1 gennaio 2006

Storie di piatti gardesani: piatti d'acqua

La storia e le tradizioni dei piatti fondamentali del lago di Garda
Le dieci ricette fondamentali della più autentica tradizione del lago di Garda, trascritte da Isidoro Consolini e Flavio Tagliaferro e commentate da Angelo Peretti nei volumetti della serie "La cucina tradizionale del lago di Garda": Risotto con la tinca, Bìgoi co le àole, Minestrone con le castagne, Sardéne en saor, Sisàm, Carpione ai ferri, Luccio in salsa, Polenta carbonèra, Anara col pién, Carne salàda.

Piatti di acqua

Le sardéne en saór
Il Garda fu territorio della Serenissima per quasi quattro secoli. Dal 1405 all'avvento di Napoleone anche sulle riviere benacensi sventolò il gonfalone col leone alato di San Marco. Gli interscambi commerciali e culturali fra il Benaco e Venezia furono dunque assidui. Tanto che sulle riviere vennero "importate" anche elaborazioni gastronomiche provenienti dalla laguna.
Così crediamo sia andata ad esempio per il saór, "cibo di marinai e scorta di terraferma", come lo definisce Bepo Maffioli, riferendosi alla terra veneta in generale (Maffioli 1992: 125).
Ancora oggi a Venezia le sarde in saór "rientrano nel tradizionale menù della cena della festa del Redentore, quando i veneziani nelle loro barche, decorate con frasche e palloncini luminosi, si recano in laguna ad assistere allo spettacolo dei fuochi d'artificio" (Brusegan 1997: 22). Sono, insomma, piatto popolare e "rituale" nel contempo.
A variare fra Venezia e il Garda è sostanzialmente solo la provenienza del pesce adoperato per la preparazione del piatto. Se infatti in area veneziana il saór lo si fa con le "sarde" di mare, sul Garda - dove non ha assunto funzioni "rituali" - lo si prepara invece con le sardéne lacustri. Basato sulla doppia tecnica della friggitura e della marinatura, il saór consente di conservare per qualche tempo il pesce. Fattore importante in tempi in cui era vitale non buttar via niente e far durare il più a lungo possibile le (poche) derrate disponibili. "Da questa necessità di conservare il cibo - dice Marcello Brusegan - ebbe origine anche la più caratteristica pietanza della cucina veneziana, il pesce in 'saor' (sapore), che così preparato può mantenersi saporitissimo e sano per una settimana e senza tanti frigoriferi (Brusegan 1997: 16).
Insieme alla salagione e all'essicazione (con la variante-aggiunta dell'affumicatura), la marinatura - sul Garda nelle diverse formula del saór, della carpionatura e del sisàm, anch'esso di probabile derivazione veneziana (Peretti 1996: 81-88) - costituiva infatti la triade delle vie praticabili per conservare il pesce quand'era lontana l'"invenzione" della refrigerazione. Ed il saór, "conservandolo in luogo fresco, resiste un paio di settimane, ed è più digeribile se le cipolle non vengono soffritte nell'olio che è servito per friggere il pesce, ma in olio nuovo" (Maffioli 1992: 125).
Bepo Maffioli, nel suo famoso "Ghiottone veneto", fornisce dunque la ricetta del saór veneziano, che è interessante verificare per toccare con mano le analogie esistenti con la formula in uso sul Garda: "Il pesce, specie quello azzurro, viene infarinato e fritto nell'olio. Da questo a cottura avvenuta viene tolto il pesce, e vi si aggiunge della cipolla affettata sottilmente. Quando la cipolla imbiondisce, si spegne con vino bianco ed aceto in proporzioni diverse. Il tutto viene versato sul pesce fritto, disposto a strati in un recipiente di terraglia abbastanza profondo" (Maffioli 1992: 125).
Non è poi raro trovare col saór altri ingredienti, come uvetta e pinoli. Sostiene Marcelo Brusegan che questa sarebbe una "variante non ortodossa", con la quale il piatto "perde molto del suo particolare sapore agrodolce" (Brusegan 1997: 21). Ma il parere, probabilmente più condivisibile, di Bepo Maffioli è invece che questa aggiunta, "presente anche in altri cibi, serve ad aumentare la dignità, a farne un piatto 'ricco' secondo una tradizione di dolcificazioni medioevali, ed ancor prima, bizantine e romane" (Maffioli 1992: 125).
Luisa Bellina e Mimmo Cappellaro inseriscono il saór veneziano nel novero delle ricette all'insegna di quel "dolzegardo" che contraddistingue la cucina lagunare. "Il gusto per la mescolanza e per la morbida ambivalenza degli aromi orientali - scrivono - si rivela nel 'dolzegarbo' che continua tuttora a dominare la cucina veneta, invariato al di là dei mutamenti nelle abitudini alimentari". Aggiungendo che "questo 'dolzegarbo' (o 'garbodolze') si ripete all'infinito, in mille piatti (dal 'saor' di pesce e di verdure in primo luogo, al baccalà, alle carni bianche)" (Bellina - Cappellaro 1996: 11).
Insomma: l'agrodolce fa pensare alla tradizione gastronomica romana e medievale, mentre l'uvetta rimanda agli usi bizantini. Il tutto mediato attraverso la cultura gastronomica veneziana. È dunque un lungo itinerario in area mediterranea quello compiuto dal saór prima di "approdare" a Venezia e poi sul lago di Garda. La tesi sembra esser suffragata anche da alcune interessanti affermazioni contenute nell'importante "Guida all'Italia gastronomica" del Touring club italiano: "La cucina delle sette province venete, pur diversa per molti aspetti, è legata da due elementi di fondo: la presenza costante della farina di mais, o granoturco, e l'uso frequente nelle ricette di ingredienti di chiara origine orientale come le spezie, l'uvetta di Corinto e altro. Grandi trasportatori di spezie, i veneziani le hanno non solo commerciate ma adottate nella loro cucina con un fenomeno di osmosi che ha reso omogenei costumi alimentari altrimenti differenziati dalle diverse risorse del territorio" (Alberini - Mistretta 1984: 223).
Questa "omogeneizzazione" delle abitudini alimentari nel territorio della Serenissima può essersi applicata anche sulla riviera gardesana, semplicemente, appunto, sostituendo le "sarde" d'acqua salsa con le sardéne gardesane.

