16 giugno 2011

Maurizio e i big value wines delle cantine sociali

Angelo Peretti
Maurizio Gily è una persona seria, che scrive di cose serie in modo serio, e un'introduzione del genere magari rischia di non giovargli, ma la penso così. Scrive di vigne, di agronomia, di temi vitivinicoli. È il direttore di una rivista piuttosto tecnica (ma mica solo tecnica) come Millevigne. E ho letto un suo intervento sull'ultimo numero di Slowfood (tutt'attaccato), il periodico di Slow Food che viene spedito ai soci. Scrive di cantine sociali: "La cooperazione non è morta", titola, e se non siete soci Slow ma volete leggere per intiero il pezzo ugualmente, potete andare a scaricarlo dall'archivio on line della rivista: quando vi si apre il sommario, basta cliccare sul titolo dell'articolo.
Quello di Maurizio è un excursus tutto da leggere sulla nascita e sull'attualità del sistema cooperativo del vino in Italia. Breve, ché chi le cose le sa, mica ha bisogno di tanto spazio per esprimerle. Ricorda giustamente - ed è giusto ricordarlo, perché spesso si corre il rischio di dimenticarsi di questo concetto primario - che "lo schema della società cooperativa, in tutti i settori, è quello di una società di persone prima che di capitali" e che "prevede la partecipazione di ogni socio al voto in assemblea", e dunque gli amministratori di una cooperativa rispondono a loro, ai soci. Talché, pur prevedendo gli statuti il diviedo di distribuzione degli utili, "in verità, se ci sono utili e non sono reinvestiti né portati a riserva, il modo di distribuirli si trova facilmente: nel caso di una cantina sociale basta aumentare il valore delle uve conferite e pagarle di più". E i soci son contenti. Il problema è che "c'è stato anche chi, in questo modo, ha distribuito utili che non aveva, e qualche recente notizia di cooperative in difficoltà è da ricondurre a simili disattenzioni..."
I problemi, qui da noi, sono anche altri. Per esempio, nelle cantine sociali "è comunque molto più facile introdurre innovazioni nella vinificazione che non agire sul comparto agricolo, condizionando il modo di produrre dei soci, visto che questo sfugge al controllo della direzione aziendale". L'imposizione di decisioni dall'alto non funziona, nelle cooperative. E dunque ci vogliono pazienza e dialogo. Ripeto: si tratta di società di persone, e le persone vanno convinte, non obbligate. L'autorevolezza non si ottiene con l'imposizione dell'autorità.
Altro problemuccio mica da poco è che è duro a morire il luogo comune che le cantine sociali producano vini a basso prezzo e di bassa qualità. Per carità: casi del genere non sono così rari, ma ci sono anche straordinarie eccellenze. Ma per fare vera qualità si torna al tema precedente, la vigna. "Il settore più avanzato della cooperazione - dice Maurizio - sta tuttora attraversando una rivoluzione nella quale l'innovazione tecnologica è un aspetto importante ma non prioritario, a fronte del vero nodo della questione: il cambio di mentialità dei soci, che consente di produrre non più 'dell'uva', ma uva con le caratteristiche giuste per il vino-obiettivo". Ma "le molte aziende che l'hanno fatto o lo stanno facendo faticano ancora a emergere nella considerazione dei consumatori, almeno quelli di fascia alta, e dei critici, perché chi lavora bene sconta il danno di immagine dovuto a chi lavora male e a un passato in cui questo male era assai più diffuso".
Non c'è dubbio: è un errore quest'atteggiamento di "disattenzione" verso i vini delle cantine sociali. Perché, come osserva Gily - e condivido in toto - "oggi non ha più senso parlare di vini della cooperazione come di una categoria: come ovunque ce ne sono di eccellenti, di medi e di scadenti. Una denominatore comune è che, in genere, quelli eccellenti costano meno dei loro concorrenti 'privati': il fatto di non avere il profitto come missione qualcosa vuole pur dire. Il che fa di questi prodotti, come direbbero in America, dei big value wines".
Ecco, è lo slogan giusto: "big value wines". In italiano dovremmo dire "vini dal grande rapporto qualità-prezzo", ma suona male. In questo caso sì, suona meglio l'inglese.
Bravo Maurizio.

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