23 gennaio 2010

La capsula e il coltellino: l’ottusa difesa delle consuetudini

Angelo Peretti
Oh, bene. Di capsula a vite se ne parla. M’ha fatto piacere che sulla riflessione che ho cercato di mettere in piedi sulla questione dell’imbottigliamento in screwcap siano intervenuti con propri scritti su questo mio InternetGourmet prima Andrea Pieropan, figlio di Nino, genio del bianco soavese, poi Aldo Lorenzoni, che è il direttore del Consorzio del Soave, e quindi un degustatore che stimo come Mario Plazio. Spazio ce n’è: fatevi avanti.
Di mio, nell’ultima manciata di giorni ho ribevuto due bianchi incapsulati che m’erano piaciuti molto, e li ho trovati perfettissimamente uguali a come li ricordavo: il Sauvignon 2005 di Cloudy Bay, spettacolare nelle sue memorie di frutta esotica e in quelle sue vene di salvia e di mentuccia, e la Garganega Camporengo 2008 della Fraghe di Matilde Poggi, vino sorprendente, che è mix intrigantissimo di pompelmo e d’idrocarburo e di freschezza nervosa. Non ho dubbi: fossero stati in sughero, quei due bianchi del cuore non li avrei ritrovati esattamente nel pezzo di strada su cui li avevo lasciati mesi prima, non avrei ripreso il filo del discorso da dove l’avevo interrotto: come se fra una bottiglia e l’altra, anziché mesi fossero trascorsi minuti. Il merito è sì del vino ben fatto, ma è anche dello Stelvin, sissignori, di questa chiusura che ti fotografa un bianco e te lo lascia intatto a lungo. Il sughero non ce la farebbe a scattare quell’istantanea. Perché ci metterebbe probabilmente del suo, complicherebbe i profili, cambierebbe gli scenari.
La capsula a vite apre invece prospettive inedite, e per me affascinanti. Sui bianchi, certo. Sui rossi magari ho dei dubbi, o quanto meno non ho al momento esperienze d’interesse da raccontare.
Il problema è sempre quello: la resistenza al cambiamento. Da parte dei ristoratori, degli enotecari, dei baristi e sommelier. Che si mettono in mente che se il vino è avvitato, allora il cliente lo rifiuta. Ma quando mai? Se lo mettono in mente loro, mica il cliente.
Conto un aneddoto. M’è capitato di recente in un ristorante bresciano. Trovo (incredibilmente) un gran bianco in carta. Lo chiedo. L’uomo di sala (mica lo posso chiamar maitre) mi dice, imbarazzato, che sì, quello “era” un gran vino e gli piaceva, ma adesso l’hanno messo in tappo a vite... Capito? È stato lui a “rifiutare” il vino, mica il cliente, mica io. E son convinto che sia così in un grande numero di casi. Per inciso, quando poi la bottiglia me l’ha portata, ha provato ad aprirla rompendo uno dopo l’altro i “dentini” dello Stelvin con il coltellino del cavatappi. Col coltellino! Pazzesco.
A me piace tanto, invece, quel gesto d’apertura dello screwcap: capsula impugnata con la sinistra, mano destra sul fondo della bottiglia, e si ruota con decisione la destra, con brevissima torsione. Come per lo Champagne. Lo trovo elegante. E pratico: niente plastiche e pezzetti di legno che s’infilano nel collo della bottiglia e poi nel vino.
Ma di fronte all’ottusa difesa delle consuetudini, è battaglia dura.

5 commenti:

  1. non capisco la determinazione con la quale si sta portando avanti questa cosa, mi spiego:
    negli anni 70 circa l'ottanta per cento del vino, in Italia, veniva venduto in damigiana o con i bottiglioni tappo a vite obbligando il consumatore e restituire poi il vetro per il riciclo, pensate un po' eravamo più ecologisti negli anni settanta che non ora.
    faccio una proposta perchè invece del tetrapak non si torna al bottiglione tappo a vite così non inquiniamo più, non è questione di ottusa difesa delle consuetudini, ma di una forma, un grande bianco tappato in silicone ottiene le stesse garanzie di chiusura sintetica preservando freschezza e profumi, le cantine "specie quelle piccole" non devono adeguare impianti di imbottigliamento, bottiglie, grafica,confezioni, ed il cliente seduto al ristorante almeno assiste al vecchio rituale che l'uomo del vino è costretto a fare per aprire una bottiglia tappata raso giustificando almeno in parte il costo della bottiglia sulla fattura del ristoratore 10,20,30, euro.
    Il mondo del vino è cambiato molto in poco tempo e forse non tutti sono pronti ad accettare il cambiamento improvviso la globalizzazione non deve fagocitare quella poca poesia che questo mondo riesce ancora a regalarci.

