Angelo Peretti
Si dice che una rondine non faccia primavera, e dunque non può essere l'assaggio d'un sol bicchiere a far conoscenza enologica. Pertanto, quel che vado a dire lo si prenda, ancor più del solito, con le pinze, ché dovrebbe essere oggetto di maggior approfondimento. Però in Campania, in terra del Vesuvio, dove si fan vini bianchi del Lacryma Christi a base d'uve di caprettone (leggi coda di volpe) e falanghina, ho l'impressione che ci sia un tesoro bianchista che è lì che aspetta il suo turno di gloria, e potrebb'essere gloria di non poco conto. Mi riferisco alla catalanesca, un'uva d'antica presenza, ma che per uno di quegli strani e astrusi e incomprensibili misteri dell'enoico mondo è solo da una manciata d'anni - dalla vendemmia del 2005 - entrata nel novero delle varietà da vino. Migrando fra le le cultivar ammesse nella composizione, appunto, del Lacryma Christi bianco. Ma che pure, da quel pochissimo che ho tastato, e che però m'ha entusiasmato e contagiato, potrebbe avere le carte in regola per sfoggiare autonoma dignità. Tant'è che è vigna, ho detto, di lunga acclimatazione sui suoli vulcanici vesuviani: "Si dice che la catalanesca - scrive Giulia Cannada sul wine blog di Luciano Pignataro - sia stata portata in Campania da Alfonso I di Aragona e messa a dimora sulle pendici del Monte Somma verso il 1450". E scusate se è poco.
Ora, ad avermi convinto che qui ci sarebbe da approfondire, e pure da scommetterci e costruirci un percorso di crescita - è stato un vin bianco da tavola (per via degli orpelli di legge) della vendemmia del 2008, il Catalò, tutto catalanesca, dell'azienda vinicola Sorrentino, da Boscotrecase. Da vigne, leggo sul sito, allevate a guyot e tendone intorno ai 600 metri d'altitudine. Vinificato in acciaio, ed è quel che ci vuole, ritengo.
Nel bicchiere ho trovato un vino paglierino brillante che regalava memorie insieme citrine e floreali. Il fior di tiglio, intendo, s'intersecava con note di cedro ed erba limoncella. E, sotto, una sottile vena fruttata tropicale.
In bocca è bianco sapido, a tratti salino, e ancora assolutamente agrumato. Lunghissimo nella presenza della limoncella. Freschissimo - ed è faccenda non così facile da ottenere da queste parti, dove l'acidità tende a flettere - e di gran bella beva.
Vino tutto sommato semplice, certo, nel senso che non ha presunzione, non mira né alla polpa, né all'eccessiva complessità, ma ugualmente di considerevole gradevolezza e di spiccata, nervosetta personalità. Un bianco di piglio moderno - quella modernità vera, che mira alla pulizia e al carattere, mica quella che insegue, scopiazzandole, le tendenze modaiole d'importazione - fatto con un'uva antica a pressoché sconosciuta fuori dai confini vesuviani.
Ho detto aprendo che trarre valutazioni da un singolo bicchiere è un azzardo, certo, ma se vi capitasse d'assaggiarne, fatemi sapere.
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