28 giugno 2010

Ma se una doc affonda, annega tutta la filiera

Angelo Peretti
Scambio di battute con un vigneron, sabato. Sostengo che la mia opinione è che quando una denominazione è grande dimensionalmente, o si salva tutta, o muore tutta.
Il contesto dell'affermazione? Una chiacchierata sulla crisi di rigetto che qui e là si avverte in giro per l'Italia verso alcuni consorzi di tutela del vino. Con la nascita di gruppi, associazioni, marchi di produttori che intenderebbero uscire dagli enti consortili a promuoversi per conto proprio.
Dico subito: che i produttori comincino a mettersi insieme credo davvero sia cosa buona e giusta. Ma pensare che si possa far da sé quando si porta in etichetta il nome d'una denominazione e si vuol concorrere al grande gioco del mercato globale, be', quello lo ritengo quanto meno velleitario.
Secondo me, non c'è niente da fare: se tu produci il vino d'una certa doc e quella doc va in crisi di reputazione, allora prima o poi cominci ad affondare anche tu. Anche se sei bravo a far vino. E quando affondi è dura risalire. Fatte le debite eccezioni ovviamente, ché il genio esiste. Ma allora non è la denominazione a salvarlo, bensì la sua genialità, e dunque non si berranno le sue bottiglie perché appartengono a quella certa denominazione, ma esclusivamente perché le ha fatte lui: in casi del genere, chi se n'importa se quel bianco o quel rosso son doc oppure igt oppure vini da tavola? Ma di geni, ricordiamocelo, al mondo ce ne son pochi.
Capisco l'obiezione: ma se il consorzio d'appartenenza non promuove politiche di promozione sufficienti, e magari sembra far solo l'interesse di questo o quel big, che cosa resta da fare al piccolo produttore se non uscirne?
Mi permetto di dire la mia. Di dire cosa farei io, rischiando a mia volta di peccare di velleitarismo. Credo che la prima cosa da fare sia un salto di mentalità, da parte di tutti, a cominciare proprio dai piccoli e bravi: è necessario allenarsi a pensare ed agire in modo che la denominazione venga considerata non più come un orpello da scrivere in etichetta, bensì come una vera e propria marca da valorizzare. Insomma: occorre far politica di branding non solo sul proprio nome (ricordiamocelo: per affermare un marchio servono tempo, tanto, e quattrini, tanti), ma prima ancora, e soprattutto, sulla doc trasformata di fatto in una marca. Ché se cresce in reputazione la doc tutt'intera, allora cresci anche tu, ma se precipita, affoghi al pari degli altri, prima o poi.
Possibile che se l'obiettivo è questo non si trovi un accordo dentro alla filiera? Secondo me sì: se l'obiettivo è questo, l'accordo si può trovare. A una condizione.
La condizione è che se la doc - come ho detto - diventa essa stessa marca, allora le politiche comunicazionali e promozionali che interessano la denominazione siano coerenti. Abbiano una coerenza interna, intendo. Ma allora va considerato anche che una marca la si deve promuovere su tanti mercati, uno diverso dall'altro. E dunque servono azioni ben diversificate, ancorché dentro un piano comune e condiviso.
Questo è il nodo: valutare i diversi target di clientela, capire come "aggredirli" ed affidare mission diverse ai diversi attori della filiera produttiva, all'interno di un progetto coordinato. Insomma: l'industriale avrà i propri obiettivi, la cooperazione altri, i piccoli-medi vigneron altri ancora, ma se i piani d'azione saranno diversificati all'interno di un piano strategico comune, allora i risultati potranno arrivare un po' per tutti. Altrimenti sarà farsi la guerra tra poveri, in attesa del naufragio.
E qui sì che l'associarsi da parte dei piccoli e medi in una sorta di lobby può giovare. E può giovare a tutti se la lobby è dentro al consorzio ed ha chiari gli obiettivi per un'azione sui target di riferimento.
Intendo che mettendosi assieme, la percezione dimensionale dei piccoli si accrescerà dentro alla filiera. Anche se tutti assieme i piccoli pesassero meno di uno solo dei grandi. Non importa: se i piccoli saranno percepiti come un'entità accomunata da obiettivi condivisi, sarà comunque più facile portare a sintesi i singoli piani operativi che interessano la denominazione nel suo complesso. E nel contempo sarà più facile utilizzare appropriatamente le leve di cofinanziamento pubblico, che sono ancora abbastanza interessanti. Un conto è ripartire i flussi finanziari consortili fra tre soggetti: industria, cooperazione, vigneron associati. Un altro è avere una fila di questuanti fuori dalla porta che chiedono ciascuno un po' d'elemosina. L'elemosina non fa crescere nessuno. Fa sopravvivere un attimo, ma niente di più.
Dunque, ci si potranno spartire ruoli, obiettivi e piani d'azione: l'industria darà l'assalto a quel target, la cooperazione a quell'altro, i piccoli associati a un altro ancora.
In un'affiatata compagnia teatrale, se ciascun attore recita bene la propria parte, l'applauso alla fine ci sarà per tutti, e così pure l'incasso al botteghino, cosa che, scusatemi, conta di più ancora dell'applauso, se si vuol campare.
Vaneggio?