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  2. Paolo, la poesia proprio non la vedo se, per problemi di tappo (non necessariamente "l'odore di tappo), scarto puntualmente almeno il 10-15% delle bottiglie che apro.
    Non la vedo neppure se compro sei bottiglie di un certo vino e poi, a distanza di mesi (bastano mesi, non anni), mi trovo con sei vini diversi l'uno dall'altro, perché il tappo ci ha messo del suo.
    E sinceramente non mi pare proprio che "un grande bianco tappato in silicone ottiene le stesse garanzie di chiusura sintetica preservando freschezza e profumi": il tappo sintetico, a mio avviso, è la peggiore chiusura in assoluto che si sia sin qui ideata, incapace di "difendere" adeguatamente il vino anche a distanza di pochi mesi dall'imbottigliamento.
    Perché punto così tanto sulla capsula a vite sui bianchi? Perché amo la freschezza dei bianchi, e sino ad ora lo Stelvin (e qualche suo simile) è la chiusura che mi ha permesso di godermi al meglio i grandi bianchi che amo, consentendo di mantenere la freschezza oroginaria per anni. Ecco perché mi piace.
    Quanto ai riti, be', quelli li lascio agli officianti della religione del vino. Che spesso amano, appunto, più la religione enoica che non il vino in sé.

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  3. Confesso che ero perplesso sullo stelvin fino a qualche tempo fa. Perplesso più che per analisi razionale di pregi e difetti di questa chiusura rispetto alle altre, per il "romanticismo" che avvolge l'apertura di una bottiglia tappata a raso: prima il coltellino, poi l'arte di stappare facendo attenzione a non rompere il tappo.
    Poi, complici le molte bottiglie che ho dovuto buttare per il tappo non perfetto, ho cominciato a ricredermi: piano piano si insinuava in me il dubbio che la mia avversione (allo stelvin) non fosse legata (come cercavo di spacciare, io così attento all'ambiente) all'impronta di carbonio che nello stelvin è maggiore che nel tappo di sughero, bensì a quel ricordo di vini dozzinali che venti, trent'anni fa erano imbottigliati e chiusi proprio con il tappo a vite.
    Quindi ho cominciato ad apprezzare alcuni grandi vini chiusi con lo stelvin (ultimo fra essi un Cloudy Bay 2005 che avevo assaggiato alcuni anni fa e che ho ritrovato identico) e la loro freschezza a discapito degli anni passati dall'imbottigliamento e mi sono detto: ohibò, vuoi vedere che questo stelvin non solo non è peggio del tappo di sughero ma gli è addirittura superiore in alcuni casi?
    Se a questo aggiungiamo che, come dice il mio amico Angelo Peretti (e come dargli torto?) che l'apertura di una chiusura stelvin ricorda maledettamente l'apertura di una bottiglia di champagne, devo proprio confessare che lo stelvin comincia a piacermi.
    Poi, lasciatemelo dire: a me il tappo sintetico non è mai andato giù, con quel suo essere una brutta copia di un tappo di sughero ma senza le qualità e allora ... viva lo stelvin!

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  4. gent.mo sig angelo peretti, sono enzo romano di pescara, rappresentante di tappi, capsule, cavatappi, ecc, nel mondo enologico, dopo quello che ho letto da lei dichiarato, mi permetto solo di esprimere un parere, mi chiami quando ha tempo al mio numero di cellulare 3494267231 sarò molto lieto di delucidarla in merito al sughero, in merito alla plastica derivato del petrolio, e alle ultime scoperte in belgio e germania sulla presenza di cedimenti cancerogeni nei tappi in plastica e stelvin, forse lei non sa che 20 anni fa furono eliminate le capsule di piombo dopo aver scoperto le deleterie conseguenze nell'uomo- sono a sua disposizione grazie

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  5. @Enzo. Ho una fitta letteratura sull'argomento. Se vuole fornirmi altro materiale, lo vedo volentieri, anche se è probabile si tratti, appunto, di documentazione che già possiedo. E che ho letto e leggo con particolare attenzione.
    Mi permette di aggiungere una nota? Veda, alle ricerche ci credo, ma con beneficio di inventario. Mi piacerebbe per esempio sapere sempre chi siano i committenti delle ricerche: sarebbe bene che venisse dochiarato volta per volta chi sono i finanziatori delle ricerche svolte, ovvero degli istituti nell'ambito dei quali la ricerca è stata svolta. Non è un particolare irrilevante, mi creda.
    Sul "cancerogeno", poi, stando alle ricerche pubblicate qui e là, al mondo che si salvi dall'essere cancerogeno sembra non esserci proprio niente. Pensi che c'è perfino chi ha pubblicato fior di ricerche spiegando che anche il vino è cancerogeno. Guardi: la mia opinione è che di viver malato per morire sano non se ne parla proprio.

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