13 maggio 2011

A proposito della liberalizzazione degli impianti di nuovi vigneti

Angelo Peretti
Devo dire che sono in difficoltà. Non so come prenderla la questione della liberalizzazione degli impianti di vigneti, che la nuova Organizzazione comune di mercato europea prevede debba - possa - applicarsi dal 2015. Nel senso che se volessi seguire il fiume in piena italo-francese di questi giorni, dovrei, magari opportunisticamente, essere ferocemente contarrio alla deregulation, mettendomi al passo con la politica ministeriale o con colossi associativi come Federdoc o con istituzioni più piccine in termini di rappresentatività come la Fivi, tutti schierati per il "no" alla libertà di impianto. E se concordano in così tanti, ci sarà pure una buona ragione. E dunque non voglio essere io il bastian contrario.
Ma siccome la mia formazione economica è di stampo liberale, be', mi viene il dubbio che così come la si sta mettendo la questione rischi un bel po' di assumere contorni illiberali. Così come ritengo illiberale l'attuale sistema, che ti permette di acquistare i diritti d'impianto da una zona e di trasferirli altrove: solo che nella zona d'origine si tratta spesso di diritti riferiti a vigneti esistenti solo sulla carta, mentre in quella di destinazione il vigneto lo si crea davvero, e dunque di fatto si consente una crescita "reale" degli impianti.
Personalmente credo al mercato e alle sue regole. Che quando vengono forzate o violate, magari nel nome del liberismo selvaggio, ti fanno pagare conti salatissimi, ed è il caso della crisi prima finanziaria e poi economica che ci sta attanagliando da qualche tempo. Ora, però, se si crede al mercato, si deve accettare che i prezzi vengano regolati attraverso l'incrocio di domanda ed offerta, e che quindi l'offerta non possa essere regolata con impedimenti alla produzione, come sarebbe il caso della negazione della libertà di impianto.
A complicarmi le cose, c'è però che credo fermamente anche nel principio di sussidiarietà, che mi porta a vedere con sfavore l'intromissione degli stati nelle questioni economiche. Giacché prima degli stati vengono le aggregazioni economiche e sociali, e prima di loro le cellule ancora più piccine della società, come le imprese o le soggettività sociali (associative) o le istituzioni territoriali, e prima ancora le famiglie. Accetto ed anzi ritengo utile l'intervento centrale dello stato solo nel caso in cui si debba muovere la leva della solidarietà, a fronte della conclamata impossibilità delle soggettività più piccole di far fronte da sole alle loro necessità. Ma prima bisogna dar modo a queste di autodeterminarsi, di autoregolarsi.
Nella questione del no alla liberalizzazione degli impianti dei vigneti ravvedo invece il rischio è che vi possa essere una deriva protezionistica, che stabilizza chi già possiede vigneti in una certa area, impedendo nei fatti nuovi investimenti, magari effettuati da imprenditori di valore. E certo, so che i dubbi che sto sollevando mi scateneranno addosso un sacco di critiche, con l'infamante accusa di essere al soldo dell'industria del vino. Ma le mie non sono soluzioni o certezze: i miei sono dubbi, e mi pare possa essere interessante esporli.
Piuttosto, mi chiedo se non sia meglio che vi sia una liberalizzazione che tenga conto del principio, appunto, di sussidiarietà. E che dunque siano i singoli territori, le singole denominazioni di origine a stabilire se la si debba o meno applicare. In linea generale, varrebbe la deregulation, che potrebbe tuttavia essere mitigata da scelte consortili tali da tener conto della necessità di corretta gestione degli equilibri della filiera. Ma credo questo possa essere scambiato per utopismo, e non voglio certamente essere io quello che sostiene che viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Non lo so: mi sento confuso. Intanto, chi volesse approfondire, può leggere, per esempio, cosa dice Franco Ziliani sul sito dell'Associazione italiana sommelier (lui è contrario, tanto per intenderci).

