1 gennaio 2006

Storie di piatti gardesani: piatti di terra

La storia e le tradizioni dei piatti fondamentali del lago di Garda
Le dieci ricette fondamentali della più autentica tradizione del lago di Garda, trascritte da Isidoro Consolini e Flavio Tagliaferro e commentate da Angelo Peretti nei volumetti della serie "La cucina tradizionale del lago di Garda": Risotto con la tinca, Bìgoi co le àole, Minestrone con le castagne, Sardéne en saor, Sisàm, Carpione ai ferri, Luccio in salsa, Polenta carbonèra, Anara col pién, Carne salàda.

Piatti di terra

La polenta carbonéra
La polenta carbonàra - o carbonéra, come si dice in ampia parte del territorio di Brenzone - simboleggia quasi l'incontro gastronomico fra la riviera gardesana, contraddistinta dalla produzione olearia, e i pascoli baldesi, che forniscono il latte per rustici formaggi.
Si tratta di un forte, robusto, gustosissimo "piatto unico" che ammette una variante: l'aggiunta o meno della salamella durante la cottura. Certo non è il massimo della leggerezza e della digeribilità, ma merita senz'altro l'attenzione degli appassionati della cucina del territorio.
Probabilmente l'introduzione in area baldense della carbonéra è legata ai traffici intercorrenti fra le opposte sponde lombarde e venete, quando l'alto lago poteva comunicare solo per via d'acqua (la strada Gardesana orientale è degli anni Venti). A testimonianza di quei traffici veneto-lombardi c'è il dialetto che si parla a Brenzone e Malcesine, ricco di inflessioni bresciane o addirittura bergamasche, ma anche questa polenta coi formaggi, parente prossima della polenta taràgna lombarda. Le somiglianze fra i due piatti sono infatti davvero molte, anche se sul Baldo non si discute la farina gialla, mentre nelle valli lombarde si predilige quella scura, di grano saraceno, da sola o mescolata con l'altra.
La cottura è lenta, coi pezzi di diversi formaggi che si fondono con la polenta. E poi eccola in tavola. Quel che rimane lo si può lasciar raffreddare per il giorno dopo, quando verrà abbrustolita sulla graticola, assumendo nuove sfumature di sapore (Peretti 1994: 75-81).
Polenta e formaggio, dunque. In un connubio tipico della storia gastronomica italiana. Già all'epoca romana, infatti, quando il mais non lo si conosceva e si facevano delle "polentine" (il termine latino è "pultes") con farine di farro, di miglio o d'altro ancora, s'usava unirvi in cottura qualche altro ingrediente. "Le farinate romane - scrive Giulia Carazzali annotando un'edizione dell'"Arte culinaria" di Apicio - sono delle polentine fatte con semola, latte o acqua bollente e sale, ben mescolati, così da ottenere una pasta densa che si mangia col cucchiaio. Questa però è la preparazione di base perchè, in genere, si versa in questa polentina un po' di tutto: piselli, ceci, carne, pollo, pesci freschi e conservati, erbe fini, ed altro ancora" (Apicio 1990: 299). E fra gli ingredienti aggiunti c'era anche il formaggio, per creare le polente "caseate" forse progenitrici di quelle baldensi e gardesane (Valerio 1989: 219).

L'ànara col pién
L'anatra, la gallina o il tacchino cotti col pién, e cioè con una farcia fatta essenzialmente di pane, prezzemolo, aglio ed eventualmente d'altri ingredienti erano (e in parte ancora sono) un piatto da grandi occasioni: matrimoni, battesimi e feste comandate.
Forse sul Garda la carica simbolica, oggi a dire il vero quasi del tutto svanita, che accompagnava questa lavorazione gastronomica appartiene all'eredità veneziana. E non sappiamo se l'averne fatto il piatto principe della sagra della "Quarta d'agosto" che si tiene annualmente a Costermano, nell'immediato entroterra del Garda veronese, la quarta domenica agostana sia da attribuire o no a questa ritualità perduta.
"Consuetudine" era peraltro servire il 24 agosto, festa di San Bartolomeo, l'anatra arrosto, o "anatra grassa", a Carpenedolo, nel Bresciano (Mazza 1997: 181). E ad Orzinuovi, pure in provincia di Brescia, la fiera dell'agricoltura, che s'apre generalmente verso fine agosto, "offre la possibilità, a quanti visitano la fiera, di gustare nelle trattorie alcuni piatti particolari della Bassa come la Polastra co l'èmpiöm, pollastra ripiena" (Mazza 1997: 183).
L'uso di cucinare l'anatra ripiena pare in particolare legare un certo senso le abitudini culinarie gardesane a quelle veneziane, dato che questo a Venezia è il piatto tipico della notte del Redentore, quando le trattorie, quelle ancora fedeli alla tradizione, finiti i fuochi d'artificio, lo portano in tavola insieme ad altre pietanze che potremmo definire in qualche modo "rituali" (Coltro 1983: 185).
Era una sorta di rito in talune famiglie anche la spartizione delle varie porzioni dell'animale cucinato. Vigeva infatti l'usanza - che valeva per tutti gli animali d'aia che si cucinavano - d'assegnare a ciascuno una parte predeterminata: per esempio la coscia andava al capo famiglia, il collo e le zampe toccavano ai bambini e così via. Ed era forse questo un retaggio delle consuetudini apprese attraverso chissà quali percorsi dall'arte degli scalchi delle corti signorili, ma anche la riaffermazione di una rigida suddivisione dei ruoli, che a tavola forse più che altrove trovava immancabile applicazione.
Che valesse o no quest'abitudine nella spartizione delle porzioni, comunque non c'era famiglia dove non s'usasse servir separatamente i pezzi di volatile e il pién, offrendo di questo una porzione commisurata ai gusti dei commensali. E le parti che avanzavano potevano essere riscaldate il giorno dopo sulla graticola.

