29 dicembre 2011

Andoni, o dell'amore forzato

Enrico Lucarini
Mi piace il sale. Ne ho collezionati molti, da ogni parte del mondo: dai cristalli piramidali delle saline di Cipro ai granelli del sale di canna del fiume Nzoia alle salgemme persiane.
Mi diverte a tavola improvvisare nuovi abbinamenti, provando ad anticiparne con la mente gli effetti sulle pietanze.
Spesso, quando apro la madia e m’interrogo se sia meglio prendere l’uno o l’altro prodotto, mi torna alla mente quando conobbi Andoni Luis Aduriz (chef del blasonato ristorante Mugaritz in terra d’Errenteria) e del discorso che fece.
Spiegò che sin da piccolo apprezzava la cucina, e in particolare quanto preparava sua madre, e che una volta le chiese quale fosse il segreto per cui un suo piatto fosse tanto squisito. La madre rispose che era buono perché l’aveva preparato con amore. Una risposta che credo tutti han ricevuto nella loro vita da parenti di un qualche grado. Ma Andoni non si fermò qui, si chiese invece cosa volesse dire “cucinare con amore”. E trovò pure la sua risposta: cucinare con amore voleva dire prestare la massima cura in ogni dettaglio. Bella risposta, peraltro condivisibile, forse non esaurisce la questione ma di sicuro ne pone in luce alcuni aspetti. E nel suo ristorante, lo chef Andoni vuole che si cucini con amore, visto che i risultati che si ottengono son poi migliori. E come ottenere tutto ciò? Semplice, obbligando la brigata in cucina alla massima attenzione. Ovvero “costringendo” a maneggiare gli alimenti solo con minute pinzette, a pesare anche la singola spezia. Anche il sale. Anzi, per il sale solitamente usava delle comprese prepesate (che oggi ritroviamo peraltro in molte cucine professionali).
Confesso che la cosa mi colpì molto, e tuttora mi chiedo se i risultati ottenuti con tale metodo siano effettivamente validi. A ben pensarci, quando andiamo a pranzare in un ristorante pluristellato, un po’ per l’impegno economico, un po’ per il titolo che sfoggia, non siam disposti a perdonar nulla. Una tovaglia con un errore di stiratura o una pietanza fuori temperatura non sono accettabili, così come una troppo sapida. Preferirei però che si miri ad ottener tale risultato non con una standardizzazione dei processi produttivi, ma con una vera e spontanea passione per cui ogni collaboratore in cucina assaggi, mediti, sbagli, corregga quanto sta preparando secondo il suo gusto, e non misurando i decimo di grado e il peso della foglia di basilico da usare.
Razionalità contro utopia? Può darsi, ogni giorno me lo chiedo.


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