20 gennaio 2012

Ma l'Amarone può ancora crescere?

Angelo Peretti
Stavolta l'Anteprima dell'Amarone conto di non perdermela. Per la cronaca: è il 28 e 29 gennaio, al palazzo della Gran Guardia, nel centro di Verona. L'anno passato ci feci una toccata e fuga, perché avevo altri impegni concomitanti. Stavolta l'ho messa in agenda: incrocio le dita. Perché sono curioso di tastare i vini, ed è di scena la vendmmia del 2008, ma anche, e sto per dire "soprattutto", voglio sentire cosa racconterà il professor Eugenio Pomarici, dell’Università Federico II di Napoli, sul posizionamento della filiera dell’Amarone sui mercati internazionali, e in particolare in mercati chiave come il Canada, la Svezia, la Germania e gli Stati Uniti. L'obiettivo, dice il comunicato stampa del Consorzio valpolicellese, è quello di "orientare efficacemente la futura politica dell’export".
Mi si domanderà: e perché mai dovrebbe saperla Pomarici 'sta cosa? Rispondo: perché ci ha già indovinato una volta, e dunque perché non potrebbe riuscirci di nuovo?
La prima volta fu nel 2006, e se si guarda alla storia amaronista è un secolo fa. Ma fu il momento dell'avvio di quella corsa che ha portato l'Amarone a crescere, crescere, crescere. In quantità e in prezzo. E Pomarici aveva previsto che lo spazio c'era, e lo scrisse in un libretto che probabilmente pochi hanno letto. Spiegava che la Valpolicella poteva spingere sull'acceleratore perché godeva di vantaggi strutturali che altri non mostravano di avere.
Si diceva, nella ricerca d'allora, che il "sistema Valpolicella" risultava complesso "perché agiscono come propulsori della dinamica una molteplicità di soggetti con caratteristiche dimensionali e di organizzazione dell’offerta molto diverse ma, a ben vedere, complementari. Vi sono le piccole imprese caratterizzate da una forte specializzazione nei vini Valpolicella soprattutto di elevatissimo pregio, fortemente caratterizzate dal territorio, con imprenditori di grandissima capacità relazionale, con politiche distributive molto selettive e orientate prevalentemente al mercato interno. Vi sono poi le medie imprese, di grande talento e esperienza nella produzione, che gestiscono una gamma molto ampia, affiancando ai vini Valpolicella, nei quali mantengono una specializzazione, prodotti di altre aree e che distribuiscono i loro prodotti in Italia ma anche, per una quota importante, all’estero. Operano, infine, grandi imprese che presentano una notevole capacità di innovazione e una notevole solidità e che gestiscono una gamma multiregionale e assai differenziata per fasce di prezzo e una molteplicità di canali di distribuzione in Italia e all’estero".
La citazione è lunga, capisco, ma è interessante ribadirla. Com'è interessante ripetere che queste tre tipologie d’impresa convivevano allora senza farsi (troppo) la guerra e senza farsi (troppa) concorrenza, perché di fatto avevano scelto di ritagliarsi mercati diversi, e questo consentiva di crescere ancora. Non solo: secondo Pomarici, i vari attori della filiera amaronista avevano messo in piedi una sorta di partership ampiamente diversificata, una "molteplicità di relazioni" che si esprimeva "sotto il profilo della fornitura e dell’acquisizione dei fattori di produzione".
La chiave del successo era questa: "Il sistema - cito la ricerca d'allora - è reso efficiente sotto il profilo produttivo da una rete di scambi di uve e vini tra diversi operatori che consente ai più di ottimizzare lo sfruttamento della propria capacità produttiva e/o commerciale e di valorizzare le specifiche competenze». In poche parole, commentavo io cinque anni fa, quello valpolicellese era un tipico caso di distretto industriale, di quelli che hanno fatto grande economicamente il nordest.
Bene. Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, tantissima. Sono curioso di sentire qual è la nuova fotografia che Pomarici ha fatto dell'Amarone e della Valpolicella. Per cercar di capire se il treno correrà ancora.

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