10 luglio 2010

E adesso sulle bottiglie dei soci della Fivi comincia a vedersi il marchietto

Angelo Peretti
Credo, o meglio, spero che occorrerà cominciare a memorizzarlo il logo dell'omino con il cesto di uva sulla testa e l'ombra che diventa una bottiglia. Il marchio è quello della Fivi, la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti. Nata nel luglio del 2008 su modello della francesissima federazione dei vigneron indépendant, l'italica federazione ha l'ambizione di mettere a fattor comune l'esperienza dei vignaioli nostrani. Definendo il vignaiolo - lo si legge in una nota diffusa nei giorni scorsi - come "colui che coltiva le sue vigne e ne imbottiglia in cantina il prodotto, curando personalmente il proprio vino. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, il suo nome e con la sua etichetta". E non è poca cosa.
Sta di fatto - ed è questa la notizia - che in questi giorni han preso a circolare le prime bottiglie che portano impresso - in etichetta o sulla capsula - il logo della Fivi. Significa che quel vino è stato fatto da un produttore che s'è impegnato a rispettare lo statuto associativo, che è abbastanza restrittivo. Esattamente come accade per i vigneron transalpini. Di là dalle Alpi compare il marchietto dell'omino con la gerla in spalla: è il segno che quel vino è in regola con l'autodisciplina del (potente e lobbystico) gruppo francioso. Qui da noi, dicevo, l'ometto che si troverà - e in alcuni casi già si trova - ha il cesto sul capo. Più stilizzato e in monocromia rispetto al logo che riproduco qui (ha fatto la sua comparsa all'ultimo Vinitaly). Spero abbia però la stessa efficacia del modello di Francia.
Già, perché dei vini dei vigneron francesi sono da anni acquirente (son tanti, tantissimi i soci da quelle parti) e mai - dico mai - mi son pentito dell'acquisto. Sempre bevuto bottiglie fra il buono e l'eccellente. Dotate di personalità. E di rispondenza ai caratteri di terroir. Una garanzia, per la mia personalissima - ma ormai pluriennale - esperienza.
Spero - ripeto, spero - che anche in Italia sia così: che quel marchio diventi sinonimo d'una garanzia suppletiva, della conferma d'un sincero rispetto del terroir d'appartenenza. Che si possa pensare che davvero non c'è trucco e non c'è inganno. Che quel certo vino racconta realmente il magico incontro d'una vigna, d'un suolo, d'un clima e soprattutto della personalità d'un uomo o d'una donna che fa vino.
Se la scommessa sarà vinta - ed è scommessa prima di tutto culturale, ideale -, molte cose cose cambieranno nel mondo del vino italiano. Finalmente.
Intanto, c'è il marchio. E a novembre dovrebbe esserci - sembra a Torino - anche il primo “Salone dei vignaioli indipendenti”, durante il quale - lo dice un'ulteriore nota dell'associazione - "i consumatori potranno fare la spesa direttamente dai produttori". Ed anche questa è una novità.

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