A un certo punto mi capitava regolarmente d'andare in crisi. Mi riferisco a quando collaboravo con una guida vinicola - una delle maggiori, la maggiore. Arrivava talvolta il momento in cui mi trovavo - come dire - emarginato all'interno del panel degli assaggiatori. Dal punto di vista strettamente numerico, dovrei dire minoritario, ma il termine corretto è emarginato, e questo senza che gli altri componenti del gruppo d'assaggio avesse alcun intendo discriminatorio nei miei confronti, ed anzi vi era - e a distanza di anni ancora vi è - stima e simpatia reciproca.
A cos'era dunque dovuta la mia marginalità? Era dovuta alla materia. Ecco, questo, materia, è il termine che più mi mette in difficoltà quando si parla di vino.
Accadeva cioè che s'arrivasse, a un certo punto delle lunghe giornate d'assaggi, al momento d'affrontare certi vini dal frutto densissimo e dal tannino graffiante che copriva il frutto e a tratti col rovere in rilievo, pure coprente, e con l'alcol che affaticava il palato già provato dalla tannicità. Vini di buona mano enologica, certo, ma che mai e poi mai mi sarei sognato di stappare in tavola la sera, a cena. E dunque finivo per assegnar loro un punteggio intorno ai 75 centesimi, mentre dagli altri del gruppo arrivavano gli 88 o i 90 e passa. Quando spiegavo che per me più di 75 non valevano, perché, appunto, insopportabili a tavola, mi si obiettava: "Ma c'è materia". Intendendo con questo che vi erano polpa, concentrazione, muscolarità.
Ecco, se questo è il vino della materia, io ero e sono per il vino dell'antimateria. E non voglio certamente dire che vagheggio vinelli scipiti dalla sostanza d'un ectoplasma. Nossignori. Cerco equilibrio, finezza. E beva. Anche un vino polputo puà sfoggiare equilibrio straordinario, perché no? Ma dev'esserci, appunto, finezza, ché altrimenti è solo palestra.
Di fronte alla matericità fine a se stessa, mi tengo la mia antimateria, e me la bevo.
Pezzo stupendo. Condivisibile dalla prima riga all' ultima.
RispondiEliminaMG
Troppo buona
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