7 commenti:

  1. quoto parola per parola, lettera per lettera.

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  2. Sono abbastanza d'accordo e avverto le stesse cose e movimenti che segnali tu Angelo.

    Ma cosa fare quando si è in una doc molto piccola (come tante in Italia) e i produttori più importanti come quantità sono veramente immobili e non reattivi a qualsiasi proposta di sviluppo della denominazione?

    Inoltre non so se sei a conoscenza di un nuovo decreto o legge che si chiama "164" (penso) che obbligherà tutti i produttori o imbottigliatori di vini a iscriversi ai consorzi se il consorzio detiene fra gli iscritti la maggioranza della produzione doc. Il che vuol dire che una piccola azienda come la mia che fa parte solo del consorzio Gambellara e che produce circa 5.000 bottiglie di durello l'anno, dovrà iscriversi al consozio Monti Lessini contro la propria volontà aggravandosi di un'uscita annua di circa 1.000 € anche se contraria. Unico modo per fuggire dall'obbligo sarà non produrre il vino con la menzione doc.

    Mi sembra che si voglia più far soppravvivere i consorzi che non le denominazioni.

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  3. @Stefano. Fino a pochi mesi fa, il mondo del vino italiano era regolato dalla legge 10 febbraio 1992, n.164. L'8 aprile 2010 è stato promulgato il decreto legislativo n. 61, che sostituisce la vecchia 164.
    All'articolo 17, il decreto dice così: "Il consorzio riconosciuto, che intende esercitare nei confronti di tutti i soggetti inseriti nel sistema dei controlli della DOP o IGP, le funzioni di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e cura generale degli interessi relativi alla denominazione è tenuto a dimostrare, tramite verifica effettuata dal Ministero sui dati inseriti nel sistema di controllo ai sensi dell'articolo 13, la rappresentatività nella compagine sociale del consorzio di almeno il 40 per cento dei viticoltori e di almeno il 66 per cento della produzione certificata, di competenza dei vigneti dichiarati a DO o IG negli ultimi 2 anni".
    Questo significa che se un consorzio supera le quote di rappresentatività indicate da questo articolo, può fare promozione "erga omnes", ossia imporre a tutti coloro che utilizzano la denominazione il pagamento delle quote deliberate per l'attività di promozione dall'Assemblea dei soci, ed ovviamente queste quote saranno proporzionate alle quantità prodotte. Attenzione: può imporre il pagamento delle quote della promozione, non l'iscrizione al consorzio. Qualora il Consorzio dei Monti Lessini abbia, come ritengo, l'erga omnes, dovrai pertanto pagare comunque le quote relative alla promozione, che tu sia o non sia socio. A quanto ammontino queste quote per la doc Monti Lessini non lo so: se fossero, come sostieni, 1000 euro per 5000 bottiglie, vorrebbe dire che ammontano a 20 centesimi a bottiglia, che mi sembra una soglia piuttosto elevata (verifica presso il Consorzio a quanto ammonta attualmente la quota della promozione applicata all'imbottigliato).
    Giusto? Sbagliato? Secondo me, giusto: se si utilizza una denominazione è perché quella denominazione costituisce un valore aggiunto in termini di percezione da parte del mercato. Ma quella percezione non si crea da sola. Occorre promuoverla, farla conoscere, e questo rappresenta un costo, che senza l'erga omnes graverebbe solo sui soci del consorzio, ma di cui beneficerebbero in realtà tutti i produttori, soci e non soci.

