13 marzo 2010

Viticoltura: è ora di tornare indietro

Angelo Peretti
Se l’ho capita bene, la parola da ricordare è acrotonia. Si tratta di quell’atteggiamento fisiologico per il quale una pianta tende a privilegiare, nello sviluppo, le sue parti apicali, quelle estreme, più in alto. Succede con le liane. E con le vigne, che sono liane, appunto, e ne hanno l’indole. Voi lasciatela andare, la vigna, e quella s’allunga verso l’alto finché può, finché trova qualcosa a cui abbarbicarsi.
Ecco, il problema è questo: ci siamo dimenticati che le vigne vengono dal bosco, sono liane rampicanti, addomesticate fin che si vuole, ma intimamente sempre selvagge. Le abbiamo volute costringere in spazi ristretti, convinti che piantarne tante e tante, strette l’una all’altra, allineate lungo dei fil di ferro, ci fornisse uve, e conseguentemente vini, di maggior qualità. Applicando il modello bordolese a suoli e climi e culture che con la terra bordolese nulla hanno a che vedere. E così oggi, dopo un ventennio e più di filari e filari, ci troviamo con dei vini che sembrano sempre più delle marmellate alcoliche e con delle vigne che muoiono dopo quindici anni, che disseccano, che vengono attaccate dal mal dell’esca. E si cerca di fare retromarcia.
Della faccenda, che è serissima e sta creando problemi notevoli ai viticoltori di mezz’Italia e più, si è discusso ieri in un convegno di notevole valore presso la sede della Bellavista, griffe di Franciacorta, ad Erbusco. Titolo: “Riflessione sul deperimento precoce dei vigneti italiani”. Relatori, il professor Attilio Scienza dell'università di Milano, eppoi Marco Simonit di “Preparatori d’uva”, Laura Mugnai dell’università di Firenze, il vivaista Peter Gutmann e l’agronomo di casa Fabio Sorgiacomo. In sala, un paio di centinaia di produttori provenienti da mezzo nord Italia. Attentissimi. E ne valeva la pena, di stare attenti.
La questione, se dico esattamente cercando di semplificare al massimo, è sostanzialmente questa: a forza di potare e potare per far stare la vite dentro alle innaturali dimensioni del filare, della spalliera, se ne induce una progressiva e per certi versi rapida morte, di fatto occludendo quelle “tubazioni” naturali che portano vita ai tralci e all’uva. Invece la vigna ha bisogno di svilupparsi, perché tende a scappare, geneticamente memore della sue origini. È la violenza della potatura che costituisce il fattore scatenante dei crescenti fenomeni di essiccamento che si notano nei vigneti. Occorre allora rivedere drasticamente i sistemi di potatura, perché questa sua naturale vocazione non venga soffocata e dunque non se n’abbiano danni irreversibili. Così potremo tornare ad avere vigne che resistono quaranta, cinquant’anni, e costituiscono un patrimonio autentico per una cantina.
Insomma: ci siamo sbagliati tutti, e bisogna far dietrofront. In maniera intelligente, ma bisogna tornare indietro. E rivalutare il valore della potatura: se si taglia correttamente, la vite ha vita lunga, altrimenti muore in fretta. I vecchi l’avevano capito, avevano intuito la “psicologia” della vita e l’assecondavano. Con domesticazioni, chessò, ad alberello, a pergola. Invece nell’ultima ventina d’anni ha prevalso il razionalismo produttivo. Abbiamo pensato un po’ tutti che la qualità si avesse aumentando il numero di ceppi per ettaro. La natura, come sempre accade quando si cerca di sovvertirne le regole, s’è ribellata.
Ecco, son questi i discorsi che mi piacciono, son questi i temi della “naturalità” che privilegio. Non m’importa granché dei tanti discorsi sui vini più o meno “naturali”. La naturalità è in vigna. Ridando equilibrio a quell’essere vivente che è la vite. Che ci ripagherà. Con l’uva migliore possibile.
Che dire ancora, se non ringraziare Vittorio Moretti e lo staff di Bellavista che le riflessioni (e le sperimentazioni) in materia – molto più profonde e tecniche di quel che ho cercato di raccontare in queste righe – le ha messe a disposizione di tanti produttori? "Abbiamo voluto creare insieme una giornata di approfondimento e riflessione su questo tema - dice il direttore di Bellavista, Mattia Vezzola, enologo dalla profonda vocazione agronomica - che possa unire le esperienze di molti produttori e di molte aziende agricole italiane per meglio comprendere il futuro dei nostri vigneti". Bravi.