6 commenti:

  1. Sono sempre stato contrario a questa farsa del tentativo di controllare la domanda diminuendo l'offerta. Perché poi si debba proibire a chicchessia di poter disporre del proprio terreno coltivando quello che si vuole, rischiando i propri soldi se non va bene.
    E' chiaro che poter decidere che gli altri non possono piantare vigneti va molto bene a chi ce l'ha già, aiuta a mantenere alto il loro valore immobiliare, e in alcuni casi anche quello dei vini, non per loro merito, ma solo perché si proibisce uno dei diritti sanciti dalla costituzione, all'art 41, la libertà di impresa.
    O si e' liberali e si e' coerenti, e allora si deve immaginare un mercato dove la selezione naturale nel medio e nel lungo termine premia sia chi e' bravo a produrre che il consumatore, oppure bisogna spiegare qual'e l'utilità sociale che sta alla base della proibizione di un diritto naturale.

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  2. Analisi lucidissima, Gianpaolo, ma temo che la tua voce rischi di passare, fra i vignaioli italiani, come quella di chi grida nel deserto. Come ho scritto, non ho le idee chiare, ma mi sfiora il dubbio che i ripetuti fallimenti dei vari abbozzi di politiche agricole e vitivinicole siano sempre più o meno riconducibili a tendenze che, apparentemente opposte, in realtà finiscono entrambe per essere illiberali, e mi riferisco sia al liberismo che invoca la deregulation totale, sia al protezionismo che vorrebbe regolare il mercato negando l'offerta. Così è evidente che non va. Se ci sia una via per trovare un migliore equilibrio, non lo so. Ma andrebbe cercata, credo, anche se può sembrare impopolare. Altrimenti, come dici tu, si dovrebbe spiegare l'utilità sociale - e dunque l'eticità - di soluzioni liberiste o protezionistiche.
    Ecco, rinnovo il mio dubbio. E so con questo di scontentare quasi tutti.

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  3. Il liberale non vuole una societa senza regole, vuole anzi regole certe e rispettose dei diritti. La costituzione italiana sancisce come diritto la libertà di impresa, come mezzo per la realizzazione dell'individuo e a favore della societa'. Quando con delle leggi, si limitano i diritti e le libertà individuali, che dovrebbero essere cari a tutti e che sono stati conquistati a caro prezzo dai nostri predecessori, e' necessario che ricorrano delle condizioni straordinarie a beneficio della collettività nel suo insieme. Resto sempre convinto che la decisione se piantare o meno una vigna non sia un interesse supremo della collettività, a meno che non entrino in gioco tutti quei meccanismi distortivi, quali i contributi pubblici, quali la distillazione delle eccedenze produttive a carico del contribuente (oggi per fortuna in via di smantellamento), i contributi per l'impianto, seguiti a breve a quelli per l'espianto e a quelli per la vendemmia verde, politiche schizofreniche e contraddittorie, inefficaci quanto onerosi per la collettività.

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  4. Vivo nel Chianti Fiorentino e sto cercando di far rivivere un'azienda viticola oramai allo stremo e vorrei contribuire alla discussione, senza offesa, quasi filosofica, facendo nortare come oggi, in regime di "protezione" il Chianti valga intorno ai € 60/70 al q.le per vendite fatte in cisterna all'imbottigliatore.....mi viene spontaneo domandarmi quanto sarebbe il suo valore in caso di "deregulation".....

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  5. I diritti d’impianto sono dal '78 un mezzo efficace di regolazione e contrasto della delocalizzazione della produzione verso zone economicamente più favorevoli a vantaggio solo dei grandi del mercato vinicolo e a deterioramento di una viticoltura contadina ad alto impiego di manodopera. Ai fini della qualità la manodopera non può essere sostituita dalla meccanizzazione della viticoltura dei grandi numeri, così il 23 giugno scorso il parlamento europeo ha confermato diversi orientamenti positivi della Commissione Europea: pagamenti diretti legati all’impiego e riservati agli agricoltori attivi, abbandono delle referenze storiche, creazione di un regime specifico per le piccole aziende e misure per l’ambiente. Mi sembra evidente che le nuove politiche agricole vadano un po' meno incontro al neoliberismo, e che il mantenimento delle quote dopo il 2018 sia ineluttabile per preservare l'alta qualità che sta nella diversità vitivinicola italiana e nel lavoro umano all'opposto dell'omogeneizzazione del mercato globale. A Giampaolo Paglia ricorderei che 40 articoli prima di quello da lui citato c'è la risposta che cerchiamo, e che il 38°art. della costituzione italiana oggi è maggiormente oneroso per la collettività che garantire il solo 41° a pochi industriali del vino.

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