Angelo Peretti
Ho letto nell'utilissima sezione delle Wine Web News curate da Franco Ziliani sul sito internet dell'Associazione italiana sommelier che alcuni dei quotidiani americani che hanno (avevano) rubriche dedicate al vino han deciso di tagliarle. Effetto della crisi, probabilmente. E fra i tagli c'è anche quello delle narrazioni che da una dozzina d'anni John Brecher e Dorothy Gaiter conducevano sul Wall Street Journal. "This is our 579th - and last - 'Tastings' column" hanno scritto, malinconicamente, il 26 di dicembre. Dicendo, signorilmente, ai loro lettori, che i dodici anni passati sono stati una gioia "non tanto per il vino in sé, quanto perché abbiamo avuto l'opportunità di incontrare molti di voi, sia di persona che virtualmente. Grazie".
Non conoscevo la rubrica di Brecher & Gaiter - né ho la fortuna di conoscere loro -, ma una parte del loro ultimo articolo per il Wall Street Journal voglio provare a riportarla qui. Perché contiene un'idea così bella e così condivisibile della maniera d'approcciare il vino che sinceramente non sarei proprio capace di descrivere meglio.
Il concetto di fondo è uno solo: il piacere è soggettivo. Evviva.
Scrivono: "Nell'ultimo decennio, troppa gente è venuta a credere che ci sia una sorta di verità oggettiva riguardo al vino. Due più due fa quattro e dunque, andando nella stessa direzione, se bevi questo vino nella maniera corretta, nel bicchiere giusto e con una situazione pscicologica ideale, vedrai che vale davvero un 91, un very good o un tre stelle. Questo è un nonsenso".
Perché è un nonsenso? Perché contano anche il contesto, la situazione. Eccome se contano. "Il vino più delizioso che abbiamo mai assaggiato - dicono i due - è stato un Cabernet che abbiamo bevuto durante la nostra luna di miele in un vigneto vicicino a dov'è stato prodotto. Subito dietro c'è un Latour 1959 bevuto durante una delle rare visite a New York dal fratello di John", e via discorrendo, mettendoci dentro le bottiglie di Champagne stappate per il matrimonio e per la nascita delle figlie, oppure un Porto bevuto nel primo appartamento comprato, quando fuori imperversava una tormenta di neve.
I ricordi c'entrano, le emozioni anche.
E dunque, "se lasciate che la gente - scrivono splendidamente John e Dorothy - ridicolizzi un qualche vino che vi piace o che critichi la maniera in cui ve lo siete goduti, oppure se permettete agli altri di decidere per voi cosa sia o cosa non sia un buon vino, vi state proprio perdendo di vista il punto focale sul vino, che è questo: il piacere che provate con un vino è un'estensione di voi stessi, delle vostre emozioni, delle vostre esperienze e delle circostanze di quanto l'avete bevuto. Un vino veramente buono è come una poesia veramente bella: non riguarda quello che il poeta pensava o sentiva quando l'ha scritta, ma cosa pensate o sentite voi quando la leggete. Persone diverse proveranno sensazioni diverse per quello stesso identico vino, e vive la différence".
Ricordano che in tutti questi anni ci sono stati tanti lettori che hanno chiesto perché non si parlasse nella rubrica d'un certo tal vino che a loro - i lettori - era sembrato il migliore del mondo. La risposta è questa: "Se pensate di aver sentito la miglior sinfonia di sempre o di aver visto il più grande capolavoro o assaggiato il vino più straordinario, perché non dovrebbe essere vero, almeno per voi? E perché mai dovete averne una validazione da parte di qualcuno? Ci chiedono spesso se un costoso bicchiere della Riedel faccia sì che il vino abbia un sapore migliore. La nostra risposta è questa: se pensate che lo faccia, certo, lo fa. Non capiamo perché dobbiamo cercarci così tante complicazioni".
Bellissimo. Grazie a voi due, Dorothy e John: cin cin!
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