Il sisàm
Il piatto classico preparato in riva al Garda con le alborelle essiccate è il sisàm, spesso attribuito, secondo le categorizzazioni in voga, alla fattispecie della "cucina povera".
A prima vista una simile attribuzione potrebbe sembrare corretta, considerata la semplicità della preparazione e degli ingredienti e l'essere stato il sisàm in uso fra le genti davvero derelitte dell'area gardesana, tramandandosi di generazione in generazione (e dunque di miseria in miseria). Ma forse questa è solo una delle facce della medaglia.
Volendo fornire una ricetta "classica" del sisàm è d'obbligo rifarsi al "Benaco" di Floreste Malfer: "Soffritto l'olio con molta cipolla, si immettono le alborelle e si rosolano fino al rosso: poi si allunga il tutto con aceto e acqua e si serve dopo un'ora di lenta bollitura" (Malfer 1927: 216). E la tradizione dell'alto Garda veronese voleva pure che il sisàm perfetto riuscisse solo con certe particolari cipolle che si andavano d acquistare la mattina del 25 di luglio, festa di San Giacomo, in contrada Calino di Gargnano, sulla riviera bresciana del lago.
È interessante peraltro osservare come una variante in uso a Brenzone preveda - e si tratta di un "indizio" preziosissimo - anche l'uso dello zucchero. In particolare ci rifacciamo alla versione che ci aveva fornito un pescatore di Castelletto, Francesco Gaioni, detto Belòtti, in occasione della raccolta delle elaborazioni gastronomiche gardesane confluite nel fascicolo "Pesci, pesca e cucina del lago di Garda", oppure quella riferitaci nella stessa circostanza da un altro pescatore professionista brenzonese, Franco Zamboni, detto Pechìno (Bianchini et al. 1986: 42).
Secondo Belòtti lo zucchero era da utilizzare "per togliere l'acidità". Il che ha del vero. In cucina, infatti, lo zucchero viene spesso utilizzato allo scopo di attenuare i sapori acidi e quindi ben si presta a "smorzare" la forza dell'aceto utilizzato per la preparazione del sisàm. Ma l'"indizio" di cui si parlava non sta in questa caratteristica, bensì nel fatto che l'uso dello zucchero in abbinata con l'aceto introduce il concetto dell'agrodolce tipico della più antica tradizione gastronomica italiana.
Il connubio agro-dolce è, nella storia della cucina, "più precoce in Italia che non in Francia e ovunque contraddistingue, più o meno presto, la ricerca gastronomica medievale, in particolare nel delicato equilibrio delle salse" (Redon - Sabban - Serventi 1994: 39).
Per la verità il contrasto agro-dolce nella cucina italiana del Medioevo è stato mutuato dagli usi gastronomici d'età romana. Tanto che se al moderno zucchero sostituiamo il dolcificante del passato, ossia il miele, troviamo che questo formava con cipolla ed aceto una terna presente addirittura nel "De re coquinaria" di Apicio, testo fondamentale non solo perché offre un quadro della cucina "ricca" dei tempi di Roma, ma anche perché su di esso sembra essersi sviluppata la successiva gastronomia "di corte" dell'età medievale. Ebbene, quel trattato riporta, nel libro nono e nel decimo, alcune salse da pesce nelle quali è quasi costante, insieme alla sovrabbondanza di altri profumi, la triade cipolla? miele? aceto. In particolare è di notevole interesse una "salsa per sarde" per la quale si prescrive di usare "pepe, ligustico, menta secca, cipolla cotta, miele, aceto ed olio (Apicio 1990: 221). Togliete ligustico e menta ed avrete, incredibilmente, gli ingredienti del sisàm.
Se sostituite le erbe della ricetta apiciana con alloro e salvia otterrete, grosso modo, la ricetta del Pechìno, che vuole i seguenti ingredienti: "g. 100 di agole secche, kg. 1 cipolle preferibilmente bianche, ½ l. di olio extravergine di oliva, 1 foglia di alloro, 3 foglie di salvia, 1 chiodo di garofano, poco rosmarino, 1 cucchiaio di zucchero, ½ bicchiere di aceto, ½ bicchiere di vino bianco, sale". La preparazione è questa: "Imbiondire le cipolle tagliate grossolanamente a pezzi nell'olio extravergine di oliva con alloro, salvia, garofano e rosmarino. Salare quanto basta ed aggiungere l'aceto, il vino bianco, lo zucchero, le agole, private della testa, tagliate a pezzetti e ammorbidite con olio su graticola o piastra ben calda. Lasciar cuocere a fuoco lentissimo per almeno un paio d'ore" (Bianchini et al. 1986: 42).
Si potrebbe dunque esser portati a pensare di inserire il sisàm in uso sul Garda nel numero, invero abbastanza limitato, dei piatti che possono vantare origine antica. Ma certo non basta un cucchiaio di zucchero insieme con l'aceto a suffragare la nostra tesi. Tuttavia, se ci rifacciamo all'analisi linguistica di Pino Crescini e al suo "Vocabolario dei pescatori di Garda", notiamo che il termine che identifica il nostro piatto sembrerebbe derivare dal latino volgare "incisamen", che sta a significare un insieme di cibo tagliuzzato (Crescini 1987: 142).
