Angelo Peretti
Del convegno sulla viticoltura di qualità che s'è tenuto di recente alla Bolla, in Valpolicella, e di alcune delle riflessioni che mi ha generato, ho già scritto qualcosa ieri. Epperò qui voglio soffermarmi sull'intervento di Emilio Pedron, che è l'uomo che portò la Bolla dentro al Gruppo Italiano Vini e che è oggi il presidente del Consorzio di tutela della Valpolicella, e che insomma è uno degli uomini più influenti nel mondo del vino in Italia.Cos'ha detto Pedron di così rilevante? Ha detto una cosa in cui credo fermamente: "I nostri territori, le nostre denominazioni di origine, possono ancora crescere e possono essere considerati un marchio collettivo. Ma la lealtà di chi opera sul territorio e con un marchio collettivo deve essere notevole". Sono - lo ripeto - totalmente d'accordo: le doc sono da considerare né più né meno come dei marchi collettivi, sui quali è bene che si crei valore e verso i quali si può e deve pretendere che tutta la filiera sia leale.
Pedron è stato abbastanza tranchant: "Sono sicuro - ha aggiunto - che l'Italia non ha molte scelte da fare. L'Italia è schierata. L'unica prospettiva è riorganizzarsi. La strada del vitigno è persa. Occorre riorganizzarsi attorno alle denominazioni".
Vero. Concordo anch'io sul fatto che sia pressoché inutile tentare di affermare dei "vin di vitigno". Come ha detto Pedron, il pinot grigio ce lo siamo fatti scippare, la barbera pure, adesso toccherà - sta toccando - al moscato (del resto - dico io - anche i francesi si son fatti scappare cabernet, merlot, chardonnay) e l'unico che abbiamo "salvato" è stato il prosecco, cambiandogli nome - al vitigno - in glera e facendo della doc Prosecco una denominazione con riferimento geografico (un paesino friulano).
Dunque, aggiungo, se abbiamo perso la battaglia dei vitigni, almeno cerchiamo di vincere quella dei territori. E di quei marchi collettivi - le doc, quelle vere, quelle buone - che quei territori - quelli buoni, quelli veri - rappresentano.
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