La carne salàda
La carne salàda, che le trattorie ed i ristoranti dell'area trentina del Garda propongono quasi immancabilmente nei loro menu, gode di meritata fama.
Questa carne saporita la si gusta cruda a fettine sottili o scaldata alla piastra. Ed è forse una "memoria storica". Per secoli uno dei grandi problemi dell'umanità è stato infatti quello di conservare il cibo. E la salatura era fra le tecniche più utilizzate. Il sale, infatti, ha la proprietà di rendere conservabili i cibi e di distruggere i batteri contenuti nelle derrate alimentari. La capacità "conservativa" del sale ha dunque rappresentato a lungo "la principale valvola di sicurezza del sistema di sopravvivenza, consentendo forme di immagazzinamento e stoccaggio delle scorte alimentari che solo da pochi decenni sono state affidate prevalentemente ad altri sistemi" (Montanari 1988: 184-185).
Qui e là sono rimaste ancora oggi memorie di quelle antiche pratiche. Ad esempio in area veneta un buon lesso misto non è mai privo di qualche fetta di lingua salmistrata. Da Mosto annota che "non è un caso che le carni conservate sotto sale siano, nel Veneto, particolarmente buone e gustose", dato che la tradizione risalirebbe al "monopolio del sale" instaurato dalla Serenissima (Da Mosto 1985: 278-279).
Per quanto attiene più specificatamente la carne salàda del Garda trentino, se ne trova forse traccia in un documento che elenca i beni di Castel Tenno. E' un inventario stilato il primo marzo del 1515 dal vicario di Tenno, Antonio Beriano, a beneficio del vescovo Bernardo Cles. Vi vengono elencati esclusivamente i beni mobili del castello e in particolare dei locali adibiti a stanza da letto, cucina e cantina. "L'inventario - scrive Graziano Riccadonna - può fornire una serie di appunti per una storia della gastronomia locale, non tanto per gli alimenti citati quanto per la carne salada de bove et de porco, laddove l'autentica originalità deriva dal riferimento alla carne salata di maiale, al posto del più consueto e tradizionale manzo" (Riccadonna 1994: 54).
Risale forse allo stesso periodo una ricetta che troviamo in un manoscritto trentino settecentesco (copia con aggiunte di un ricettario più antico) "riscoperto" da Bertoluzza. Vi si legge la ricetta di uno "stuffato" nella quale si prescrive di prendere della carne di manzo, di porla "due giorni in salle" e di aggiungere bacche di ginepro, aglio, rosmarino ed aceto "tanta che stia coperto caricandolla con sassi" (Bertoluzza 1988: 199). Insomma: carne in salamoia tenuta premuta da delle pietre. "La salatura della carne - spiega Bertoluzza - avveniva in quell'epoca con un pizzico di salnitro, con il quale veniva strofinata da una parte all'altra, riponendola poi in un vaso di terra con sei once di sale comune e sei once d'acqua, bacche di ginepro e aglio pestati insieme". Il vaso veniva poi coperto e la carne, tenuta pressata, doveva essere rivoltata due volte al giorno. Il tutto per un paio di settimane. Poi veniva affumicata, consentendo così una buona conservazione (Bertoluzza 1988: 199).

Testi tratti dalla serie "La cucina tradizionale del lago di Garda"

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