Le argomentazioni di Crescini sembrano implicitamente avvalorare, insieme al riferimento all'agro-dolce, l'ipotesi di una origine abbastanza antica del piatto. Cercandone dunque traccia nei ricettari tardo-medievali, la ricerca trova esito positivo prestando attenzione ad un ricettario manoscritto d'area veneziana, probabilmente trecentesco, conservato presso la Biblioteca Casanatese di Roma, nel quale si legge la ricetta di un "cisame de pesse quale tu voy": "Toy lo pesse e frigello, toy zevolle e lessale un pocho e taiale menude, po' frizelle ben, poy toli aceto et aqua e mandole monde intriegi, et uva passa, e specie forte, e un pocho de miele, e fa bolire ogni cossa insema e meti sopra lo pesse" (Faccioli 1987: 77). Che sia un progenitore del nostro piatto? È possibile. Da "cisame" a sisàm, seguendo il percorso indicato dal Crescini, la strada è breve. Ci limitiamo ad annotare che cipolle, aceto e miele ci sono, mentre l'uso delle spezie rimanda ai chiodi di garofano usati a Brenzone dal Pechìno.
Traccia del "cisame" la troviamo in altri trattati antichi. Per esempio nel "Libro novo" di Cristofaro di Messisbugo, scalco e amministratore ducale presso la corte degli Estensi nella prima metà del Cinquecento. Scrivendo di una "cena di carne e pesce" imbandita nel 1529, il Messisbugo menziona fra le varie portate della "seconda vivanda" un prodotto tipicamente gardesano: il carpione. Ma il particolare interessante è che questi salmonidi benacensi erano per l'occasione fritti e "coperti di cisame" (Messisbugo 1557: 17). E con questo dobbiamo molto probabilmente intendere coperti d'una "salsa in agrodolce", come dice Emilio Faccioli (Faccioli 1987: 77). Una salsa da pesce, cioè, rifacendoci alla ricetta trecentesca, realizzata con aceto, cipolla e miele, più, magari, altri ingredienti, secondo i precetti, già visti, del trattato veneziano o del testo di Apicio. E forse è solo un caso che i carpioni fritti provenienti dal Garda, magari dono dei due ambasciatori veneziani ospiti quel giorno in casa d'Este, fossero stati serviti con il "cisame" che ci ricorda un altro piatto benacense. Ma quanto meno la narrazione di quella cena cinquecentesca ci offre un ulteriore elemento a favore di una probabile origine antica e tutt'altro che "povera" del "cisame", da cui probabilmente, come variante certamente più popolare e semplificata, possibile sia arrivato il nostro sisàm.
L'indizio da cui trae origine quest'ipotesi sta, come s'è detto, in una "variante dolce" in uso a Brenzone: quella dello zucchero. Ma non è casuale che proprio in terra brenzonese si sia potuta conservare la versione originaria del piatto, quella cioè più antica. Questo tratto di riviera settentrionale, infatti, è stata per lunghissimo tempo pressoché isolato dal resto del lago: la stessa strada Gardesana è stata costruita solo negli anni Venti. Proprio questo isolamento potrebbe aver favorito la mancata "contaminazione" degli usi più schietti delle popolazioni che hanno originariamente "colonizzato" un territorio a dir poco "selvaggio". Agli inizi del Quattrocento l'umanista Guarino Veronese si spingeva a dire che "se la vicinanza del Benaco non li mitigasse alquanto, quei luoghi sarebbero inabitabili e non direi che lì fosse territorio veronese ma che il territorio veronese lì finisse" (Devoti 1997: 77).
A parziale conferma di quest'originalità di Brenzone quale campo di ricerca delle più antiche tradizioni gastronomiche benacensi, abbiamo già visto sulla seconda parte de "La cucina tradizionale del lago di Garda" come proprio qui persista l'uso di una polenta carbonéra che trae probabile origine dai traffici intercorrenti fra le opposte sponde lombarde e venete, quando l'alto lago poteva comunicare solo per via d'acqua. La polenta brenzonese è testimonianza viva di questi arcaici traffici, derivando direttamente dalla polenta taràgna lombarda. Ma è anche probabile indizio di come sia avvenuto anticamente il popolamento di alcuni tratti originariamente quasi inabitati di costa orientale: via lago, dalle valli lombarde all'alta e isolata riviera veronese.
Ora ecco il sisàm, cucinato dai pescatori di Brenzone - e solo da loro sull'intero lago - con una variante agrodolce che prevede lo zucchero e che sembra rifarsi a quella dei ricettari veneziani del Trecento. D'una Venezia dove, peraltro, il sisàm è oggi sconosciuto.

