1 gennaio 2006

Storie di piatti gardesani: i primi

La storia e le tradizioni dei piatti fondamentali del lago di Garda
Le dieci ricette fondamentali della più autentica tradizione del lago di Garda, trascritte da Isidoro Consolini e Flavio Tagliaferro e commentate da Angelo Peretti nei volumetti della serie "La cucina tradizionale del lago di Garda": Risotto con la tinca, Bìgoi co le àole, Minestrone con le castagne, Sardéne en saor, Sisàm, Carpione ai ferri, Luccio in salsa, Polenta carbonèra, Anara col pién, Carne salàda.

I primi

Il risotto con la tinca
Gastronomicamente, la riviera orientale del Garda la si potrebbe dividere in due aree quasi distinte: a nord c'è il regno dell'olio e dei bìgoi co le àgole (e cioè gli spaghetti al torchio conditi col sugo d'alborelle in salamoia), mentre più sotto, dopo Garda, che fa da "spartiacque", c'è il dominio della vigna e del risotto con la tinca.
È, questo risotto, un piatto dibattuto fra storia e moderna invenzione della ristorazione. E al proposito Giovanni Capnist sembra non aver alcun dubbio nell'optare per la seconda ipotesi, quella della modernità. Afferma infatti che "questo tipico risotto gardesano non trova riscontro nelle ricette antiche", aggiungendo che "è certamente di origine abbastanza recente ma risulta particolarmente appezzato dai turisti che affollano il lago di Garda". Annotando peraltro che "è un piatto che, se ben cucinato, è veramente squisito" (Capnist 1987: 87).
In effetti, può parer strano attribuire origini remote ad un risotto d'area gardesana, visto che il riso non è fra le pur molte produzioni del territorio benacense. Ma non è sempre stato così. Perchè il riso, nei secoli passati, è stato coltivato anche sulla riviera. E dunque ci potrebbero essere elementi a sostegno d'una qualche ipotesi di iscrizione del risotto con la tinca nel numero dei piatti tradizionali che possono vantare una qualche vetustà.
Certo, mancano testi antichi a sostegno di questa tesi: ma quanti sono i piatti "di popolo" che trovano attestazione nei ricettari del passato? Del resto, che il risotto con la tinca appartenga da tempo alla cultura gastronomica gardesana lo dimostra Floreste Malfer, che nel suo "Benaco" del 1927 testimonia come questo fosse il piatto forte delle cene dei pescatori che operavano in cooperativa: "Il sogno dei locali seguaci d'Apicio è il risotto di tinca. Si preferiscono i maschi da Kg. 1 1/2-2 1/2. Rosolato il pesce, come nella preparazione a guazzetto, s'aggiunge poi una conveniente quantità di acqua. Quando il pesce perde l'occhio è cotto e si leva e si mette il riso che si rimescola fino alla cottura. La festa del risotto ha luogo normalmente in qualche ricorrenza del luglio-agosto, tra le piccole compagnie esercenti in cooperativa le varie pesche. È corona e premio alle lunghe fatiche estive ed è un'ora di gaudio lungamente attesa, assurgendo, in luogo, il risotto di tinca a piatto veramente regale" (Malfer 1927: 246-247).
Tinca e riso uniti in un piatto davvero delizioso, dunque. Del resto, come s'è detto, si tratta di ingredienti che per qualche tempo sono stati da ascrivere contemporaneamente fra le produzioni gardesane, com'è attestato a Garda dalla persistenza del toponimo Risare. E che in quell'area si coltivasse il riso è testimoniato da fonti documentarie.
Nereo Maffezzoli, studiando i registri della Corporazione degli antichi originari di Garda, ha per esempio trovato una nota datata 10 novembre 1686 nella quale s'incolpano d'una epidemia di tifo le "Risare nel centro di questa valle angusta" (Maffezzoli 1986: 88-89). È relativo al 1686 anche il processo relativo ai presunti dannosi effetti della presenza delle risaie in Garda studiato da Bruno Chiappa sulla scorta dei documenti rintracciati nel fondo "Ufficio di Sanità" dell'Archivio di Stato di Verona. Vi si legge, ad esempio, che il consigliere della comunità di Garda Vincenzo Pasotto attribuiva alla "mala qualità dell'aria, che resta infetta dal fetore che cagionano alcune risare" quel "color giallizzo e brutto" della sua gente. Ma forse i veri problemi erano altri (Chiappa 1995: 86-87). Sta di fatto che questi incartamenti seicenteschi dimostrano la presenza delle risaie in riva al lago. E quindi il riso potrebbe non essere stato estraneo alla cultura alimentare dei gardesani. Magari unito alla tinca.
C'è poi da annotare, come pur vago indizio a possibile sostegno della tesi d'una relativa antichità del piatto, che presso alcuni pescatori gardesani rimane viva la memoria dell'utilizzo, per il risotto, delle interiora della tinca, e non già delle carni, che venivano invece consumate a parte, accompagnate da una salsa piccante. Si tratta d'un uso gastronomico, questo delle interiora del pesce, che ha qualche curiosa affinità con uno dei famosi piatti quattrocenteschi di Maestro Martino, la "menestra de trippe de trute" (Faccioli 1987: 153). Trippe di trota in brodo, in questo caso, con aggiunta di prezzemolo e menta. Così come i pescatori di Garda usavano, per il loro risotto, interiora di tinca e biete. Curiose coincidenze, o indizi d'un qualche peso?

