10 gennaio 2010

Dove va (dov'è) il mondo del vino?

Angelo Peretti
Commentando qualche giorno fa la questione dello spumante TrentoDoc imbottigliato dalla Cavit per Eurospin e venduto sotto le feste di fine anno nei supermercati di questa catena all'incredibile cifra di 3,49 euro con l'etichetta Corona, scrivevo che il fenomeno appunto delle "private label" - degli imbottigliamenti personalizzati per la grande distribuzione - mi sembra destinato a crescere anche qui in Italia, com'è già accaduto da diverso tempo all'estero.
Se questo fosse vero, il "caso" TrentoDoc Corona non sarebbe che un primo - pur importante - passo in quella direzione. Ma, attenzione, quando parlo di vini "private label" per questa o quella catena, non voglio assolutamente parlare di vinelli di poco costrutto: il TrentoDoc in questione era un vino che valeva parecchio di più del prezzo a cui era offerto. E così sarà probabilmente anche per altri analoghi casi che si dovessero verificare di qui in avanti. Insomma: potremmo avere - credo - sempre più spesso casi di vini più che accettabili, a prezzi più che abbordabili, col marchio del supermercato.
La questione di fondo, a mio avviso, è doppia. Da un lato, i buyer della grande distribuzione - e soprattutto delle catene hard discount - considerano il vino come una qualunque altra commodity, un qualunque altro bene di consumo. Dall'altro, di vigne negli ultimi decenni ne sono state piantate così tante che c'è un eccesso di produzione un po' ovunque, ma grazie al miglioramento delle capacità tecniche in vigna e in cantina, i vini che se ne ricavano sono tutto sommato comunque ben fatti, e dunque trovar buoni vini a quattro soldi sta diventando sempre più facile. Ergo: perché mai i buyer della gdo dovrebbero mettersi in casa vini griffati da questo o quel marchio - riconoscendo valore aggiunto, appunto, alla marca del produttore - quando invece possono comprare in cisterna, far imbottigliare a marchio proprio e lucrare discreti margini reddituali su un bene di consumo che di margini non ne offre più tantissimi?
I primi segnali si sono intravisti nell'ultimo paio d'anni: a livello internazionale, i buyer della gdo hanno preteso listini sempre più limati da parte dei fornitori, arrivando a proporre prezzi che non remunerano quasi più neppure i costi di produzione. Eppure i vini li hanno trovati lo stesso, e neppure così male in termini qualitativi, ché altrimenti i consumatori li avrebbero rifiutati. Il discorso è quello fatto sopra: le cisterne, in giro per il mondo, sono strapiene, e la qualità media non è tanto cattiva.
Si potrà obiettare: è un mero fattore congiunturale, dovuto alla crisi prima finanziaria e poi economica. Ritengo purtroppo che non sia così: è un cambio concettuale. In base al quale il vino - nella sua accezione più "globale" - non è più considerato un bene di lusso, non è neppure più ritenuto una risposta a domande di stampo edonistico, è semplicemente concepito e proposto come un bene di consumo, da vendere al prezzo più basso possibile, ma alla qualità più alta percepibile per quel prezzo.
Il che, se fosse vero, avrebbe una conseguenza per certi versi drammatica: quella di appiattire e omologare i prezzi di mercato a livello internazionale: tot euro per un bianco, tot euro per un rosso, a prescindere dalla sua provenienza. E poiché a quel punto i margini reddituali per i vinificatori e i commercianti andrebbero comprimendosi sempre di più, questi si troverebbero a stringere il cappio al collo ai produttori di uva, scaricando su di loro, appunto, la minor redditività: tot per l'uva bianca, tot per quella rossa, a prescindere da tutto il resto.
Mi pare che le prime pesanti avvisaglie le abbiamo già avute con l'ultima vendemmia.
Mi si dirà che a quel punto molti contadini estirperebbero i vigneti facendo mancare uva, e così i prezzi potrebbero tornare a risalire. Ma non ci credo, per un semplice motivo: chi ha terra agricola, cosa ci pianta, oggi, al posto delle vigne, visto che non c'è un prodotto del settore primario che renda ancora abbastanza da mantenere una famiglia? Terrebbero le vigne. E si accontenterebbero di perderci il meno possibile. Non di guadagnarci.
Brutte prospettive. Ma ovvio che le eccezioni ci possono essere: mica voglio passare per catastrofista. Solo che vanno cambiate le regole del gioco, e non è mica facile. Attenzione: mica facile, non impossibile. Spero.