Il carpione ai ferri
Il carpione è un pesce esclusivo del Garda: vive solo nelle acque benacensi, anche se c'è stato e c'è tuttora chi si ostina immotivatamente a sostenere che lo si può trovare anche in chissà quali altri laghi.
Dobbiamo, presentando la ricetta, parlare di carpione, al singolare, purtroppo. Perché questo salmonide è raro al punto che già riuscire a trovarne uno presso qualche pescatore è un mezzo miracolo. Quindi si contentino i commensali di assaggiarne un pochettino appena. D'altro canto non resteranno delusi, perché, come scriveva il Malfer, "per la squisitezza delle carni, il carpione può rivaleggiare con la trota sua affine" (Malfer 1927: 108). E quando Malfer citava la trota, si riferiva alla mitica "lacustre" ormai scomparsa.
In fatto di cucina di carpione in riva al Garda ci sono oggi due "scuole di pensiero", entrambe in linea con la tradizione. C'è innanzi tutto chi lo vuole "ai ferri", cotto sulla graticola, al calore della brace preferibilmente d'olivo, e pare che questa sia la linea maggioritaria. C'è chi invece lo predilige lessato, ed è in minoranza. Un ulteriore filone, di più recente adozione, lo propone anche al cartoccio, mentre é del tutto tramontata l'antica tecnica della "carpionatura", che attraverso la frittura e l'uso dell'aceto consentiva in passato di "esportare" il carpione nelle corti di tutt'Europa (Peretti A. 1992: 45-48). In ogni caso, vengono sconsigliate le salse, perchè le carni del carpione hanno il loro pregio maggiore nell'estrema delicatezza: tentare di "insaporirle" significa, per molti puristi, finire col guastarle. Il che sarebbe un peccato capitale.
Giorgio Gioco, maestro della cucina veronese, prescrive: "Si prepara un braciere di legni d'olivo e sulla griglia rovente si depone il carpione, pulito, appena unto con un po' d'olio. Girarlo delicatamente senza pungerlo con la forchetta e spolverizzarlo con sale e pepe. Il carpione è cotto quando, facendo pressione con un dito, si sente che le carni cedono. Toglierlo allora dal fuoco, tagliarlo a metà per il lungo e a questo punto, per ottenere la perfezione, condirlo con buon olio gardesano, ancora un po' di sale e una spruzzatina di limone". Aggiunge Gioco che "se, oltre a gustare il carpione, avete la fortuna di godere la vista el lago, potrete capire come poeti di tutti i tempi abbiano dedicato liriche a questo Benaco incomparabile" (Gioco 1982: 53-54). C'è da esser d'accordo.

