21 luglio 2009

La vendetta del pane

Angelo Peretti
Il pane, la sua fragranza. Volutamente, incoscientemente abbandonata, dimenticata, abiurata. Ora talvolta rimpianta. A tratti, solo a tratti, ritrovata. Ho avuto modo di conversarne pubblicamente - e peraltro d'altri temi ancora di gastronomia - qualche giorno fa a Verona con Licia Granello, giornalista di Repubblica. Donna intelligente. Gourmand curiosa ed errabonda.
Eravamo a Sorsi d'Autore, manifestazione di letteratura e vino. Si presentava il suo libro "Mai fragole a dicembre", Mondadori. Tomo di quattrocentottanta pagine, epperò diviso in capitoletti veloci da leggere, da assaporare, da gustare. Una scrittura pulita e dinamica. Consiglio di sbocconcellarlo nei giorni di vacanza.
Il pane, dicevo. N'ho voluto parlare perché m'aveva colpito come ne scriveva la Granello. Il pane era tutto, una volta. Poi siamo diventati ricchi, e l'abbiamo esiliato dal desco. "Poi - scrive Licia - è partita la delegittimazione. Abbiamo smesso di considerarlo un alimento importante, fondamentale, imprescindibile della nostra dieta quotidiana. Perché è cibo povero per antonomasia, e l'Italia del boom economico doveva individuare un capro espiatorio che la separasse visceralmente - nella pancia! - dalla guerra e dalla fame".
Ma c'è andata male. "Il pane - dice - allora si è vendicato. E piano piano ha perso la sua bontà. Ce ne siamo accorti con molti anni di ritardo, perché in fin dei conti non era così importante. Il trionfo della fettina, degli spaghetti con le vongole, dell'uovo di Pasqua e dei formaggini aveva spazzato il cibo d'antan così antico, superato, senza appeal, senza futuro".
Ed è vendetta atroce, quella del pane. Ché oggi è alimento a consumo orario. Poche ore dopo averlo preso, ecco che diventa duro il sasso o elastico come la gomma. Oppure sembra fatto di polistirolo. Sa di plastica. Immangiabile. E crescono le intolleranze alle farine. E gli stessi fornai s'ammalano d'allergia.
Allora, magari, ci si rifugia nel surrogato. Il cracker, il grissino, quant'altro si trovi in preconfezione. I pani dell'industria, del consumo veloce.
Ecco, dico io: questo surrogato di pane non è più simbolo di comunione. Il pane lo si divideva col compagno di tavola: com-pagno, quello che mangia il pane con te. Lo si univa all'altro alimento, che diventava com-panatico. Affratellava, univa. Oggi il pane in busta è simbolo della solitudine. La solitudine di chi vive freneticamente in mezzo ad altra gente, senza però averne condivisione alcuna. Semza compassione, senza com-passione, intendo. Il pane solitario. Ed anche questa è vendetta. E ce la siamo cercata.

4 commenti:

  1. Il pane cattivo è spesso figlio della pigrizia. Ovvero, secondo me ognuno ha il pane che si merita. Ci sono sempre più piccole realtà che lavorano bene (pensa a Ceres a Verona, ad esempio). Certo, costa un po' di più e magari non lo vende l'esercizio sotto casa...

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  2. Vero, Enrico, ma da casa mia a Ceres, ad esempio, ci sono 50 chilometri: fare 100 chilometri andata e ritorno per quattro panini mi pare un pochettino costoso...

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  3. Alessandra fa il pane in casa, dice che costa meno
    e che le bambine si divertono
    volete che una sera ci facciamo invitare ?
    Ambra

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  4. Anche noi facciamo il pane in casa, e in effetti è tutta un'altra cosa.

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