18 febbraio 2011

Magari un che di formaggio

Angelo Peretti
Mi capita talvolta che mi si chieda di scrivere la prefazione d'un libro, d'un volume, e sono contento d'accettare, perché sono quei testi dove puoi metterci quel che vuoi, e quindi esprimerti con libertà, ché tanto sai benissimo che, alla fine, ben pochi li leggeranno: molti, tanti, le saltano a pie' pari le prefazioni. Fatica sprecata scriverle, allora, le prefazioni? Macché, un piacere. Ed un piacere è stato scriverla per una raccolta di ricetta curata da Paola Calciolari, produttrice di splendide mostarde e confetture nel Mantovano. Solo che il libro non parla, appunto, di mostarde e confetture, ma di formaggio, di Grana Padano: è questo il soggetto delle ricette. Me lo son letto in bozza, ancora senza titolo, e poi mi sono lasciato andare nella scrittura. Ed ho poi visto che il titolo del volume, uscita da Corraini, è stato preso pari pari proprio dalla mia prefazione: "Magari un che di formaggio". Vedi che servono, allora, le prefazioni?
Ne riporto, qui di seguito, la parte iniziale della mia prefazione, e il resto, se v'interessa, vi invito a leggerlo sul libro.
Ha evocato terre lontane, jungle, mari, corsari, avventurieri. Senza muoversi di casa. Era convinto, Emilio Salgari, che “scrivere è viaggiare senza la seccatura dei bagagli”. Almeno così leggo in un aforisma che gli è attributo, stampato su un segnalibro giallo: non ho resistito, vedendolo in un libreria romana, alla tentazione d’acquistarlo. Incoscientemente, poco m’interessa verificarne la fonte e l’attribuzione. Ci riconosco, se non l’autore, almeno il suo pensiero. O meglio, in quel pensiero mi riconosco. Tanto mi basta.
Ai giorni nostri, cucinare è così. S’è avverato il sogno di generazioni di cuochi e massaie: avere a portata di mano qualunque ingrediente, sempre. Se voglio sperimentare gusti, sapori, afrori nuovi, non ho d’affrontare lunghi itinerari o eccessivi esborsi. Non c’è bisogno della seccatura del bagaglio per viaggiare in cerca del gusto, o almeno del suo succedaneo. Basta varcare la soglia d’un supermercato. Tutt’al più, d’una botteguccia etnica.
Di fatto, è disponibile a molti quant’era privilegio di pochi. A Mantova è mitizzata la figura di Bartolomeo Stefani, cuoco bolognese - così s’autodefiniva - insediatosi alla guida delle dispense dei Gonzaga. Nel 1662 diede alle stampe un libro destinato a cambiare le sorti della gastronomia italiana: "L'arte di ben cucinare" (il titolo in verità è ben più lungo, ma solitamente così lo si sintetizza). In certi "avvertimenti alli signori lettori", osservò che qualcuno avrebbe forse avuto di che stupirsi che nelle ricette consigliasse, ad esempio, asparagi e piselli in gennaio e febbraio, "che à prima vista paiono contro stagione". Ma "chi hà valorosi destrieri, e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose". Se proprio la bottega non è a un tiro di schioppo, oggi son sufficienti i pochi cavalli fiscali d’una utilitaria per recarsi al primo centro commerciale.
È maturata una sorta di democrazia alimentare, almeno per quei popoli per i quali alimentarsi non rappresenta un problema o una chimera addirittura. Ma c’è un rischio, in questo, ed è l’estraneazione. Il perdere le radici, la storia, l’appartenenza. Il mondo sarà anche diventato il villaggio globale di Marshall McLuhan, ma della familiarità delle mura di casa c’è ancora necessità. Nel mondo globalizzato finisci per trovarti solo, anonimo.
Serve almeno un collante. Intendo che puoi mettere assieme gli ingredienti più inconsueti, più bizzarri, ma se l’esperienza non è occasionale, alla fine ti ci devi in qualche modo riconoscere in quel che hai nel piatto. Per esempio con un ingrediente. Magari un che di formaggio, se vieni da terre che abbiano storia casearia. Ecco, il formaggio è un collante culturale. Riesce a riportare - almeno per un attimo - il globale nell’alveo del locale. Rinnova e ravviva l’appartenenza, prima ancora che il gusto.

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