Angelo Peretti
Verona è una specie di portaerei del vino. Prima provincia italiana per produzione a denominazione d’origine. E fra le denominazioni ce ne sono alcune che hanno fatto la storia dell’enologia italiana.
Verona è anche una specie di laboratorio del post Ocm vino. Perché nel Veronese, dopo la riforma della normativa europea sul vino, ci si è organizzati con un’autonoma “società terza” - Siquria - che gestisce i controlli. E perché sono emerse le prime asperità nel percorso che dovrebbe portare al cambio di pelle dei consorzi di tutela.
In Valpolicella è nata un’associazione, quella delle Famiglie dell’Amarone d’Arte, che riunisce una serie di celebri marchi del panorama amaronista. L’orientamento è quello di attuare autonome politiche di comunicazione. Tra i soci delle Famiglie, chi era nel consorzio c’è rimasto, chi era fuori continua per la propria strada.
In terra soavese s’è costituita l’associazione dei Vignaioli indipendenti del Soave, affiliata alla Fivi, la Federazione italiana, appunto, dei vignaioli indipendenti. Ne fanno parte una dozzina di nomi celebri o emergenti del panorama soavista. E c’è una clausola che prevede la non adesione al consorzio: di fatto, a parte chi era già fuori, gli altri si apprestano ad uscirne.
In entrambe le strutture militano produttori che stimo, e che fanno vini che ritengo in alcuni casi assolutamente esemplari.
Una constatazione, come dire, semantica, mi pare accomuni i due club: entrambi, pur annunciando che le scelte effettuate puntano a valorizzare quella che ritengono essere la miglior espressione della denominazione (i primi parlano d’Amarone, i secondo di Soave), in realtà sembrano mettere la denominazione - almeno, ripeto, semanticamente - in secondo piano. I primi sono infatti “Le Famiglie” (dell’Amarone) e gli altri i “Vignaioli indipendenti” (del Soave). Il che suona molto diverso dal parlare “dell’Amarone” (delle Famiglie) e “del Soave” (dei Vignaioli indipendenti).
Insomma: ad accomunare i produttori dell’uno e dell’altro team, di fatto, è prima di tutto l’appartenenza ad una medesima classe produttiva, famigliare o contadina a seconda del caso, e solo dopo la comune tipologia del vino. Ad esser posto in luce dai rispettivi termini associativi, dunque, non è in primis il brand della denominazione (la doc) e neppure quello della singola azienda (la “marca”), bensì il layout del sodalizio: le “Famiglie”, col loro marchio, e i “Vignaioli”, pure con marchio a sé.
La mia sembrerà una sottigliezza, un voler cercare il pelo nell’uovo. Non è così. Di fatto, mi sembra di trovarmi di fronte all’ennesima concretizzazione – pur secondo modelli organizzativi diversi - di un “difetto” tipico del mondo vinicolo italiano: ritenere che il brand da valorizzare non debba necessariamente essere quello della denominazione di pertinenza.
Si parla tanto di terroir, ma poi a finire che in Italia è relegato quasi costantemente in secondo piano proprio l’elemento accomunante del terroir: l’appellation. Nei due casi in parola, ad esempio, esponendo di fatto la convinzione – coscientemente o no, non è importante saperlo – che a creare valore per ciascun attore dell’iniziativa debba essere il marchio associativo, piuttosto che il brand della doc.
Certo, ci sarebbe molto da discutere se e come e quanto sin qui si sia davvero lavorato – ovunque, mica solo nel Veronese – per trasformare effettivamente il nome di una denominazione in un brand spendibile sul mercato. E temo che il bilancio sarebbe oltremodo negativo, se non avvilente. Penso che forse gli unici ad averlo realizzato, quest’obiettivo – e non so neppure se sia avvenuto consapevolmente – siano stati i produttori del Prosecco, che oggi infatti, nel bene o nel male, è vino che si vende da sé, quasi prescindendo dalla “marca” del singolo produttore. Come avviene per il Parmigiano o per il prosciutto di Parma: alzi la mano chi sa il nome anche di un solo produttore.
Si obietterà che questa riconoscibilità indistinta del prodotto non è per forza positiva, perché rischia di appiattire, di livellare, impedendo ai migliori di emergere. Ed è vero. Ma qui occorrerebbe aprire un ulteriore elemento di dibattito sul come far sì che la doc diventi brand e che sul brand si innestino politiche di valorizzazione delle singole “marche” (ossia dei singoli produttori). E non è su questo che voglio ora focalizzarmi.
Quel che voglio dire è che a mio avviso il prerequisito no può che restare uno: che il nome dell’appellation abbia valore. Altrimenti è inutile illudersi: non c’è salvezza per nessuno, né per i piccoli, né per i grandi.
La nuova normativa sul vino, il ruolo di gestire la denominazione, anche in termini di approccio al mercato - l’affiderebbe (uso il condizionale non a caso) ai consorzi di tutela, che sono chiamati (e qui non uso il condizionale, non a caso) ad attrezzarsi – culturalmente in primis – per tentare quest’impresa. Un’impresa epocale per il vino italiano: dal primo di agosto dell'anno passato, con l'avvio della nuova normativa europea, è cambiato tutto per il mondo del vino, ma ancora pochi sembrano essersene resi conto (o forse fa comodo far la finta che nulla sia cambiato). Non so quanti ce la faranno, ma ci si deve provare. Mettendo insieme – se si è capaci di farlo – esperienze, competenze, passioni. O almeno, questa è la mia opinione. Che, come tutte le opinioni, è opinabile fin che si vuole.
Che dire.....? facile uscire da una casa per entrare in un'altra,difficile e rimanervi. Difficile perchè pensiamo ancora molto singolarmente.
RispondiEliminaGettare per primi la spugna, affidando la ragione della scelta a suon di comunicati stampa,non significa avere vinto una guerra: non si vince mai in ordine sparso ma tutti uniti "tenendo sempre alta la nostra denominazione" e non il nome della casa di appartenenza.
E' demagogia ormai in tutti questi bei incontri, raccontere il bisogno di fare sistema. Nelle cose che si dicono, bisogna crederci fino in fondo e lottare uniti in casa proria.
Stefano vignaiolo e socio del consorzio.