9 commenti:

  1. L'alternativa ad un terreno vitato che non riesce più a mantenere una famiglia c'è. Si chiama "cambio di destinazione d'uso". Al posto del vigneto, una bella lottizzazione.
    Così sono tutti contentoni: gli ex-vignaioli, che ci guadagnano un bel mucchio di soldi (cosa faranno dopo per vievere, non si sa, ma intanto prendono soldi), le amministrazioni comunali che si ritrovano del nuovo terreno da edificare, e le imprese edili che ci fanno tante belle casette.
    L'ambiente continua a degradarsi, quello che prima era considerato un giardino assomiglia sempre più alla brutta copia di una periferia cittadina, ma tant'è. C'è chi lo chiama "progresso", questo.

    L.

    RispondiElimina
  2. @LIzzy. Le conseguenze che delineai mi sembrano piuttosto realistiche, purtroppo, in certe zone d'Italia; in altre meno, dato che non c'è lo stesso appeal, ma non siamo lontani...

    RispondiElimina
  3. Il vino è una commodity e la causa, ha ragione Angelo, sta nell'incapacità dei grandi produttori di fare sistema.
    E poi c'è troppo vino sul mercato, troppe vigne in pianure di dubbia vocazione alla qualità.
    Un'alternativa ci sarebbe: spiantare queste vigne e convertirne le superfici alla produzione di energia fotovoltaica. L'Europa ha piani ambiziosi nella produzione di energia da fonti rinnovabili, i sostegni finanziari e fiscali sono interessanti, il reddito ricavabile dalla vendita dell'energia prodotta in surplus potrebbe essere alettante.
    Meno vinacci, più energia rinnovabile: mi sembra un trade-off da valutare.

    RispondiElimina
  4. Egregio Angelo,le tue considerazioni sono condivisibili anche se il mercato del vino a livello internazionale e così complesso che e molto difficile fare previsioni.
    E' sicuramente vero che c'è una sempre maggiore richiesta di vini di qualità a prezzi bassi ma è anche vero che quando i prezzi sono troppo bassi non conviene a nessuno, o "pardon" solo al cosumatore.
    Sono un produttore di vino in Valpolicella e qualche mese fa ho avuto l'occasione di fare ua chiaccherata con un direttore commeciale di una grossa cantina in Toscana il quale,parlando appunto del mercato, mi raccontava le considerazioni del suo importatore in Germania.
    Questo suo importatore, che commercia circa 90 milioni di bottiglie di vino provenienti da tutto il mondo non era molto contento di un ribasso troppo elevato dei prezzi poichè lo costringeva a dover vendere 1\3 di bottiglie in più per avere lo stesso quadagno e questo la sua azienda non era in grado di farlo.
    Il caso del TrentoDoc non è poi cosi isolato, qui in Valpolicella dobbiamo scontrarci con dei prezzi di Amarone a volte sotto ai 6 euro, in bottiglia, che grandi cantine praticano alla grande distribuzione.
    Allora che fare? Credo che per piccole realtà come la mia o come tante altre in Vapolicella ed in altre parti d'Italia sia quello di produrre vini di altissima qualità e produrne non soltanto 1000 ma 10-15-20 mila bottiglie con la stessa elevata qualità.
    Inoltre mi sto rendendo conto quanto da parte dei consumatori ci sia la voglia di vedere chi c'è dietro una bottiglia di vino,per cui credo che per noi produttori sia necessario di tanto in tanto lasciare le nostre belle cantine e incontrare i nostri clienti in giro per il mondo.
    Saluti
    Campagnola Fernando

