23 maggio 2010

Angiolino Maule e il Pico dei crû

Mario Plazio
Metti una serata per una degustazione informale ma approfondita di una annata di Pico, vino prodotto in quel di Gambellara dal vignaiolo naturalista Angiolino Maule. Metti una discussione tra amici sul reale significato dei vari terroir e sull’impatto che una viticoltura poco interventista hanno su di un vino. Ne risulta un assaggio assai (la ripetizione è voluta) stimolante e didattico, di quelli che fanno riflettere.
Comincio con il dire che collaboro con Angiolino all’organizzazione di Villa Favorita, kermesse dedicata ai vini naturali (nella accezione più ampia possibile) che si svolge annualmente a Montebello. Questo per non far sorgere retropensieri su di un eventuale conflitto di interessi.
A me piace indagare, cercare di capire e se possibile (ri)trovare il gusto di un vino originale. Che questo avvenga attraverso un vino bio o naturale che dir si voglia, o attraverso un vino più convenzionale, non ha importanza. O meglio, ne ha, ma non prescindo da alcuni parametri che ciascun vino deve possedere per potermi comunicare a livello emozionale. Ed è indubbio che negli ultimi anni molti di questi vini “emozionali” provengono da vignaioli orientati verso un maggior rispetto del suolo e dello stomaco del consumatore. Chiuso il capitolo, pronto a discuterne più a fondo in sedi più consone. Da alcuni anni Maule ha deciso di imbottigliare il suo vino emblematico, il Pico (lo ricordo, garganega in purezza da terreni vulcanici collinari di Gambellara) in quattro diverse versioni: tre singoli vigneti e un blend paritario di quello che resta, circa il 50% della produzione. Sottolineo infine che il Pico non vede solfiti in nessun momento della sua vita. Per chi volesse maggiori informazioni rimando al sito del produttore. Ho anche inserito i punteggi in centesimi per completezza dell’informazione.
Il Pico dei crû.
Faldeo – il minerale
Leggero perlage. Il più chiuso e ridotto, ha richiesto più tempo degli altri. L’iniziale pesantezza si ribalta con i minuti tanto da divenire il più fine. Pietra focaia, smalto, resina, pera, gelsomino e humus compongono un naso molto variegato. Al palato denota una certa alcolicità che lo rende il più morbido dei tre. Predomina la mineralità, associata ad una bella sapidità. La persistenza è media. Finale da tè macerato e menta.
89
Monte di Mezzo – il balsamico Più intenso di colore. Da subito sembra più disponibile del precedente. Emerge una forte balsamicità associata a profumi di goccia di pino mugo, pesca, fieno e uva passa. In bocca domina una acidità che aiuta nella spinta. Riflettendo è una acidità dovuta ad una materia prima meno fine e compiuta, e per questo emerge con maggior decisione. Il più aperto e prevedibile dei tre, anche se stiamo parlando di un vino comunque fuori dagli schemi. Segnalo un piccolo cenno di ossidazione nel finale, cosa non emersa con Faldeo e Taibane. Niente di preoccupante comunque.
87
Taibane – il fruttato Quello con la tinta più intensa. Sensazione di grande armonia tra le percezione di un frutto maturo e al tempo stesso una favolosa finezza. Il più maturo e fruttato, sfuma nella frutta tropicale (ananas), nella prugna fresca e finisce in un ricordo di sasso bagnato e di balsamico. Al palato propone in certo senso una sintesi tra i due precedenti. Più morbido del Monte di Mezzo e più fresco ed acido del Faldeo, si insinua accogliente, sornione e saggio per non finire più.
92
Conoscendo il Pico da oltre 10 anni e le evoluzioni stilistiche che lo hanno accompagnato in tutto questo tempo, devo riconoscere che finalmente il vino sta trovando un suo equilibrio. Finiti gli anni del legno e delle macerazioni estreme, il Pico si rivela come un vino fine ed equilibrato.
Rivela con grande precisione il suo terroir e guadagna in piacevolezza di beva.
Messo a confronto con un altro noto e pluripremiato vino ottenuto da uve garganega ha messo in luce una prestazione imbarazzante per quello prodotto con metodi “convenzionali”. Soprattutto a livello di qualità di beva, di spontaneità, di assenza di gabbie precostituite.
Perdonate il confronto blasfemo: mi ricorda quella pubblicità di un tè deteinato che, si raccontava, fa bene qui, fa bene qui. Io so solo che il Pico è oggi buonissimo e non fa assolutamente male.

5 commenti:

  1. Bel pezzo, bella degustazione e, sopratutto, bel vino.

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  2. Concordo. E Mario è un ottimo wine-writer, che meriterebbe maggiore ribalta.

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  3. Premetto, non giudico i vini di Angiolino che ho conosciuto un paio di anni fa durante una manifestazione biologicartisticamusicale nella bellisima, ma meritevole di ristrutturazione, villa FILIPPI e VISCO in quel di Castelcerino sopra Soave.
    Aprofitto dell'occasione solamente per esprimere un giudizio non proprio positivo sui vini che non usano la solforosa .... ho sempre o quasi riscontrato poco o tanto l'ossidazione .... qualcuno mi dice che è una peculiarità dei vini biologici, sarà vero ma è una caratteristica che a me non piace.
    Negli ultimi tempi mi si dice che anche senza solforosa qualche bravo produttore riesce, se non proprio a eliminare, almeno a limitare questo fenomeno.
    Per il motivo citato posso dire che i vini biologici non li vado a cercare, ma la filosofia la condivido in pieno e mi piacerebbe sapere se questo problema persiste o qualcosa si è riusciti a fare .... attendo qualche indicazione in merito e magari, perchè no, qualche nome di produttore ... grazie

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  4. @Giordano. Se l'ossidazione non è voluta, allora è un difetto. Ma a volte è un pregio straordinario: Sherry, Marsala, Pantelleria, Jura...

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  5. Ricordo una verticale di Pico a cui partecipai lo scorso giugno (2009). Lo stesso Angiolino fu sorpreso che un'annata che era stata solfitata, rispondeva molto meglio e dava più piacevolezza delle altre.

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