18 marzo 2010

Etichette e terroir

Angelo Peretti
Conversavo - on line - un paio di sere fa con Pasquale Brillante, delegato dell'Associazione italiana sommelier per l'area dei Comuni vesuviani. Parlavamo di etichette. Ché nel settore Pasquale ha lanciato di recente una bell'idea (e di bell'idee ne mette in campo spesse volte). L'idea è un concorso, che ha chiamato "etichetta brillante". Si è svolto di recente presso l'antico pastificio Afeltra, mito della pasta di Gragnano.
Gli dicevo che, sì, ultimamente di bell'etichette se ne vedono in giro parecchie. L'arte del packaging si è evoluta assai. E gli studi grafici realizzano piccoli, talvolta. Che però spesso sono senz'anima. Come diceva Cocciante, bella senz'anima è, molte volte, l'etichetta d'oggidì.
Personalmente, credo che un'etichetta dovrebbe raccontare, se può, se ci riesce, il vino e il suo terroir, inteso come assieme di uva, terra, clima, persone, comunità, culture. Il vino e la terra e il produttore, insomma: ecco gl'ingredienti. Che si possono modulare a piacimento, d'accordo. E mica mettendoli assieme tutti. Ma questo vorrei interpretare nel disegno di un'etichetta. E vorrei interpretarlo intuitivamente, senza dover leggere il libretto delle istruzioni. Sennò a che serve?
Certo, un bel vestitino è meglio di certa paccottiglia, e dunque un'etichetta ben composta graficamente veste una bottiglia meglio di cert'ignobili biglietti stampigliati che non ti fan venir voglia d'assaggiarlo neppure quel vino. Epperò è un'occasione perduta, se si guarda solo alla forma e non alla sostanza.
Capisco le esigenze di chi è distribuito nella gdo, e dunque ha bisogno di colore ed originalità per far vedere il proprio prodotto sullo scaffale, e portar lì la mano di chi passa col carrello. Ma la piccola azienda? Chi glielo fa fare di metter sopra al vetro un'algida forma geometrica colorata?
Un'occasione perduta, ripeto: ecco cos'è un'etichetta che non racconta, non parla. Un'etichetta che non cerca di narrare il pensiero, il sentimento, oppure il luogo, la tradizione. Il genius loci. Il terroir. E si finisce (finisco) sempre per parlare di questo benedetto terroir.

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