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  4. Grazie Angelo, ora ho capito meglio come funziona. Non ero ben informato. Mi sembra dunque cosa buona e giusta.

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  5. Carissimi sono estremamente interessato al dibattito in corso che mi sembra impostato con serietà e voglia di capire.
    Ringrazio Angelo per la semplicità con cui sa trasferire informazioni non sempre semplici e sottoscrivo quanto espresso sul tema della condivisione e gestione di una marchio collettivo. Se fino a ieri era possibile stare a guardare quanto si faceva, o non si faceva, in Consorzio oggi muoversi fuori da questo dibattito non serve a nessuno sia perché si perde in ricchezza di argomenti sia perché il Consorzio sufficientemente rappresentato deciderà anche per i non soci che saranno comunque chiamati a contribuire alle spese di tutela, valorizzazione e gestione della DOC.
    Per quanto riguarda le quote va distinto il vecchio sistema che facendo riferimento alla legge 164 riguardava solo i soci con suddivisione tra quota uva, vino e bottiglie e quello che succederà con il nuovo decreto legislativo 61 che prevede la partecipazione ai costi per tutti gli utilizzatori della DOC.
    Nel caso del Durello i produttori secondo lo statuto sono chiamati, oggi, a corrispondere 45 € circa per l’attività viticola, 681 € per la vinificazione e 227 € circa per l’imbottigliamento di 5000 bottiglie, il tutto porta a circa 1000 € di quota associativa all’anno.
    Non so se e quanto cambierà, con il nuovo regolamento, questa cifra; certo è che chi non partecipa al dibattito consortile avrà poche possibilità di poter intervenire su questo specifico argomento. Ricordo che sono comunque già parecchie le aziende vitivinicole; ne cito alcune: Cecchin, Sandro De Bruno, Corte Moschina socie di più consorzi e positivamente impegnate nella valorizzazione delle varie DOC sostenendo l’attività dei relativi consorzi.
    Sono queste aziende che anche con il loro impegno economico hanno consentito di creare un valore aggiunto al Durello.
    Cosa di cui oggi sono in molti a goderne.

    Aldo Lorenzoni

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  6. Anch'io ringrazio Angelo per questo ottimo articolo e per la semplicita' con cui sa trasferire informazioni.
    Non sono un produttore ma un distributore di vini italiani nel mercato Americano, quindi il mio parere non e' importante come quello di chi FA IL VINO e deve affrontare questi costi ma voglio solo dire che solo dello stesso parere di Angelo che "la denominazione venga considerata non più come un orpello da scrivere in etichetta, bensì come una vera e propria marca da valorizzare". Aiuterebbe molto anche chi sta cercando di promuovere i prodotti made in Italy.
    Andrea

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  7. Ringrazio Andrea della testimonianza. Mi domando se i produttori sappiano quantificare l'asset costituito dalla loro denominazione. Me lo domando, e spesso mi vien da dire che no, non lo sanno.

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