultura gastronomica, o per lo meno a quella allora corrente. Né d'altro canto si può affermare unicamente che abbia loro attribuito valore simbolico. Potremmo azzardare che valgano entrambe le ipotesi. Ossia che l'uso simbolico del cibo potesse sì essere consuetudine dei pittori medievali, ma che questi utilizzassero come supporto alla simbologia elementi della cultura alimentare del loro tempo. E dunque gli affreschi che, più o meno in buone condizioni, adornano i luoghi di culto, potrebbero esser considerati, anche per l'area baldense e benacense, preziose fonti per la ricerca nel campo della cultura materiale. Colmando così in parte, per quanto attiene gli usi alimentari, i vuoti lasciati dai documenti scritti.

Note

1. Giuliano Sala, "La chiesa di S. Cristina a Ceredello di Caprino", Centro studi per il territorio benacense, Torri del Benaco 1993. Per ulteriori notizie sulla chiesa si veda anche "Antichi oratori nel Caprinese" in "Il Baldo" n. 1, Centro turistico giovanile, Caprino 1989.
2. Massimo Montanari, "Convivio", Laterza, Bari 1989.
3. Il manoscritto del "Theatrum sanitatis" è conservato presso la Biblioteca Casanatese di Roma.
4. A citare, riguardo al gambero, Bonvesin da la Riva (vissuto fra XIII e XIV secolo) è Massimo Alberini in "Storia della cucina italiana", Piemme, Casale Monferrato 1992. Aggiungiamo che c'è anche una curiosità letteraria, forse anch'essa a metà strada fra simbologia e gastronomia, a proposito del gambero in tavola in età medievale. Ci riferiamo alla "Leggenda antica di San Francesco". Vi si narra di come il poverello d'Assisi, gravemente malato, venisse insistentemente pregato di nutrirsi. E quando il Santo si disse tutt'al più disposto a mangiare del "pesce squalo", ecco avvicinarsi un tale con un canestro contenente proprio tre di quei pesci oltre a dei bei gamberi, "che il Santo mangiava volentieri". Il testo della leggenda è riportato nel già citato "Convivio" di Montanari.
5. Si veda al proposito Emilio Faccioli, "L'arte della cucina in Italia", Einaudi, Torino 1987. A fornire la formula per la cottura del gambero (in verità riferita, parrebbe, a quello di mare) è per esempio il trattato d'un anonimo autore trecentesco della corte angioina: "Metti i gamberi in acqua bollente con sale, e mangia con agresto o aceto". Peraltro nel celebre quattrocentesco "Libro de arte coquinaria " di Maestro Martino da Como si fa riferimento proprio al gambero d'acqua dolce, dicendo che va fatto lessare, "et il suo sapore vole essere l'aceto". E comunque lesso lo si utilizzava per piatti più complessi, come il "savore de gambari" (ottenuto pestando nel mortaio code di gambero lessate, "un poco de herbe bone", rossi d'uovo e mandorle e stemperando il tutto con agresto, aggiungendo poi acqua, "sì che non sia acetoso", più spezie ed olio) di un anonimo trattatista veneziano del Trecento, oppure il "pastello de gamari" (i gamberi sono lessati, puliti e poi fritti insieme con della cipolla; si aggiungono pepe, zafferano ed un trito di noci, mandorle e zucchero e si pone il tutto in una sfoglia, creando una sorta di "torta salata" dei nostri giorni) d'un altrettanto sconosciuto compilatore meridionale del primo Quattrocento.
6. Giuseppe Maffioli, "Il ghiottone veneto", Morganti, Treviso 1992. Maffioli aggiunge che quella chiesetta "presenta un'Ultima cena, sulla cui mensa, oltre all'agnello pasquale, al vino, ai pani ed alle erbe amare della tradizione, spiccano dei bei gamberoni scarlatti".
7. Si vedano al proposito le recenti indagini condotte da Daniele Zanini, confluite nel suo articolo "Il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes fulcisianus) nella regione benacense" in "Il Garda. L'ambiente, l'uomo" n. 8, Centro studi per il territorio benacense, Torri del Benaco 1992.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Il Baldo, edita a Caprino Veronese dal Centro turistico giovanile

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