10 commenti:

  1. Sono sempre stato scettico sugli impianti fitti (sopra alle 5/6000 piante x ha) credo che anche in questo caso si debba trovare il giusto equilibrio con l'ambiente dove sono situate le vigne e il vino che si vuole ottenere. Non sempre impianti fissi producono uve eccellenti. Faccio il solito esempio del Prosecco, io gestisco un vigneto molto vecchio (+ di 40 anni) sesto d'impianto 3 mtx 2, vecchio stile, produce la base del mio millesimato.
    Per quanto riguarda le malattie, arrivano oggi barbatelle già infette che muoiono al secondo o terzo anno di vita,e noi vignaioli non possiamo che rimpiazzare la fallanza con una vite nuova. Ti assicuro però che le malattie più gravi si chiamano seghetto e forbicion :).
    Luca

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  2. Vero: seghetto e forbicione fanno grandi danni. Soprattutto - si è detto al convegno - nel caso di tagli orizzontali, con la formazione di rilevanti coni di disseccamento che strozzano la pianta. Personalmente, pur non essendo agronomo, è da tempo che scrivo che nel Veronese è stato un errore abbandonare in toto la pergola, che garantiva freschezza e difesa delle uve: certo, meglio averla sostituita dov'era il caso, ma mica dappertutto era vangelo.

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  3. Spiazzante! Che altro dire? Corsi, studi fatti e agronomi pagati dai produttori per formare, imformare ed aggiornare i sistemi più "intelligenti" per aumentare la qualità del vigneto, uve e infine vino...non hanno servito a niente anzi, hanno portato tutti a sbagliare. E' proprio vero, la soluzione stà nel tornare indietro. Niente più chimica in vigneto!
    Emanuele

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  4. Bravi, incoraggiante. E vi segnalo un altro esempio d imitare. Sull'Etna è nato il primo vino dalla fisica dei "quanti". La quantustica studia il rapporto fra materi ed energia. Oggi esistono applicazioni con strumenti radiomici che portano a ristabilire l'equilibrio della pianta, ovvero il suo status ideale di buona salute, senza ricorrere alla chimica e/o fitofarmaci ed altro. Il vino che ne è nato è arrivato in bottiglia senza un grammo di solfiti. E al naso è una vera poesia. Per saperne di più stefanogurrera@gmsil.com: Sono a vs complea per recapito e informazioni.

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  5. @Emanuele. Sì, spiazzante. E questo dà la dimensione di cosa significhi davvero globalizzare: tutti uguali, tutti tecnicamente allineati, perdendo il senso della storia e della misura. L'ubriacatura non l'ha data il vino, ma il razionalismo esasperato asservito ad una visione liberista dell'economia. C'è da pensare.
    @Alfonso Stefano. E per provare il vino come si fa?

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  6. il consumatore medio considera impianti vitti il bene e potature un po più lunghe il male.
    Speriamo il tempo dia ragione a madre natura

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  7. Campagnola Fernando15 marzo 2010 alle ore 10:57

    Io credo che molti addetti del settore viticoltori ,agronomi,enologi, abbiano perso o meglio non hanno mai avuto, l'"occhio" cioè quell'insieme di capacità, esperienza, tecnica,passione, che servono per gestire meglio le situazioni che si creano anno per anno in un vigneto.
    Io penso che per avere un vigneto che produca qualità non sia solo questione di tecniche agronomiche sesti d'impianto e via discorrendo, ma la capacità del viticoltore di interagire con un'entità viva com'è il vigneto stesso.
    Che poi questo rapporto vigna terreno ambiente e uomo e riassunto in una parola che i francesi amano molto "terroir"

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  8. @Fernando. Ecco, quel che descrivi è esattamente quel che intendo per terroir, a condizione ovviamente che dell'uomo sia in gioco tutto: la sua esperienza, la sua storia, il suo sentimento, la sua appartenenza a una comunità.

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  9. In Emilia, i critici ci hanno sempre massacrato perche avevamo impianti un po meno fitti e piante un po piü grandi della moda corrente. Oggi, quel bel consesso di esperti, fa dietro front. Quando dicevo queste cose, in tempi non sospetti, vedevo i risolini dei presunti esperti... Ma chissa che le nostre uve non siano migliori, piu fresche di altre piu celebrate... Ci vorrebbero delle belle degustazioni cieche...

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  10. Sono assolutamente convinto che impianti fitti non necessariamente danno la miglior qualità, sicuramente danno soddisfazione ai vivaisti. Non sono neanche convinto che potature importanti compromettano la longevità di una vigna, per quanto riguarda la pergola veronese posso tranquillamente affermare e dimostrare che in un mio vigneto, nella zona di Cazzano di Tramigna (Valpolicella allargata) ho qualche vigna che ha un'età di circa 80 anni (mio padre ha 83 anni e lo testimonia)ed è ancora in piena vitalità. Le vigne sono proprio delle piante meravigliose .....

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