1 ottobre 2010

E Romano Dal Forno disse: "Più che burocrazia, serve del grande Amarone"

Angelo Peretti
La concomitanza è del tutto casuale, giacché i servizi della rivista vengono programmati con larghissimo anticipo. Però è piuttosto interessante che, proprio nel mentre il Consorzio di tutela del Valpolicella e l'associazione delle Famiglie dell'Amarone d'Arte si confrontano a distanza con dei comunicati stampa, sulla faccenda prenda la parola un mostro sacro dell'Amarone come Romano Dal Forno.
Fatta questa prenessa, faccio ora una confessione, che mi serve da seconda premessa. In quest'Italia dell'eterno dualismo - dal Coppi-Bartali al Mazzola-Rivera e via discorrendo fino ai giorni nostri - capita talvolta che tra i fan dell'Amarone ci si divida tra quintarelliani e dalforniani. E che dunque si ponga l'interrogativo se si preferisca il vino di Bepi Quintarelli o quello di Romano Dal Forno. Detto che entrambi fanno grandissimi vini (certamente costosi, ma mai quanto un vino di punta della Francia, e dunque a confronto di tanti transalpini son quasi economici) e che di Quintarelli e di Dal Forno ne servirebbero di più non solo in Valpolicella, ma anche in Italia, detto questo, per togliere di torno ogni ombra di dubbio, affermo che se mi si proponesse di stappare una bottiglia dell'uno o dell'altro, opterei per un Amarone del Bepi. Ordunque, nonostante questo - o forse proprio per questo - reputo interessante riproporre qui quel che Dal Forno ha dichiarato a una rivista mica da scherzi: Wine Spectator. La più letta al mondo, tra le riviste del vino.
Sul numero di metà ottobre, appena arrivato agli abbonati, c'è un amplissimo servizio di Bruce Sanderson sui vini del Nord Est. E dentro al servizio ci sono due approfondimenti: uno dedicato a Romano Dal Forno, appunto (cinque pagine!), e l'altro ad Alois Lageder.
Dentro al pezzo dedicato a Romano, Sanderson scrive così: "La scorsa estate, 10 aziende vinicole di punta, che includono nomi al top come Allegrini, Masi, Tedeschi e Tommasi, hanno annunciato la costituzione di un gruppo chiamato Le Famiglie dell'Amarone d'Arte, che intende proteggere l'immagine dell'Amarone. Si sono legati a regole produttive più restrittive di quelle della denominazione. Dal Forno non appartiene al gruppo. Lui preferisce lasciare che siano i suoi vini a parlare per lui. Lui non è uno di quelli che dicono agli altri produttori come fare il loro mestiere. Lui crede che invece di focalizzarsi sulle regole burocratiche, i vignaioli della zona dovrebbero focalizzarsi sull'aumentare la qualità sia dei loro Amarone che dei loro Valpolicella, in modo da competere con i migliori vini d'Italia e del mondo. Quello, dice lui, è ciò che proteggerà l'immagine dell'Amarone".
Insisto: la coincidenza temporale è del tutto fortuita, ché credo che l'articolo Sanderson l'abbia scritto un bel po' di tempo fa. Però sono parole che ritengo possano servire per una riflessione.
Per quel che mi riguarda, e per quel che conta il mio parere, dico che le regole ci vogliono e che vanno rispettate e fatte rispettare. Però concordo: chi vuol fare un grande vino su quello deve concentrarsi, sul vino (e secondo me anche sulla fedeltà a quello stranordinario mix di fattori naturali ed umani che i francesi chiamano terroir). E se una zona vuol esser considerata terra di grandi vini deve dimostrare che i grandi vini esistono con assoluta continuità, per lungo tempo e con l'impegno di tutti. Di tutti.

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