Angelo Peretti
Il personaggio dell'ultimo decennio nel mondo del vino? È un oggetto: lo screwcap, il tappo a vite, o meglio, come preferisco tradurre, la capsula a vite. Lo propone il wine writer inglese Jamie Goode sul suo blog. E per quel che conta mi associo. In toto.
Dice Jamie (la traduzione è mia): “Dieci anni fa le cose andavano abbastanza male per il tappo di sughero. L’odore di tappo era un grosso problema e gli australiani si arrabattavano anche con quel fenomeno che veniva detto dell’ossidazione random, provocata dalla variabilità del tipo di trasmissione dell’ossigeno dovuta alla scarsa qualità dei tappi. L’unica alternativa al tappo tradizionale era il nuovo, ma scarsamente efficace, tappo in plastica, ma anche questo non andava conquistando troppi amici. In tal modo, i produttori di tappi in sughero non erano granché incentivati a migliorare il loro gioco, dato che godevano di quella che era a tutto gli effetti una situazione di monopolio. Il punto di transizione avvenne nel 2000, quando un drappello di produttori della Clare Valley si coalizzarono per imbottigliare i loro Riesling con lo screwcap. Quest’iniziativa, e la pubblicità che ne seguì, ha cambiato per sempre il mercato delle tappature”.
I primi studi che pervennero dall’Australia – ho abbandonato il virgolettato cercando di sintetizzare – mostrarono che le capsule a vite mantenevamo la freschezza e il frutto del vino per un tempo ben più lungo di qualunque altro sistema di chiusura, compreso il sughero. Così i produttori australiani e neozelandesi passarono rapidamente allo screwcap. Oggi, la capsula alternativa è ampiamente diffusa anche in altre zone.
Certo, anche lo screwcap non è perfetto. E non è stato neppure accettato in tutti i mercati (ne sappiamo qualcosa in Italia, dico). “Ma quel che ha fatto – torno alla citazione diretta – è stato di cambiare completamente il mercato delle chiusure. Se non fosse stato per gli screwcap, è improbabile che l’industria dei tappi avrebbe implementato le misure dei controlli di qualità. Ed è altrettanto improbabile che avremmo visto la nascita di altri tappi alternativi”.
Sono d’accordo, assolutamente. Personalmente, sono uno screwcap-fan (anzi, tifo in particolare per lo Stelvin), ma concordo sul fatto che anche chi non s’è convertito alle nuove chiusure a vite abbia comunque dovuto fare i conti con la qualità delle chiusure. E questo vale sia per chi fabbrica tappi, sia per chi imbottiglia. A maggior ragione dovrebbe valere per i consumatori, gli enotecari, i ristoratori, anche in Italia: possibile che la vetusta ritualità della stappatura per così tanta gente conti ancora di più della qualità del vino?
Anche a me piace molto questo tappo. Per questo mi ha reso triste :-( apprendere che a livello di fabbricazione sono molto più inquinanti - in termini di emissioni di CO2 - di quelli di sughero o di plastica.
RispondiEliminaNon che a me faccia qualcosa, intendiamoci: ma per certi mercati, come quello americano, moooolto sensibili all'eco-sostenibilità, questa cosa non depone a favore di questo tipo di chiusura.
Dipenderà mica da chi ha commissionato lo studio, vero? A certi studi sulle "emissioni" non riesco proprio a credere.
RispondiEliminae del vino-lok cosa ne pensi? Se si deve lasciare il vecchio rituale del cavatappi (duro ma è entusiasmante uscire dalla caverna...) anche sulla considerazione della quantità-qualità oggettivamente disponibile sul sughero, il vino lo-lok, pur pagando ugualmente allo screwcap il tributo ai produttori di alluminio con la sua capsula esterna, ha un aspetto molto più attraente. In più è molto più riciclabile e ri-usabile. Infine la bottiglia non assomiglia né a un superalcolico né a olio....
RispondiEliminaQUali sono secondo voi i motivi della scarsa diffusione? HO scritto un post anche a Jamie, vediamo cosa ne pensano anche oltralpe.
Francesco
Vediamo cosa ne pensa Jamie. A me piace lo Stelvin, anche esteticamente. E mi piace il gesto della sua apertura: come stappare uno Champagne.
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