Angelo Peretti
Qualche giorno fa su quest'InternetGourmet dicevo del libro di Jonathan Nossiter, "Le vie del vino", edito da Einaudi, e di come in quelle pagine il regista - assurto a gloria fra gli enoappassionati per il suo film-documentario Mondovino - trattasse l'argomento del terroir. Con idee a tratti spiazzanti, intelligentemente.
Il tema del terroir è il filo conduttore della narrazione. Ed oltre ai passi che ho già citato allora, ce n'è un altro paio che vorrei porre all'attenzione di chi non si sia ancora cimentato nella lettura del volume.
C'è un certo punto in cui Nossiter scrive così, a proposito di certi vini troppo perfetti enologicamente e dunque omologati e privi d'anima: "È un po' come entrare al MoMA di New York e trovare non i Jackson Pollock e i de Kooning, ma delle copie ben fatte. Sempre copie sono. Peggio ancora: sarebbe come se le copie fossero presentate al pubblico come originali. E tali diverrebbero, per legge e per consuetudine. La gente assentirebbe, senza entusiasmo, per paura di affermare le proprie sensazioni, pur notando che i Pollock e de Kooning sono piatti, senza luce interiore, spenti. Temendo di 'sbagliare', di non essere 'certi del proprio gusto', lo abbandonerebbero, semplicemente. Oppure direbbero: 'Non provo nulla... Dev'essere perché non ci capisco niente. È colpa mia'. Ed ecco come si può nuocere in modo sottile al 'gusto' del pubblico. Glielo si toglie, lo si priva dell'affermazione della sua individualità, della sua libertà".
Ecco, sì: credo sia quello che è accaduto nel mondo del vino dalla fine degli anni Ottanta in poi, sotto la spinta di una critica pressoché globalmente orientata al "gusto internazionale". Il pubblico è stato spinto verso vini scuri, concentrati, alcolici, tannici, muscolosi, vanigliati, legnosi. Per timore di sbagliare, non si obiettava: si rischiava di far la figura degli stolti che non comprendono la grandezza d'un "tre bicchieri" o d'un "95 centesimi". Ma pian piano il vino è stato accantonato, messo in un angolo, perché divenuto incomprensibile.
Dunque, non è il formalismo stilistico, non è l'adesione al canone quel che conta. Quel che conta è la personalità del vino. E la lettura della personalità l'abbiamo smarrita per tanto tempo. Invece, come scrive Nossiter, "quello che conta è il terroir". Insomma, e cito nuovamente: "Un viticoltore sta a metà strada tra la levatrice e il mago. Senza la bacchetta magica, il terroir non si esprime. Quindi cosa scegliere, tra autore e terroir? Sono indispensabili tutti e due. L'uomo, senza contesto culturale, è perso, e ogni cultura, senza espressione individuale, è morta".
Ecco, il vino è un fatto culturale, prima di tutto. Ed è anche individuale. Riscopriamo il gusto. Il nostro.
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