I bìgoi co le àole
I bìgoi co le àgole sono uno dei piatti più semplici e saporiti della gastronomia benacense.
Le àgole sono le alborelle (il termine dialettale viene da Brenzone: sul resto del lago si usa dire àole). Poste in salamoia (salàe), diventano la materia prima per il condimento dei bìgoi, grossi spaghetti prodotti con un torchietto a mano oggi poco diffuso, ma un tempo in uso in ogni famiglia.
I bìgoi o bìgoli sono la tipica pasta che in terra veneta è coniugata, secondo la zona e la fantasia del cuoco, coi più vari condimenti. La "Guida all'Italia gastronomica" del Touring Club Italiano ne riassume splendidamente il rito domestico della preparazione: "Ottenuto l'impasto di base - un tempo farina e acqua oggi sostituita da uova, ma con un ritorno ecologico alla farina integrale - la massaia, anziché tradurlo in sfoglia, e subito dopo, in paparele o lasagne, lo mette nel bigolaro, una riproduzione in miniatura del torchio dei pastai di tutta Italia. Per far scendere l'impasto verso la minuscola trafila, che dà forma ai bigoli, non occorre un motore, ma basta la forza delle braccia. Gli spaghettoni vengono cucinati subito, o dopo una breve essiccazione" (Alberini - Mistretta 1984: 60-61).
Sulla riviera gardesana i bìgoi hanno dunque trovato una comunione con le alborelle sotto sale, così come altrove si sposano con la sardella salata (è questo ad esempio il tipico piatto quaresimale veneto) o con altri condimenti.
A Brenzone, e di riflesso anche in altre località rivierasche, il merito di aver tolto il velo d'oblio che aveva coperto questo rustico piatto popolare è spettato negli anni Ottanta a Livio Parisi. Alla guida del centro culturale "El Cossét", inventò e organizzò, dal 1985 al 1989, un curioso "campionato comunale dei bìgoi co le àgole", che riscosse notevole successo e rilanciò il piatto anche nella ristorazione "ufficiale", oltre che negli usi domestici. Parisi spiega che al torneo "partecipavano 12 concorrenti che in quattro serate ad eliminazione diretta si contendevano l'ambito titolo. La giuria era composta da persone del pubblico, che esprimevano il proprio voto dopo l'assaggio dei piatti proposti" (Parisi 1996: 92). I concorrenti non erano cuochi professionisti, bensì appassionati del luogo. Ed è interessante annotare come le ricette presentate nelle varie edizioni del campionato brenzonese non prescrivano mai di lavare le àgole prima di usarle per la salsa, ma solo di asciugarle dalla salamoia.

Il minestrone con le castagne
Quel minestrone coi marroni che qualcuno ancora cucina sul Baldo è in fondo una interessante variazione sul tema della famosa minestra coi fagioli della tradizione padana. E non è neppure esclusiva dell'area baldense, perchè l'uso delle castagne nelle minestre ha attraversato le regioni ed i secoli. Basti pensare che già il milanese Bonvesin de la Riva, vissuto fra il 1240 ed il 1315, poeta e grammatico, ebbe a scrivere che le castagne "spesso si lessano senza guscio e, cotte così, molti le mangiano con i cucchiai; oppure, buttata via l'acqua di cottura, spessissimo le masticano senza pane, o anzi, al posto del pane" (Rorato 1991: 26-28): minestra poverissima, insomma.
La castagna la troviamo anche in compagnia coi ceci in una zuppa descritta nel trecentesco "Libro della cocina" d'un anonimo compilatore toscano: "Togli ceci rossi e bianchi; e, tenuti a mollo cuocili col pepe, e col zafferano, e erbe odorifere. E quando sono queste cose cotte, ponni parte nel mortaio e pesta che sia spessa, e ponvi brodo saporoso, e poi ponvi castagne arrostite intere, e radici di petrosilli, e brodo di carne" (Faccioli 1987: 50). A beneficio del lettore, chiariamo che il "petrosillo" è il prezzemolo.
Proseguendo lungo il cammino dei secoli, arriviamo al Seicento e al "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano" di Giacomo Castelvetro, che si sofferma sulle castagne secche, ricordando che con quelle "la povera gente ben si nutrisce, cuocendole a diverse maniere, e prima in minestra, sole in compagnia d'alcuni legumi, quali sono fagiuoli" (Coltro 1983: 70).
A nobilitare il piatto, e a dimostrare che se ne può trarre una ghiottoneria da tavola nobile, ci pensa il raffinato "Cuoco piemontese perfezionato a Parigi", volume edito a Torino nel 1766. Vi si legge la ricetta della "minestra di castagne in magro e grasso". Eccone il testo: "Per fare una minestra di castagne in magro metterete in una casseruola un pezzo di butiro con tre cipolle tagliate in fette, una carotta, un occhio di scellero e tre porri, il tutto tagliato in piccoli pezzi, un mezzo bacello d'aglio, due garofani, mettete tutto al fuoco, finché sia un po' colorito, bagnate con acqua, facendo bollire per un'ora, colate il brodo per la stamigna, aggiungendovi sale, poi prendete un centinaio di castagne di quelle marroni, oppure di quelle grosse, levategli la prima scorza, mettendole al fuoco in una padella pertuggiata, maneggiandola sempre finché si possa levare la seconda scorza, quando saranno ben mondate fatele cuocere con una parte del brodo, in appresso scegliete quelle che sono intiere per ornamento della minestra e le altre le pestarete e passerete per una stamigna facendone un sugo colato, che bagnerete col brodo che si adoperò per farle cuocere; fate mittonare la minestra col brodo di erbaggi e quando servirete mettetegli il sugo delli marroni. La minestra grassa si può fare nella stessa maniera, mettendo in luogo del brodo magro quello grasso" (Serventi 1995: 61). Anche qui è d'obbligo chiarire che "scellero" sta per sedano, la padella "pertugiata" è quella bucata che si usa per le caldarroste, la "stamigna" era un panno che si adoperava per filtrare.

Testi tratti dalla serie "La cucina tradizionale del lago di Garda"

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