    RispondiElimina
  5. @Fernando. Considerazioni molto interessanti, le tue. Sì, incrementare la massa critica è una soluzione, ma temo che non basti. Perché occorre verificare prima se esista un mercato in gredo di assorbirla, quella qualità a volumi crescenti. Questo è uno degli elementi che temo manchino al mondo del vino: la pianificazione strategica. Di sistema, di territorio.
    Poi, e qui anticipo quanto vorrei scrivere più avanti, credo che i piccoli-medi produttori dovranno imparare a distintermediare, ad avvicinare sempre di più la vendita all'origine. Il che non vuol dire chiudersi nelle cantine: sarebbe un errore clamoroso. Ma occorre in qualche percentuale crescente affrancarsi dalla schiavitù della vendita intermediata. Perché molti degli stessi intermediari rischieranno di restare essi stessi strozzati dal gioco al massacro in atto nel mondo del vino. Il caso citato ne è in qualche modo la dimostrazione: a prezzi calanti, anche chi commercializza 90 milioni di bottiglie dovrebbe crescere i volumi almeno di un terzo, ma in quel caso la struttura organizzativa collasserebbe. Ma sono questioni su cui devo ancora riflettere a fondo.

    RispondiElimina
  6. Caro Angelo, credo che il caso Trentodoc non sia poi il più eclatante di buon vino a poco prezzo ma credo anche che bisogna fare dei distinguo vedevo domenica per rai 1 Lieneaverde un signore vignaiolo in toscana che faceva zappare a mano i suoi vigneti e con il pennellino cicatrizzare il taglio della potatura, coniugarlo con 3.49 sullo scaffale mi vien da pensare che qualcosa non quadra ed allora i distinguo vengono a galla e concordo con il sig. Campagnola che dobbiamo noi tutti produttori far capire dove sta la differenza tra un vino sullo scaffale della gdo ed una bottiglia di un piccolo produttore che vuole fare grande qualità è tempo che il consumatore scopra cosa c'è dietro una bottiglia di vino di qualità e quale è il valore aggiunto che giustifica certi prezzi, vengano i consumatori in queste piccole realtà non solo Italiane e capiscano perchè l'enoturismo è un fenomeno in crescita esponenziale, forse il mercato ,come sempre, aggiusta le sue ferite.

    RispondiElimina
  7. @Paolo. Confermo quanto ho scritto sopra: occorre disintermediare, e promuovere il turismo del vino, come suggerisci, va effettivamente in questa direzione. Ma non ci si riuscirà, temo, se non si impara a fare squadra, a mettere il territorio sopra se stessi, e questo è il limite per certi versi quasi incomprensibilmente invalicabile che si precostituiscono molti vigneron italiani, che parlano di terroir, ma poi puntano a promuovere solo il loro marchio. Imparare a essere più "noi" che "io" è invece essenziale per un produttore che "vive" su un territorio. Quanto allo zappare a mano e al cicatrizzare col pennellino, ben vengano, ma sono "lussi" che solo pochi possono permettersi.

    RispondiElimina
  8. Credo che si possa guardare il fenomeno su due piani differenti e paralleli: da un lato trovare qualità più alta possibile a portata di mano, non può che essere benefico per fidelizzare o comunque non perdere fasce di mercato. Dall'altro chi punta all'eccellenza o comunque ha qualcosa da dire di diverso, non omologabile, chi ha più vivo ad esempio il senso d'appartenenza ad un territorio e quindi interpreta istanze non solo del vigneron, ma di una comunità, va ad installarsi in un settore diverso dell'offerta; copre una diversa fascia di mercato. Io credo che il successo di un piano, poi si riverberi anche sull'altro, a patto che il secondo di cui ho parlato, si dia un'organizzata. Per ottenerla credo ci si debba affidare però a soggetti terzi, super partes, enti, associazioni di categoria,ecc. Inserire cioè il prodotto vino all'interno di un'offerta più ampia di valorizzazione delle singole peculiarità territoriali.

    RispondiElimina