9 giugno 2011

Forse la struttura: ecco il problema

Angelo Peretti
Chi frequenta con maggiore assiduità queste mie pagine on line, probabilmente sa che sono un fan di Enogea, il "bimestrale indipendente" in stile fanzine rock di Alessandro Masnaghetti. La considero la più bella pubblicazione enoica che si stampi in Italia. Bella non già esteticamente, ché anzi è piuttosto minimalista nell'impaginato (e anche nella copertina, tutta gialla), ma come contenuti. In particolare, ne apprezzo la grande coerenza: chi legge il Masna, oppure il suo sodale Falco (al secolo Francesco Falcone), sa esattamente come pensano il vino, e questo non è poco. Anche se magari io amo un tipo di vino un po' diverso, meno esposto nel tannino, meno robusto nella struttura, più nervoso nella vena acida. Ma è questione di gusti.
Trovo in ogni caso spesso illuminanti le cose che si leggono su Enogea. Stavolta - mi riferisco al numero d'aprile-maggio - mi sono letto e riletto la paginetta introduttiva all'assaggio dei Bordeaux del 2010: testo di Masnaghetti. Ma non per puro interesse filo-bordolese. Piuttosto, perché dice cose che trovo di condividere in toto riguardo al vino e alla sua attualità (e alle sue prospettive?).
Trascrivo. Dice così: "Poi ci sono i vini, che è impossibile non giudicare importanti, ma che in fondo - e al di là delle distinzioni che pure ci sono e avremo modo di fare nell'articolo - sono accomunati da una sensazione di uniformità, di troppo bello, di troppo perfetto (tant'è che più di una volta mi sono chiesto: che cosa ha di particolare questo 2010 che altre annate non hanno, quale è il segno distintivo che in degustazione te lo fa riconoscere - penso al 1982 o al 1996 - ... be', proprio non saprei, mi sono risposto... forse la struttura). E mi raccomando: non tiriamo in ballo storie parkeriane già masticate sui guru che manipolano il mercato e balle varie. Piuttosto pare una deriva inconscia, o se vogliamo un'ossessione, che porta a quell'eccesso di perfezione/selezione che alla lunga finisce col togliere l'anima anche ai vini più dotati. Non la barrique, non le troppe estrazioni. Solo un ecceso di cura e di attenzioni".
Ecco: parole sante. E non mi riferisco a Bordeaux e ai suoi 2010, che non ho tastato. Mi riferisco più in generale al mondo del vino. La mia impressione - ripeto, in generale - è esattamente quella del Masna: la troppa cura, la ricerca del perfezionismo, il rigore tecnico stanno uccidendo l'anima del vino. Ecco, questo è "il" problema.

5 commenti:

  1. Mi trovo anche io d'accordo. Io che ho un passato da ricercatore e che ho un atteggiamento estremamente tecnico, "illuministico" direi, mi sono pero' in questi anni convinto che troppa tecnica possa nuocere alla personalita' dei vini, e probabilmente anche la troppa attenzione.
    La cosa migliore con la tecnica e' impararla, e poi imparare a dimenticarsene un po'. Un errore ancora piu' grosso e' di non impararla affatto.

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  2. Proprio perchè la tecnica permette di ottenere vini quasi "perfetti" che diventa assolutamente necessario recuperare, preservare, ed eventualmente esaltare, quelle peculiarità di ciascun terroir.
    Nessun paese come il nostro ha di che distinguersi ... per andare avanti bisogna fare un passo indietro ... l'ho detto anche altre volte ma scusate se mi piace ripeterlo.

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  3. @Gianpaolo. Sono assolutamente d'accordo con te. Come in qualche campo della creatività - e fare vino è esprimere creatività, a mio avviso - è del tutto necessario avere un eccellente dominio della tenica, senza però permettere che questa finisca per prevalere. Dev'essere lì, come conoscenza sottesa.
    @Giordano. Ripeti, ripeti: non ci si deve stancare.

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  4. di recente ho bevuto qualche vino che mi è stato consigliato. Fatto bene, con un buon frutto, strutturato, perfetto ma, non godereccio.
    Sono convinto che il produttore ha lavorato in maniera maniacale, sia in vigna che in cantina. Il risultato? Niente emozioni.

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