25 luglio 2010

Il vino dei salesiani

Angelo Peretti
Ci sono tre cose che neppure l'infinita sapienza dello Spirito Santo conosce: come la pensano i gesuiti, quante sono le congregazioni delle suore e dove trovano i soldi i salesiani. La barzelletta me l'ha raccontata qualche anno fa proprio un salesiano, per cui non credo la si possa annoverare fra le storielle anticlericali.
Da quel che conosco del modo d'agire dei figli di don (san) Giovanni Bosco, be', come trovino i soldi i salesiani lo so: essendo intraprendenti e concreti. Magari mettendosi a fare impresa. Come accade dalle parti della Terra Santa, che è in realtà - lo sappiamo - terra martoriata, al confine tra Israele e Palestina, e fors'è vero che per esser santi occorre esser prima martiri.
Là, a cinque chilometri da Betlemme e una dozzina da Gerusalemme, i salesiani fanno vino. Fino a qualche anno fa - ho letto - produceva anche più di 400mila bottiglie l'anno. Poi, coi disastri che ci sono stati da quelle parti, la produzione è crollata. Ora si riparte. Con un progetto di cooperazione che ha messo insieme realtà molto diverse, qui in Italia. Che so: da Riccardo Cotarella alla Civiella, la piccola cooperativa che ha a capo Sante Bonomo, sul "mio" lago di Garda, dal Vis, il Volontariato internazionale per lo sviluppo, alla Provincia autonoma di Trento, e via discorrendo.
La cantina di laggiù si chiama Cremisan. L'accento, se ricordo come pronuncia il nome Sante, va sulla e: Crèmisan. Dà lavoro a una quindicina di famiglie, più gli stagionali. E col venduto si finanziano attività educative per i ragazzi del posto: don Bosco faceva grosso modo così, nel suo Piemonte dell'Ottocento.
Uno dei vini l'ho tastato. In realtà, dovevo provarne due, ma uno sapeva di tappo. Peccato.
Quello che ho bevuto è un bianco. Si chiama Hamdàni & Jàndali, che sono poi i nomi dei vitigni autoctoni da cui nasce. Coltivati dalle parti di Shaffa, vicino a Betlemme.
Come l'ho trovato? Un bel bianco. Magari un po', come dire, "perfettino": mi sarei aspettato qualcosa che mi raccontasse di più la tensione della sua patria d'origine. Epperò è un bianco che si fa bere, e che potrebbe tranquillamente competere sul mercato internazionale.
Cerco di descriverlo.
Al naso, subito, immediato, un accattivante ricordo di ananasso. Poi, la pesca bianca. E gradualmente verrà fuori, poi, una vena elegante di salvia e un che di mentuccia.
In bocca c'è polpa. E morbidezza. Attenti: morbidezza, mica dolcezza. Ed anche vi è una bella frechezza che aiuta la beva e dà slancio al frutto.
Il finale, di buona lunghezza, è tutto giocato sul frutto tropicale surmaturo.
Vino esotico, non c'è dubbio. L'alcol è a tredici gradi.
Il packaging è moderno, marketing oriented. Come il vino, del resto.
Se dovessi valutarlo coi miei faccini, direi uno e quasi due. Ma qui gli unici faccini che m'interessano son quelli dei ragazzini che - spero - potranno diventar grandi anche con queste bottiglie, e aiutare a portare comprensione reciproca in quel pezzo di mondo. Che ha bisogno di pace. Come tutti.

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