Il luccio in salsa
Il luccio in salsa costituisce oggi uno degli antipasti più diffusi nella ristorazione gardesana. E la salsa che accompagna il luccio è fatta, secondo tradizione, con le acciughe: sapori di lago e di mare a confronto.
Non è peraltro che una simile preparazione sia esclusiva delle riviere benacensi. Ad esempio "il luccio in salsa è il 'secondo' che maggiormente caratterizza la tradizione gastronomica mantovana: per questo nella gran parte dei ristoranti è disponibile tutto l'anno, servito caldo o freddo, a seconda delle stagioni" (Polettini et al. 1996: 100).
Non pare neppure essere stato fra i piatti più diffusi fra gli stessi pescatori del Garda, tanto che il Malfer cita questa preparazione solo per ultima fra quelle relative al luccio: "Si mangia anche preparato alla peschereccia, a salsa, cioè lessato, in rocchi, e poi spruzzato con salsa bollente d'acciughe, quasi fritte in olio. La parte più saporita è formata dai fianchi" (Malfer 1927: 195).
È interessante osservare che Bepo Maffioli, parlando di cucina veneta, si dice convinto che Venezia abbia raccolto, "tramite Bisanzio, e forse per via più diretta, peninsulare" quella che lui chiama "l'eredità della cucina 'latino-romana', in cui il grande uso di 'garum' e di 'allec' è sostituito dalla presenza frequentissima, quale insaporitore base, di filetti di acciuga o di sardina, salati, protagonisti tuttora di alcune salse popolarissime" (Contini 1989: 7).
Sta di fatto che oggi, come si diceva, il luccio in salsa trionfa nella ristorazione benacense, ed anzi, é quasi esclusivamente questa la formula con cui il luccio viene presentato. E così pure è stato ed in parte ancora è piatto da grande occasione, da banchetto: secondo Zane, che fa riferimento in particolare alla riviera lombarda del Garda, "un tempo era comune incontrare, nei piatti di una certa importanza, il piatto del 'luccio lesso alla salsa', che, grazie alla mole imponente del pesce, poteva garantire, accanto alla bontà della ricetta, anche un certo 'effetto stupore' fra i commensali riuniti" (Zuanelli - Pellegrini 1994: 40).
Il portare in tavola un superbo luccio in salsa diveniva insomma atto d'ostentazione, con una "ritualità" in qualche maniera mutuata dalle consuetudini dei banchetti di corte fra tardo Medioevo e Rinascimento, quando, per dirla con Montanari, "un carattere sempre più marcatamente ostentatorio diviene il segno distintivo della mensa dei potenti" (Montanari 1994: 116).
Non a caso, del resto, quella dell'abbinata luccio-acciuga è una formula che trova testimonianza anche in ricettari antichi. Se andiamo ad esempio a scorrere le pagine de "L'arte di ben cucinare", il celebre trattato dato alle stampe nel 1662 da Bartolomeo Stefani, cuoco dei Gonzaga a Mantova, troviamo che una delle maniere consigliate per cucinare i lucci è quella di prepararli "nello spiedo lardati con angiove, serviti con salsa di capparini, code di gambari, zuccaro, & aceto rosato": luccio e acciughe (le "angiove") sono dunque assieme (Stefani 1662: 115). Ed è da ritenere che ad attestare una certa "vetustà" della ricetta gardesana del lucco in salsa sia anche l'uso della cannella: si tratta di uno dei pochi casi in cui in un piatto benacense di pesce appaiono le spezie. Un'"anomalia" che rimanda alle consuetudini dell'antica cucina italiana "di corte".

Testi tratti dalla serie "La cucina tradizionale del lago di Garda"

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